testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione. Corte costituzionale n. 128/2024. In particolare, il repêchage.
1.1. La Corte costituzionale con la sentenza n. 128 del 16 luglio 2024 , di natura additiva, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 23/2015, in riferimento agli art. 3, 4 e 35 Cost., nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria cd. attenuata si applichi anche al licenziamento per giustificato motivo oggettivo per il quale, come per il licenziamento disciplinare, sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale. La Corte, quindi, ha creato una nuova norma eguagliatrice, sul presupposto che la regola della causalità, attuata nel nostro ordinamento dall’art. 1 della l. n. 604/1966 ed espressione della più generale tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.) e del diritto al lavoro (art. 4 Cost.) comporti che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, a prescindere dalla qualificazione data dal datore di lavoro, denota «il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro», con conseguente irragionevolezza della differenziazione di tutela tra fatto materiale insussistente nel licenziamento per ragioni disciplinari e per ragioni oggettive. Il licenziamento, infatti, rimane un «licenziamento pretestuoso, senza causa» , né dalla qualificazione datoriale può inferirsi una diversa «odiosità» del licenziamento tale da giustificare una diversa tutela .
La Corte circoscrive tuttavia la dichiarazione di incostituzionalità, anche nel dispositivo della sentenza, escludendo dal suo ambito l’onere di repêchage, sul presupposto che tale elemento si collochi su un piano diverso – e successivo - rispetto a quello, posto a fondamento della dichiarazione di incostituzionalità, dell’insussistenza del fatto materiale. Tale conclusione alla Corte, di garantire parallelismo alle tutele: così come per il licenziamento per ragioni disciplinari la tutela è reintegratoria solo nel caso di fatto materiale insussistente e non in caso di difetto di proporzionalità del licenziamento (con la precisazione, di cui alla coeva Corte costituzionale n. 129/2024 , che il fatto è insussistente anche quando è stato tipizzato dalla contrattazione collettiva con previsione specifica di sanzione conservativa), allo stesso modo, per il licenziamento per ragioni oggettive, la tutela è reintegratoria solo nel caso di fatto materiale insussistente, e non invece in caso di violazione dell’onere di repêchage. La Corte costituzionale non definisce, nella propria sentenza, la nozione di repêchage, ma si limita ad affermare che la verifica al riguardo ha per presupposto la sussistenza del fatto materiale, perché di ricollocabilità può discutersi solo allorché vengano in gioco questioni organizzative reali, non inventate o pretestuose, e quindi la questione della ricollocabilità fuoriesce dal fatto materiale e si pone a valle dello stesso: una volta che si possa ritenere sussistente il fatto materiale, allora non si versa più nelle ipotesi più gravi, di licenziamento cd. senza causa, e si fuoriesce, quindi dall’area di tutela reale.
La distinzione, tra ciò che sta dentro e fuori dal «fatto materiale», persegue anche l’obiettivo di evitare il contrasto con la legge delega, che esclude per i licenziamenti economici la possibilità di reintegra nel posto di lavoro: se il «fatto è insussistente» allora non può essere qualificato come economico o disciplinare, si pone a monte, prima, della dicotomia tra motivi economici e disciplinari, e quindi non contrasta con il divieto dell’art. 1 co. 7 lett. c l. n. 183/2014 .
2. Fatto e repêchage tra Corte costituzionale n. 128/2024 e Corte di Cassazione: contrasto tra Corti?
2.1. La Corte costituzionale, nell’escludere l’appartenenza del repêchage al «fatto materiale» posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dà atto che, secondo la costante giurisprudenza di Cassazione , al fatto di cui all’art. 18 co. 7 Stat. Lav. appartiene invece anche il repêchage, simmetricamente al «fatto contestato» nel licenziamento disciplinare di cui all’art. 18 co. 4 Stat. Lav., che comprende anche la valutazione di proporzionalità riconducibile alla contrattazione collettiva (punto 11). Al fine di giustificare la diversa configurazione del fatto, la Corte valorizza l’aggiunta, nell’art. 3 co. 2 d.lgs. n. 23/2015, dell’aggettivazione «materiale», non presente invece nell’art. 18 co. 4 e 7 Stat. Lav., per sottolineare la scelta da parte del legislatore (peraltro originariamente riferita al licenziamento per giustificato motivo soggettivo) di una nozione in senso stretto e non più potenzialmente esteso (punti 12 e 13 sentenza).
La pronuncia della Corte costituzionale sembra così introdurre una differenziazione all’interno del fatto che appare inedita anche rispetto ai propri precedenti (Corte cost. 1 aprile 2021 n. 59 e 19 maggio 2022, n. 125, che hanno dichiarato incostituzionale l’art. 18, co. 7, secondo periodo, Stat. Lav., rispettivamente nella parte in cui prevedeva che il giudice “può altresì applicare”, anziché “applica altresì” la tutela reintegratoria, e la seconda all’aggettivazione “manifesta” riferita all’insussistenza del fatto) .
Poiché la pronuncia della Corte costituzionale, secondo le regole generali , risulta immediatamente vincolante anche nella parte in cui esclude che il repêchage attenga al fatto , occorre comprendere se quello che sembra un contrasto tra statuizioni inconciliabili possa essere o meno ricondotto ad unità.
2.2. Considerato che il vincolo giuridico derivante dalla pronuncia della Corte costituzionale riguarda, a rigore, i soli rapporti iniziati dopo il 7 marzo 2015 (l’ambito di applicazione, cioè, del d.lgs. n. 23/2015), una prima opzione è che la Cassazione continui ad applicare il proprio diritto vivente rispetto all’art. 18 Stat. Lav. e si adegui invece alla sentenza della Corte costituzionale con riguardo al Jobs Act, in ragione della diversa formulazione delle due norme e della diversa scelta legislativa sottesa, come sembra del resto suggerire la stessa Corte Costituzionale che valorizza espressamente dette differenze: l’art. 18, co. 7, Stat. Lav. fa riferimento all’ “insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” (anche se ormai, a seguito di Corte cost. 19 maggio 2022, n. 125, neppure “manifesta” ), l’art. 3 co. 2 d.lgs. n. 23/2015 al “fatto materiale” . Il fondamento del diverso trattamento del repêchage sembrerebbe stare qui: - l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, senza ulteriori aggettivazioni, nell’art. 18, co. 7, Stat. lav. ricomprende anche l’omessa ricollocazione e comporta l’applicazione della reintegrazione; - l’insussistenza del fatto “materiale” nel d.lgs. n. 23/2015, invece, non ricomprende la violazione della regola del repêchage, così che la tutela – per un licenziamento illegittimo per questa sola ragione – è solo indennitaria .
2.3. La Corte di Cassazione potrebbe tuttavia ritenere non decisiva la diversità di formulazione delle due norme, allo stesso in modo in cui non ha ritenuto decisiva la diversità di formulazione tra l’art. 18, co. 4, Stat. Lav. («insussistenza del fatto contestato») e l’art. 3 co. 2 d.lgs. n. 23/2015 («insussistenza del fatto materiale contestato»), al fine di escludere l’estensibilità all’art. 3, co. 2, d.lgs. n. 23/2015 dei principi di diritto affermati in relazione alla L. n. 92/2012, principi secondo cui «la tutela reintegratoria c.d. attenuata trova applicazione non solo nel caso in cui il fatto non sia dimostrato nella sua materialità, ma altresì nel caso in cui il fatto, pur sussistente nella sua materialità, sia privo di quella connotazione di illiceità, offensività o antigiuridicità tale e necessaria da renderne apprezzabile la rilevanza disciplinare» . A meno di non argomentare che la formulazione della legge delega, laddove da un lato esclude “per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro”, e dall’altro limita “il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”, consenta e supporti una diversa nozione di “fatto materiale” a seconda che fondi il licenziamento disciplinare o quello per ragioni oggettive.
Non sembra muovere in questa direzione la prima pronuncia (a quanto consta) della Corte di Cassazione successiva a Corte cost. n. 128/2024, che estende le considerazioni svolte per il giustificato motivo soggettivo di licenziamento al giustificato motivo oggettivo, e rileva come «la stretta simmetria imposta dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 128/2024, sul piano della tutela, tra licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, da un lato, e quello per giustificato motivo oggettivo, dall’altro», imponga «di ritenere allora rilevante anche per quest’ultimo non soltanto la sussistenza del fatto inteso nella sua storicità o materialità del suo accadimento, ma pure quella del fatto inteso nella sua rilevanza giuridica come giustificato motivo oggettivo» . Se il «fatto materiale» di cui all’art. 3, co. 2, d.lgs. n. 23/2015 è lo stesso “fatto” di cui all’art. 18, co. 4, Stat. Lav. con riguardo al giustificato motivo soggettivo, allora appare difficile che si tratti di due “fatti” diversi con riguardo al giustificato motivo oggettivo.
2.4. C’è chi, tra coloro che non reputano sufficiente l’aggettivazione «materiale» ai fini di differenziare il fatto rilevante a seconda che si tratti di rapporti ante o post Jobs Act, ipotizza un ripensamento del precedente orientamento della Cassazione rispetto all’art. 18 Stat. Lav. , ripensamento peraltro auspicato da autorevole dottrina già prima della pronuncia della Consulta, anche in considerazione del fatto che altrimenti l’ambito di applicazione della tutela indennitaria resterebbe limitato alla fattispecie di violazione dei criteri di scelta tra lavoratori fungibili .
2.5. Altra parte della dottrina esprime invece perplessità verso questa soluzione, che presuppone di ricostruire in due modi diversi il fatto su cui il licenziamento si fonda. La Corte di Cassazione, cui compete, secondo la legge sull'ordinamento giudiziario n. 12/1941 (art. 65), il compito di assicurare “l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”, potrebbe continuare a ritenere che il fatto posto a fondamento del licenziamento si configuri in modo unitario, in conformità agli artt. 1 e 3 l. n. 604/1966, a prescindere dall’applicabilità dell’art. 18 Stat. Lav. o dell’art. 3 d.lgs. n. 23/2015 . Se è la legge delega (l. n. 183/2014, art. 1 co. 7), nella parte in cui esclude per i licenziamenti economici la possibilità della reintegra, ad imporre questa differenziazione irragionevole all’interno del fatto, si potrebbe forse allora ipotizzare una nuova questione incidentale di costituzionalità.
3. Un’ipotesi interpretativa.
3.1. A fronte della complessità del quadro normativo e giurisprudenziale è forse possibile ipotizzare una diversa via rispetto alle ipotesi, sopra viste, di cristallizzazione del disallineamento tra la nozione del fatto (posto a base del licenziamento), di recepimento da parte della Corte di Cassazione della ridotta nozione di fatto di cui a Corte costituzionale n. 128/2024 anche nell’ambito della l. n. 92/2012 o di rinnovato conflitto tra diritto vivente e statuizione di incostituzionalità. Il tutto anche tenendo conto delle possibili ricadute sull’ampiezza del repêchage delle modifiche in termini di ius variandi introdotte dal d.lgs. n. 81/2015 nell’art. 2103 c.c. e comunque degli obblighi di buona fede e correttezza che sempre permeano il rapporto di lavoro.
Un’opzione potrebbe essere quella di distinguere nell’ambito stesso del repêchage ciò che sta dentro e ciò che sta fuori dal fatto posto a base del licenziamento, vale a dire quanto attiene direttamente al nesso causale tra riorganizzazione e recesso e quindi appartiene al fatto, con la conseguenza dell’applicazione della tutela reale (attenuata) in caso di sua insussistenza, e quanto invece sta a valle del fatto, attenendo alla nozione di licenziamento come extrema ratio, trovando fondamento nella tutela costituzionale del lavoro e nell’adempimento dei doveri costituzionali di buona fede e correttezza. Come visto al paragrafo precedente, la Corte di Cassazione successiva a Corte costituzionale n. 128/2024 sembra offrire elementi argomentativi in questo senso: se il «fatto materiale» posto a base del licenziamento deve ritenersi insussistente anche quando, pur essendo reale ed effettivo nel suo accadimento, tuttavia non è idoneo a giustificare il licenziamento, perché «giammai avrebbe potuto integrare gli estremi di un giustificato motivo oggettivo», non diversamente da quanto accade per il giustificato motivo soggettivo di licenziamento, in cui l’«insussistenza del fatto» comprende anche il fatto sussistente nella sua materialità ma privo di rilievo disciplinare , allora, allo stesso modo, nuove assunzioni successive al licenziamento, per lo stesso profilo o per profili compatibili con quello del dipendente estromesso, elidono in radice il nesso causale tra l’accadimento e il licenziamento.
L’operazione proposta, di distinzione delle diverse ipotesi di repêchage, non aveva ragion d’essere quando la tutela era unica per tutti i vizi del licenziamento, e quindi nel vigore dell’art. 18 Stat. Lav. antecedente alle modifiche di cui alla l. 92/2012; né appariva utile in seguito, stante il diritto vivente della Corte di Cassazione in punto di appartenenza del repêchage al fatto posto a base del licenziamento e quindi all’area della tutela reintegratoria; né infine, con riferimento al d.lgs. 23/2015, che nella formulazione ante declaratoria di costituzionalità escludeva dalla tutela reintegratoria tutti i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Ora, invece, scardinato il divieto di reintegra per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, questa valutazione può essere importante.
3.2. In questa prospettiva, rientra nel fatto posto a base del licenziamento, e quindi nell’area di tutela reintegratoria attenuata, il mancato assolvimento dell’onere di repêchage nel caso in cui siano assunti lavoratori per svolgere le stesse mansioni del lavoratore licenziato, da intendersi mansioni con lo stesso contenuto professionale, anche se, in ipotesi, il neo assunto sia stato formalmente inquadrato in un livello contrattuale diverso. In questo caso, l’omessa ricollocazione del lavoratore attiene al fatto, anche se «materiale» e quindi da intendersi in senso stretto, secondo Corte costituzionale n. 128/2024, perché, se è stato assunto qualcun altro per svolgere le stesse mansioni del lavoratore licenziato, anche in un momento successivo al licenziamento, significa che il posto non è stato soppresso e che l’esigenza di riduzione del personale che è stata posta a base del licenziamento non c’era.
Alla medesima conclusione si può pervenire con riferimento a nuove assunzioni in mansioni che presuppongano il medesimo bagaglio professionale: se è stato assunto qualcuno per svolgere mansioni che anche il lavoratore licenziato poteva svolgere, perché le aveva già svolte nel passato o perché possiede tutte le competenze necessarie per svolgerle, senza necessità di formazione o affiancamento alcuno, allora il fatto (anche quello «materiale») posto a base del licenziamento non sussiste. Il licenziamento, infatti, è stato determinato dalla volontà del datore di lavoro di non adibire alle alternative mansioni disponibili quello specifico lavoratore, non dalla soppressione delle mansioni: non vi è alcun nesso causale tra il fatto addotto dal datore di lavoro, che era un fatto incompleto, perché non ricomprendeva l’impossibilità di ricollocare il lavoratore e il licenziamento. Si tratterebbe, cioè, per dirla con la Corte costituzionale , di un licenziamento non qualificabile come licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ma di un licenziamento pretestuoso, “senza causa”, che si colloca al confine con il licenziamento discriminatorio. Anche in questa ipotesi si verifica una situazione di «insussistenza del fatto», anche «materiale», perché il fatto comprende anche il riutilizzo del lavoratore in mansioni che erano disponibili e che il lavoratore poteva svolgere.
Le stesse considerazioni sembrano potersi riferire anche, in mancanza di mansioni equivalenti, alle mansioni inferiori, ove accomunate dal medesimo bagaglio professionale. Anche in tal caso, laddove il lavoratore abbia l’esperienza e le competenze per svolgere le mansioni inferiori e il datore di lavoro scelga di licenziare e assumere altro lavoratore, non sussisterebbe il fatto posto a base del licenziamento, perché la scelta di assumere un nuovo dipendente anziché di far lavorare chi possedeva il bagaglio professionale idoneo alle mansioni non può assurgere, appunto, a fatto, nemmeno «materiale», giustificativo del licenziamento. Con la precisazione che la situazione non sarebbe regolata dall’art. 2103, co. 2, c.c., come modificato dal d.lgs. n. 81/2015, che si riferisce al cd. giustificato motivo oggettivo di demansionamento , vale a dire “di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”, bensì dall’art. 2103, co. 6, c.c., che consente alle parti, “nell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione”, di addivenire, in sede protetta, alla novazione del rapporto di lavoro quanto a mansioni, livello di inquadramento e relativa retribuzione. Il datore di lavoro è tenuto, in caso di soppressione delle mansioni del lavoratore, ad offrire, in alternativa al licenziamento, la ricollocazione nelle mansioni inferiori eseguibili, ma non a mantenere l’inquadramento e la retribuzione precedenti.
3.3. Sembra invece attenere ad un momento successivo rispetto alla verifica della sussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento, e quindi rimanere esclusa dalla tutela reintegratoria, l’omessa adibizione del lavoratore a mansioni che, pur non appartenendo al suo bagaglio professionale, rientrino comunque nel suo livello di appartenenza o, in mancanza, nel livello inferiore , in correlativa applicazione del criterio di esigibilità delle mansioni sostituito a quello dell’equivalenza nell’art. 2103, co. 1, c.c. come modificato dal d.lgs. n. 81/2015. La stessa Cassazione ha al riguardo avuto modo di evidenziare che nel rinnovato contesto legale, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non può rappresentare una circostanza muta di significato, ma anzi, costituisce un elemento che il giudice dovrà valutare», al fine dell’accertamento in concreto dell’assolvimento dell’onere di repêchage, fermo ovviamente il limite del”l'eterogeneità del corredo di capacità e di esperienze professionali rispetto alla diversa posizione lavorativa libera in azienda”, che non può essere tale da “far venire meno il fondamento stesso dell'obbligo di repêchage, che evidentemente postula che le energie lavorative del dipendente siano utilmente impiegabili nelle alternative mansioni che al medesimo debbano essere assegnate” .
Si tratta di comprendere quale estensione concreta l’onere di repêchage possa avere con riguardo a mansioni appartenenti al medesimo livello contrattuale ma presupponenti capacità professionali e conoscenze diverse rispetto a quelle proprie delle mansioni già svolte. La maggior parte della giurisprudenza attualmente non inferisce dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 81/2015 nell’art. 2103 c.c. la conseguenza che il datore di lavoro sia tenuto ad offrire anche mansioni per le quali sia necessaria una formazione aggiuntiva , perché ravvisa differenze insuperabili tra l’obbligo di ricollocazione del lavoratore per evitare il licenziamento e il potere di assegnazione di mansioni diverse , o comunque anche sulla base dell’osservazione per cui pure nell’art. 2103 c.c. il mancato adempimento dell’obbligo formativo non è previsto in realtà a pena di nullità dell’assegnazione alle nuove mansioni . Ad ogni buon conto, una corretta applicazione dei criteri di buona fede e correttezza nell’ambito di un rapporto contrattuale di natura sinallagmatica quale è il rapporto di lavoro (artt. 1175 e 1375 c.c.) , sembra non poter prescindere dalla considerazione dell’ampliamento dell’ambito di esigibilità delle mansioni in esito alle modifiche dell’art. 2103 c.c., esteso potenzialmente a tutte le mansioni equivalenti, con correlativo onere del datore di lavoro di provare il contrario. Non si ravvisa infatti ragione per escludere che l’onere di ricollocazione ricomprenda, come infatti di recente ribadito dalla Corte di Cassazione, l’“impossibilità di utilizzare il dipendente licenziato in altre mansioni, non necessariamente equivalenti e previa adeguata formazione ove in concreto somministrata agli altri dipendenti assunti sul medesimo ruolo” . Il datore di lavoro, in adempimento di tali principi, dovrebbe quindi provare per quali ragioni non sia possibile farsi carico nei confronti del lavoratore individuato da licenziare di un onere formativo/di affiancamento negli stessi termini di quello sostenuto nei confronti dei neo assunti.
In questo caso, il fatto posto a base del licenziamento sussisterebbe, consistendo nella effettiva e stabile soppressione delle mansioni del lavoratore in assenza delle stesse o di altre mansioni analoghe che egli fosse già in grado di svolgere; a valle della sussistenza del fatto si collocherebbe la verifica, in adempimento dei principi di buona fede e correttezza contrattuale, dell’assenza di ulteriori alternative di ricollocazione, nell’ambito del livello contrattuale o, in mancanza, nei livelli inferiori.
3.4. La ricostruzione proposta sembra consentire di riportare ad unità il fatto posto a base del licenziamento, e sembra essere al contempo coerente con la conclusione cui sia la Corte costituzionale sia la Corte di Cassazione sono pervenute in ordine al mancato rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nella selezione del lavoratore da licenziare nel caso di personale fungibile (e sempre che la scelta non sia discriminatoria): i criteri di buona fede e correttezza impongono, a fronte di un’eccedenza di personale, sia di scegliere correttamente la persona da licenziare, sia di adibirla a mansioni diverse quando la formazione/affiancamento necessari siano gli stessi erogati al personale neo assunto. In entrambi i casi gli accertamenti si pongono a valle rispetto alla verifica della sussistenza del fatto, e fuoriescono, dunque, dalla tutela reintegratoria, sia che si applichi l’art. 18, co. 7, Stat. Lav., sia che si applichi l’art. 3, co. 2, d.lgs. n. 23/2015. Appartiene invece alla verifica della sussistenza del fatto posto a base del licenziamento, anche con l’aggettivazione di «materiale», e quindi all’area di tutela reintegratoria, l’onere di ricollocazione in mansioni disponibili identiche o analoghe a quelle già svolte, appartenenti al medesimo bagaglio professionale, tali che il lavoratore possa svolgerle senza bisogno di formazione/affiancamento.