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  • Professore, quando e perché ha scelto il Diritto del lavoro come materia da approfondire scientificamente?

 

La domanda mi fa tornare alla mia formazione adolescenziale: dovuta, da un lato, a mio padre avvocato e, dall’altro, alla mia militanza nella Gioventù cattolica. L’educazione paterna mi faceva essere attento al rispetto delle regole di convivenza (tanto che per me non è mai stata in discussione la Facoltà di Giurisprudenza). Mentre l’educazione cattolica m’inculcava lo spirito comunitario e il valore della solidarietà. Nasce così anche la mia sensibilità alla politica. Fin da ragazzo leggevo i giornali e mi piaceva parlare d’istituzioni, organizzazione sociale, giustizia, formazione civile, specie tramite i corpi intermedi (associazioni, partiti, sindacati). Non a caso poi questo periodo coincideva col primo decennio post-costituzionale. Un decennio che per me, dopo la maturità, si concluse appunto coll’iscrizione (ottobre 1960) alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli (oggi Federico II).

Sulla scelta poi del Diritto del lavoro incise il risultato dell’esame: trenta e lode. Una delle poche lodi. Non ero uno studente brillante ma uno studente “medio” (beninteso non “mediocre”). Dunque questi due fattori – interesse per la politica e voto dell’esame – mi spinsero a rivolgermi al Prof. Giuseppe D’Eufemia, da poco chiamato alla cattedra di Diritto del lavoro di questa Facoltà.

D’Eufemia era stato professore di diritto pubblico (e di diritto corporativo). Però, caduto il fascismo, s’era subito interessato – da cattolico democratico – alla Costituzione repubblicana del 1948, “fondata sul lavoro”, continuando a insegnare Istituzioni di diritto pubblico all’Istituto Universitario Navale di Napoli. Fu chiamato nel ‘63 alla cattedra di Diritto del lavoro nella Facoltà di Giurisprudenza avendo chiare intenzioni innovative. In effetti succedeva a un autorevole professore di diritto corporativo, Antonio Navarra, col quale peraltro io avevo sostenuto l’esame. Però la tendenza innovativa di D’Eufemia, data la sua formazione pubblicistica, non arrivava al punto di allinearsi alla “nuova” dottrina giuslavoristica, capeggiata da Francesco Santoro-Passarelli. Dottrina che era riuscita a sganciare la materia dal Diritto pubblico-corporativo e a farla ritornare nel Diritto privato. D’Eufemia cioè aveva mantenuto il taglio del giuspubblicista in avvicinamento alla visione privatistica. Aveva infatti pubblicato, tra l’altro, una monografia su Le situazioni soggettive del lavoratore dipendente, riflettendo su come i diritti costituzionali del lavoratore potessero trovare spazio nel contratto.

D’Eufemia (che appariva più anziano della sua età) era un uomo severo, ma accogliente e cortese. Soprattutto aveva vasta cultura, anche filosofica e letteraria. Gli chiesi la tesi di laurea, avanzando la mia propensione a occuparmi del ruolo dei sindacati. Mi assegnò una tesi su Soggetti, forme e natura dell’attività sindacale.

  • La Sua formazione di giurista e poi i primi anni della vita accademica coincidono con l’epoca dello Statuto dei lavoratori ma anche con un periodo (gli anni ‘70) caratterizzato da turbolenze sociali, da una polarizzazione della lotta politica ecc. Cosa le piace ricordare di quel periodo?

 

È opportuno fare un passo indietro rispetto agli anni ‘70 di cui alla domanda. Più che altro per capire meglio anche i percorsi che porteranno allo Statuto. Infatti è coi primi anni ‘60 che si aprì un’interessante stagione politica e sindacale. Anzitutto politica, perché s’avviava il dialogo tra Democrazia Cristiana e Partito Socialista Italiano, che porterà al primo Governo di centro-sinistra. E poi anche sindacale, perché già verso la fine del decennio ‘50 (diciamo intorno al ‘57-‘58) era cominciata una ricomposizione, seppure parziale, della conflittualità “endo-sindacale” – specie tra cattolici e comunisti – dopo la famosa scissione del 1951. Quando cioè la componente cattolica del sindacato aveva abbandonato l’organizzazione unitaria dei lavoratori, a prevalente presenza comunista, e fondato la Cisl, seguita poi dalla Uil, che raccoglieva le adesioni nell’area laica e della sinistra non marxista. Ora, appunto verso la fine del decennio ‘50, queste Confederazioni storiche – Cgil, Cisl e Uil – avevano cominciato ad avere fra loro rapporti più distesi partendo dalla cosiddetta “unità d’azione” sindacale.

È bene inoltre tenere presente che gli anni ‘50 furono quelli del boom economico, in cui l’Italia ebbe una sostanziosa crescita grazie all’apporto decisivo della “classe operaia”, che infatti cominciava a farsi sentire. Sicché il sindacato, acquistando un certo peso financo nella vita politica, non smentiva la sua autonomia, ma nemmeno poteva smentire la storica interdipendenza tra partiti e sindacati. Nel dopoguerra la Cisl fiancheggiava la Democrazia Cristiana; la Cgil era la “cinghia di trasmissione” soprattutto del Partito Comunista, ma raccoglieva anche adesioni dal Partito Socialista di Nenni; la Uil intratteneva rapporti coi Partiti del centro laico (repubblicani e persino alcuni liberali) e coi socialdemocratici di Saragat. Per dirla tutta, si può aggiungere che, siccome s’era nell’epoca del cosiddetto “bipartitismo imperfetto” e, se si preferisce, della “democrazia bloccata” – democristiani e centristi sempre al Governo, comunisti sempre all’opposizione – alcune rivendicazioni dei lavoratori arrivavano in Parlamento passando, guarda caso, attraverso le rivendicazioni sindacali.

Arrivati allora ai primi anni ‘60, nel Governo di centro-sinistra si cominciò a parlare di interventi incisivi in materia di lavoro. Pur essendo la Cisl restia a interventi legislativi – seguendo l’ideologia per cui spetta sempre e soltanto all’autonomia sindacale occuparsi del lavoro – a luglio del 1966 si arrivò alla legge 604 sul “giustificato motivo” di licenziamento, vista ex post come anticipatrice della logica dello Statuto. Senza dubbio fu rilevante in particolare la forza della Cgil, organizzazione maggioritaria soprattutto nel lavoro privato (laddove la Cisl era più presente nell’impiego pubblico).

È comunque importante non trascurare che alcuni leader sindacali cattolici (come Pastore) erano parlamentari della Democrazia Cristiana, così come alcuni leader sindacali comunisti (come Di Vittorio) erano parlamentari del Partito Comunista. Gli equilibri politico-sindacali, insomma, apparivano quanto mai delicati e per certi versi singolari, ma erano importanti e oggi andrebbero storicamente valorizzati, anche per meglio capire la genesi dell’attuale panorama sindacale e la necessità di fare chiarezza nella “maggiore rappresentatività sindacale”.

Basta ricordare, per esempio, il dibattito post-costituzionale sull’attuazione (dei commi successivi al primo) dell’art. 39 della Costituzione: osteggiata soprattutto dal sindacato cattolico, preoccupato dell’egemonia della Cgil. A dimostrazione che a livello confederale, più che nella base dei lavoratori, la visione unitaria del sindacato è sempre stato un problema sentito ma complicato. Non a caso anche oggi vediamo maggiore intesa tra Cgil e Uil e tensioni tra queste e la Cisl.

Senza farla troppo lunga (e tornando ai miei percorsi di studio), diciamo che l’epoca era in ogni caso favorevole allo studio, nel Diritto del lavoro – oltre che ovviamente della legislazione e della giurisprudenza – pure dell’azione sindacale e della contrattazione collettiva. Io, dopo l’assegnazione della tesi (specialmente nel 1964), mi ci buttai con passione coltivando l’aspirazione a seguire la carriera accademica, pur conoscendone le difficoltà. Ricordo d’aver avuto utili suggerimenti per la tesi dal Prof. Bruno Balletti (uno studioso, ora scomparso, autore d’un libro appena uscito sull’autonomia sindacale), al quale mi aveva presentato l’amico comune Giuseppe Ianniruberto (ottimo magistrato del lavoro, ora in pensione da Presidente Emerito della Corte di Cassazione).

Anche su consiglio di D’Eufemia – e avendo appena ventidue anni – ritenni utile approfondire i temi della tesi, rinviando la laurea di alcuni mesi. Anziché nelle prime sessioni del 1964, all’ultima del quarto anno (marzo ‘65). Tra la fine del ‘64 e i primi mesi del ‘65 passai alcuni mesi a Roma, nella biblioteca della Cisl in via Po, per consultare stampa e documenti sindacali e incontrare alcuni sindacalisti per entrare in contatto anche con la realtà e le prassi sindacali.

  • Quali erano, all’epoca, i problemi sindacali di qualche interesse e di rilievo anche politico?

 

Faccio un esempio, credo significativo. All’epoca si parlava, tra l’altro (non solo in Italia), di “programmazione economica”. Il Partito socialista – entrato agli inizi degli anni ‘60 nel primo Governo di centro-sinistra – aveva tra i suoi obiettivi, grazie all’impegno di Giorgio Ruffolo, appunto la programmazione economica. Questa – basata sul confronto costruttivo e impegnativo tra Governo e parti sociali, prima d’ogni decisione riservata dalla Costituzione al legislatore – era all’epoca un’ipotesi in teoria rilevante dal punto vista politico, economico e sociale, prevista dalla Costituzione. Che all’art. 41, 3° comma, afferma: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Beninteso, la norma non contempla una legislazione dirigista, bensì un programma di massima volto a indirizzare i comportamenti dei protagonisti dello scenario economico e sociale, avendo una visione di futuro compatibile con l’utilità sociale (alla fin dei conti quello che oggi si indica come una visione di “politica industriale”). In pratica però la programmazione economica non fu mai realizzata perché apriva vari e complessi problemi, dei quali alcuni proprio sull’azione sindacale. Partecipare alla programmazione economica, infatti, se per un verso consentiva al sindacato d’incidere sulle decisioni di politica economica – quindi anche di politica industriale – per un altro verso comportava l’assunzione d’impegni che avrebbero potuto imbrigliare troppo a lungo rivendicazioni dei lavoratori, strategie e lotte sindacali.

Ma in quel periodo non c’erano le condizioni oggettive per attuare un simile confronto. C’erano già molti fermenti e pure turbolenze sociali e polarizzazione della lotta politica. Vale a dire i prodromi “rivoluzionari” del ‘68 e la politica del diritto sullo Statuto dei lavoratori. Solo nei decenni successivi si riuscirà al massimo a praticare – e anche con successo – la “concertazione sociale”, che però si distingue nettamente dalla programmazione economica in quanto riguarda problemi specifici e di breve periodo.

Ebbene, nella mia tesi di laurea affrontai anche il problema della programmazione economica. E, dopo la laurea, nel 1966, commentando un Convegno francese sul tema (riportato dalla rivista Droit Social), pubblicai il mio primo scritto, dal titolo A proposito dei rapporti tra Stato e sindacati, un ingenuo saggetto apparso su Il diritto del lavoro, una delle più antiche, e anche autorevoli, Riviste giuslavoristiche, allora diretta da Luigi A. Miglioranzi – che ebbi modo di conoscere direttamente – e poi portata avanti dopo vari anni dal compianto Matteo Dell’Olio, dopo la cui scomparsa ora è estinta.

Aggiungerei che oggi più di allora – in piena rivoluzione tecnologica, globalizzazione dei mercati, transizione ecologica e conseguente cambiamento del lavoro umano – sarebbe importante riprendere, adattandolo, il discorso su programmazione e concertazione, perché solo dal confronto serio e leale tra Governo e parti sociali possono nascere misure adeguate e credibili di politica economica, industriale e sociale nell’interesse generale. Su questo peraltro concordano le tre Confederazioni sindacali, ma la Cisl in particolare è idealmente portata a privilegiare la “partecipazione” al “conflitto” (sulla quale ha allestito pure una proposta di legge d’iniziativa popolare).

  • Vogliamo tornare ai primi anni della sua vita di giuslavorista?

 

Certamente. Riprenderei chiedendo d’immaginare, dopo quanto ho detto, quali tormentati interessi, anche politici, mi animassero. E così, pur senza aderire ad alcun partito, in quell’epoca nacque la mia posizione “di sinistra”. Rischiando un’eccessiva semplificazione, posso dire che – avendo avuto anche qualche allettante proposta confindustriale – dovendo scegliere tra “capitale” e “lavoro”, scelsi di stare dalla parte del lavoro. Ma senza alcuna militanza per essere libero di sostenere o criticare il movimento dei lavoratori e le politiche sindacali, senza fanatismi o fondamentalismi.

D’altronde, si sa, all’epoca la lotta sindacale aveva senza dubbio un grande peso nella società italiana: non solo per il riscatto e la promozione dei lavoratori, ma per la crescita civile dell’intera società. Si può perciò condividere un’opinione diffusa, secondo cui la lotta dei lavoratori poteva fare da battistrada alla “cultura dei diritti”, andando ben al di là delle sole rivendicazioni dei lavoratori. Per costoro però quella lotta del ‘68 affrettò l’itinerario – prima di studio e poi politico e parlamentare – della legge 20 maggio 1970 n. 300, il cosiddetto “Statuto dei diritti dei lavoratori”, voluto dal Ministro socialista Giacomo Brodolini con la consulenza tecnico-giuridica di Gino Giugni. Dunque i miei primi anni di studio coincisero con l’epoca della “confezione” dello Statuto dei lavoratori, per la quale Giugni consultò i più autorevoli giuslavoristi dell’epoca.

Emanato nel maggio del 1970, lo Statuto fu tenuto a battesimo – dopo la prematura scomparsa di Brodolini – dal Ministro del lavoro democristiano Carlo Donat Cattin, che aveva mantenuto la consulenza di Giugni, cui si deve la stesura della legge. Non per niente da allora Giugni fu chiamato – e lui lo ricordava con la consueta autoironia – il “padre dello Statuto dei lavoratori”.

  • Lei ha insegnato principalmente all’Università di Napoli Federico II, Ateneo presso il quale ha rivestito diverse cariche istituzionali. Vuole raccontare i “passaggi” principali della Sua carriera accademica, segnalando i momenti che ritiene siano stati essenziali nella sua esperienza di professore universitario?

 

Laureatomi a marzo del ‘65, Giuseppe D’Eufemia – pur avvertendomi che mi sarei avventurato in un percorso lungo e impervio e che lui avrebbe potuto guidarmi ma non promettermi traguardi – mi accolse volentieri come primo giovane collaboratore. Egli aveva ereditato dal suo predecessore Antonio Navarra gli assistenti. A parte un assistente straordinario (di cui dirò più avanti e comunque incompatibile con Navarra), erano tutti avvocati impegnati nella professione forense e poco dediti agli studi e alla didattica. E così mi fece nominare, a soli sei mesi dalla laurea, “assistente volontario”, chiamandomi a partecipare a lezioni, esercitazioni ed esami. L’assistente volontario era all’epoca una sorta di primo gradino della carriera accademica: la “gavetta”, tanto per intenderci. La nomina era in pratica di discrezione del titolare della cattedra ed era ovviamente “a titolo gratuito”. E tuttavia gratificante per un giovane poco più che ventenne. Fortunatamente già nel 1966 ottenni una borsa di studio dell’Ateneo; e non posso dimenticare quanto D’Eufemia – forse apprezzando le mie prestazioni, anche umili (mai però da “portaborse”) – tenesse a che io cominciassi a guadagnare qualcosa.

Da allora la mia dedizione all’Università fu totale. Per la verità nel 1968 superai anche l’esame (allora) di “procuratore legale” e m’iscrissi al relativo albo. Ma, a parte qualche costituzione in giudizio (necessaria per diventare avvocato automaticamente dopo qualche anno, perciò imposta da mio padre), non ho mai davvero esercitato la professione forense, che non trovavo attraente, salvo che per i soldi. Forse anche perché, vedendo mio padre che lavorava tantissimo – da avvocato “vecchio stampo” – la professione mi avrebbe impedito di dedicarmi all’Università. E a me piaceva studiare e insegnare. Sicché, dopo alcuni anni d’inutile pagamento dell’iscrizione all’Ordine, decisi anche di chiedere la cancellazione dall’albo.

Oltre tutto, all’Università c’era da costruire da zero l’Istituto di diritto del lavoro. Così cominciai a comprare e catalogare molti libri, tanto da poter dire che l’Istituto stava nascendo da un paio di scaffali o poco più in una biblioteca per così dire “condominiale”; e che una delle prime conquiste in Ateneo fu appunto quella d’avere uno spazio degno dell’Istituto. Anche perché D’Eufemia andava prendendo le distanze dall’impostazione metodologica della materia e dalla vecchia gestione della cattedra.

Nel 1967 fu assegnato dal Ministero alla cattedra di Diritto del lavoro un posto di assistente ordinario. Ovviamente non certo “destinato” a me – arrivato da nemmeno due anni – ma ad altri (diciamo pure per ragioni politico-accademiche). Potei però, grazie a D’Eufemia, partecipare al relativo concorso, ottenendo almeno l’idoneità: risultato importante, anzi in seguito prezioso.

Infatti qui entrò in scena un illustre studioso di grande fama, al quale sono tuttora grato anche per i tanti insegnamenti: Luciano Spagnuolo Vigorita. Essendo egli “assistente straordinario” di Diritto del lavoro nella Facoltà – e nonostante avesse già vinto la cattedra a Bari, dov’era stato incaricato – accettò di fare il concorso solo per trasformare il posto di assistente da “straordinario” (dipendente dell’Ateneo) in “ordinario” (dipendente del Ministero), ai sensi di una delle strane leggine del passato ordinamento universitario. Senza questa trasformazione, infatti, il posto sarebbe stato soppresso. Fu un gesto di generosità nei miei confronti: Spagnuolo Vigorita, già cattedratico, avrebbe subito lasciato il posto di assistente, che D’Eufemia avrebbe destinato a me (già in possesso di quella “preziosa” idoneità).

Così, dal 1° febbraio 1968, ebbe inizio la mia lunga carriera accademica. Ero finalmente inserito “a vita” nel primo dei ruoli universitari dell’epoca. È inutile dire che nei tre anni di “volontariato” io andavo approfondendo il mio studio del Diritto del lavoro. Oltre ai frequenti colloqui con Giuseppe D’Eufemia e con Luciano Spagnuolo Vigorita, mi fu di grande aiuto l’altrettanto assidua interlocuzione con un giovane studioso, colto, intelligente e impegnato, Fabio Mazziotti di Celso, in seguito autorevole cattedratico in varie Università italiane e poi a Napoli, purtroppo prematuramente scomparso. Con lui si affrontavano tutte le problematiche, inquadrandole nell’acceso contesto politico-sociale e sindacale. Anche perché assieme contribuimmo alla scrittura dei due Manualidi diritto del lavoro e di diritto sindacale – che D’Eufemia pubblicò in quegli anni. Questa collaborazione ai Manuali fu per me sicuramente molto fruttuosa. In realtà D’Eufemia era curioso e interessato alla modernità. Affrontava, per esempio, con grande apertura le scottanti problematiche dello sciopero, specialmente dello sciopero politico. Riconoscendosi nel cattolicesimo sociale, si rendeva conto che lo “sciopero-diritto”, affermato nell’art. 40 della Costituzione, aveva un’importanza vitale per il movimento sindacale; e contestava le opinioni di chi voleva tornare alle tesi antistoriche del semplice “sciopero-libertà”, se non addirittura dello “sciopero-reato”. C’era infatti chi, evidentemente privo di elementare coerenza logica, arrivava a sostenere che, finché non fossero state emanate le leggi attuative dell’art. 40, sarebbero rimaste in vigore le norme “punitive” del codice penale. Fortunatamente non la pensava allo stesso modo la giurisprudenza di fronte agli scioperi che venivano tranquillamente effettuati dai lavoratori.

Insomma, collaborando con Fabio Mazziotti alla stesura dei Manuali di D’Eufemia ebbi modo d’imparare il Diritto del lavoro dalla A alla Z. Seguivo poi anche le lezioni del professore, il quale a volte, senza neanche avvertirmi, a un certo punto s’interrompeva e m’invitava a prendere la parola per continuare la lezione. Evidentemente lo faceva anche per tastare il polso della mia preparazione: progresso negli studi e mia capacità didattica.

Tra l’altro, avendo pubblicato nel 1966 l’articoletto di cui ho detto prima, dopo qualche mese – tenendo conto dei problemi, anche costituzionali, creati dalla legge 741 del ‘59 – annotai una sentenza in materia, sempre per Il diritto del lavoro. E poi scrissi un articolo su Efficacia soggettiva del contratto collettivo e art. 36 della Costituzione – terminato nel 1969, ma pubblicato solo nel primo numero del ‘70 della Rivista di diritto del lavoro diretta da Carullo (divenuta, dopo molti anni, l’attuale Rivista italiana di diritto del lavoro).

Un evento doloroso e inaspettato, che incise molto sulla mia vita accademica, fu la morte improvvisa di Giuseppe D’Eufemia a marzo del ‘70. Si può immaginare in quale situazione di smarrimento mi fossi trovato. Restavo infatti orfano accademicamente.

Al contrario, come talora accade nella vita, un fatto doloroso può avere esiti positivi. Come fu per me l’attribuzione della supplenza di D’Eufemia al Prof. Renato Scognamiglio, un civilista abbastanza giovane ma già famoso – allievo di Francesco Santoro-Passarelli – che nella Facoltà napoletana insegnava Diritto commerciale e Diritto privato comparato. E che però aveva sempre studiato anche il Diritto del lavoro, contribuendo, con Santoro-Passarelli, alla transizione della materia dal diritto pubblico al diritto privato. Transizione che, oltre a provocare il mutamento integrale della prospettiva e dell’approccio metodologico di studio della materia, ne implicava altresì l’automatico inserimento nell’ampio gruppo disciplinare privatistico. E difatti, all’epoca, quasi tutti i docenti di Diritto privato insegnavano per incarico anche il Diritto del lavoro.

Dal punto di vista della carriera accademica fu per me decisivo l’incontro con Scognamiglio, che faceva parte, con autorevolezza, d’un giro accademico d’importanti studiosi a livello nazionale e fece il mio nome quando gli fu chiesto d’individuare un giovane allievo disposto a insegnare Legislazione del lavoro nella Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Catania. Io accettai quell’incarico – benché gratuito, ma conservando il posto d’assistente ordinario a Napoli – per l’importanza (ai fini della carriera) d’avere a ventotto anni la titolarità d’un insegnamento ufficiale con le relative responsabilità scientifiche e didattiche. A Catania ho insegnato per sei anni: sempre gratuitamente ma acquisendo, dopo i primi tre anni (e grazie ai “Provvedimenti urgenti per l’Università” del 1973), la qualifica di “professore incaricato stabilizzato” (paragonabile grosso modo all’attuale qualifica di “professore associato”).

L’esperienza catanese fu per me una palestra di straordinaria formazione, pur comportando sacrifici economici e l’aggravio degl’impegni. Facevo infatti la spola, almeno a settimane alterne, tra Napoli e Catania, senza sottrarmi ai doveri di assistente ordinario a Napoli. Dove peraltro in quei sei anni si verificarono non poche novità. Anzitutto la chiamata alla cattedra di Diritto del lavoro della Sapienza (e relativo trasferimento a Roma) di Renato Scognamiglio. Che, dopo qualche altro anno d’incarico a Napoli, venne sostituito da Edoardo Ghera, il più autorevole esponente della Scuola barese di Gino Giugni. Ghera, residente a Roma, venne a Napoli animato da grande spirito d’iniziativa e “voglia di fare” e anche da lui ho imparato davvero tanto. Poco dopo anche Luciano Spagnuolo Vigorita dalla cattedra di Bari si trasferì alla cattedra di Diritto del lavoro della Facoltà di Economia di Napoli.

Ma a Napoli s’era già formato un gruppo di giovani lavoristi. Primo fra tutti – già inserito da D’Eufemia – uno studioso d’eccezionale valore: Raffaele De Luca Tamajo. Successivamente Francesco Santoni e Giuseppe Ferraro. Tutti impegnati, assieme ad altri collaboratori, nell’elaborazione – da me coordinata – del Codice di Diritto del lavoro annotato con la giurisprudenza, curato da Renato Scognamiglio per l’editore Zanichelli.

  • Tra i tanti studiosi che ha conosciuto quali sono quelli (non solo giuslavoristi, se vuole) ai quali è stato più legato? E quanto questi rapporti culturali e, talora, di amicizia, hanno influito sul Suo pensiero e sulla Sua produzione scientifica?

 

Difficilissimo rispondere a questa domanda. Posso tentare di farlo soltanto ripercorrendo ancora la storia del Diritto del lavoro in parallelo con la mia storia. Ho già detto che gli anni ‘70 coincidono con la trasformazione epocale di esso, determinata dallo Statuto dei lavoratori, lo spartiacque per la nostra materia. Si potrebbe infatti dire che c’è un Diritto del lavoro prima dello Statuto e dopo lo Statuto. Quasi fossero due materie non dico diverse, ma con flebili affinità. Se non altro perché nel frattempo l’Italia è diventato un grande Paese industriale. Anche il gruppo dei giuslavoristi napoletani vive la stagione irripetibile di grandi fermenti culturali che del resto coinvolge le Scuole di tutta Italia. Le più antiche di vecchi Maestri, anche illustri ma più tradizionali nel metodo di studio: come per esempio Giuliano Mazzoni a Firenze; Luisa Riva Sanseverino a Milano; Ubaldo Prosperetti a Roma. Attraverso D’Eufemia e Scognamiglio li ho conosciuti, ma superficialmente. Ricordo però che Scognamiglio mi chiese di fare, per la Rivista di Diritto civile, una recensione dell’ultima edizione del ponderoso Manuale di Diritto del lavoro di Mazzoni. Che l’apprezzò e mi ringraziò.

Contatti più diretti ho avuto invece con le generazioni più giovani, appartenenti a Scuole fiorenti: soprattutto a Bari, Bologna e Milano. Attraverso Spagnuolo Vigorita e Ghera ho frequentato Gino Giugni a Bari; Federico Mancini, Umberto Romagnoli e Giorgio Ghezzi a Bologna; Tiziano Treu a Milano, Mattia Persiani a Roma. E attraverso questi ho avuto scambi cordiali, e talora affettuosi, con i loro allievi quasi miei coetanei (più o meno). Ricordarli tutti mi pare impossibile. Peraltro alcuni di essi, tutti giovani di valore, sono purtroppo scomparsi. Alcuni prematuramente ma tragicamente: Massimo D’Antona e Marco Biagi, uccisi dalle Brigate Rosse. Altri scomparsi prematuramente per malattia: Gianni Garofalo, Mario Napoli, Gigi Mariucci, Lauralba Bellardi. E, più di recente, Giuseppe Santoro-Passarelli, col quale c’era un’intensa amicizia con assidua e affettuosa frequentazione e continuo scambio d’idee). S’intuisce come tutti questi incontri e scambi culturali abbiano influito eccome sulle idee e, quindi, sulla mia produzione scientifica. Si pensi per esempio all’insegnamento anche solo metodologico di Gino Giugni.

Ma, tornando al decennio ‘70, il moltiplicarsi degli incontri di studio sullo Statuto dei lavoratori –convegni, seminari, dibattiti – facevano sì che gli studiosi, vecchi e giovani, girassero il Paese in lungo e in largo. Naturalmente in questi incontri si discuteva, spesso molto animatamente, ma ci si divertiva pure, visitando nuovi luoghi e città.

Io intanto a Catania avevo conosciuto vari studiosi importanti, specie civilisti – come Pietro Barcellona, Massimo Bianca, Nicolò Salanitro – coi quali avevo instaurato rapporti di stima e d’amicizia. Il confronto assiduo con personaggi di notevole calibro è stato per me molto fruttuoso e formativo. Ora è naturale la difficoltà di dire da chi ho imparato che cosa. Negl’incontri culturali, si sa, è normale che reciprocamente ci si formi sul piano scientifico quasi senza accorgersene, scambiandosi idee, metodi, valori e quant’altro.

  • La Sua monografia L’impiego pubblico in Italia del 1978 costituisce, secondo l’opinione generale, una riflessione fondamentale in vista di quella che sarà poi la privatizzazione del lavoro pubblico. Ci racconta come nacque l’idea del libro e quali erano i principali elementi di quella prospettiva teorica?

 

Verso il ‘73-‘74 scelsi il tema della monografia. Scelta difficile e tormentata. Importante non solo per la carriera accademica, ma anche per gl’interessi di studio. Quella sensibilità istituzionale, di cui ho detto all’inizio, ha certamente influito sulla scelta di occuparmi del “lavoro pubblico”, che ha molto a che vedere con l’apparato istituzionale-burocratico quale datore di lavoro. Per giunta all’epoca il lavoro privato era talmente inflazionato dalla miriade di studi da scoraggiare la scelta d’un’area tematica già parecchio battuta. E certamente il lavoro pubblico era un’area del tutto nuova per i giuslavoristi.

Ora siccome nello Statuto dei lavoratori c’è il famoso articolo 37 (per il quale lo Statuto s’applica pure ai dipendenti da enti pubblici), scelsi di esplorarne “cautamente” il senso. Senza dubbio l’argomento meritava d’essere studiato, benché richiedesse un allargamento del raggio di studio alle competenze degli amministrativisti e in generale alla cultura giuridica del diritto pubblico.

Qui un incontro decisivo – divenuto col tempo intenso e direi unico anche sul piano personale – è stato quello con Umberto Romagnoli, un giurista per me indimenticabile per il rigore e la pluralità del metodo oltre che per la cultura di straordinaria ampiezza. La sua scomparsa, un anno e mezzo fa, mi ha molto addolorato. E ancora oggi mi manca la telefonata settimanale: puntualmente ogni domenica.

Quando parlai a Romagnoli dell’idea di studiare il pubblico impiego – partendo proprio dal suo commento dell’art. 37 nel Commentario bolognese della Zanichelli sullo Statuto – fu sorpreso ma incoraggiante. E mi segnalò l’utilità di seguire il metodo storico-giuridico per capire la genesi dello steccato tra lavoro privato e lavoro pubblico ed eventualmente teorizzarne il superamento dei limiti. Naturalmente ne parlai anche con Scognamiglio, Ghera, Spagnuolo Vigorita, Mazziotti, De Luca Tamajo. Tutti trovarono l’idea originale, segnalandomi l’esigenza di confrontarsi – inevitabilmente e con coraggio – pure con gli amministrativisti, dei quali l’impiego pubblico era appannaggio.

Il primo amministrativista con cui ho avuto interessanti confronti scientifici – e poi anche rapporti di amicizia – è stato un insigne notissimo Maestro, Sabino Cassese, che in quel periodo insegnava a Napoli, alla Facoltà di Economia. A lui mi presentò il Preside di questa Facoltà – Gustavo Minervini, illustre Maestro del Diritto commerciale (anch’egli diventato poi amico carissimo) – che già mi aveva affidato, su proposta di Spagnuolo Vigorita, l’incarico di Diritto del lavoro nel corso serale per studenti-lavoratori.

Non posso dimenticare la mia prima “uscita pubblica” davvero impegnativa. Fu Luciano Spagnuolo Vigorita a indurmi a fare la relazione introduttiva d’un seminario a Napoli, nel 1975, sui primi risultati dei miei studi in tema di lavoro pubblico. Vi parteciparono, oltre a Luciano Spagnuolo Vigorita, Sabino Cassese, Umberto Romagnoli e Tiziano Treu, Raffaele De Luca Tamajo, Giuseppe Ferraro. Fu quello un momento di grande impulso per i miei studi ulteriori. In quell’occasione conobbi un giovane studioso che muoveva i primi passi d’una brillante carriera scientifica fino a diventare ora Giudice costituzionale, Marco D’Alberti. Da lui sono stato molto aiutato nella riflessione sui profili amministrativistici del lavoro pubblico. A lui devo anche la presentazione, in occasione d’un convegno, al suo Maestro, il celebre Massimo Severo Giannini, con il quale in seguito ho avuto varie occasioni di scambio d’idee e dal quale ebbi illuminanti suggerimenti.

In quel periodo spesso i luoghi dove avvenivano gli incontri erano convegni in cui si mettevano a confronto lavoro pubblico e lavoro privato. Soprattutto si discuteva sulle ricadute dello Statuto dei lavoratori sul pubblico impiego. Su questi problemi ho fatto non so quanti interventi e relazioni, molte delle quali pubblicate in varie riviste. A cominciare da una relazione alla Fondazione Feltrinelli, a Milano, per iniziativa di Umberto Romagnoli, sul sindacato nella pubblica amministrazione, cui partecipava, tra gli altri, il famoso sociologo Alessandro Pizzorno. Umberto Romagnoli volle poi pubblicare la relazione nella Rivista di Diritto e Procedura Civile, di cui si occupava attivamente, tra le tante.

Insomma posso dire che la mia ricerca sull’impiego pubblico andava a gonfie vele. Per la verità nel 1975 mi presentai pure al concorso a cattedra. Consapevole però di non essere pronto, avendo prodotto un libretto in edizione provvisoria dal titolo Pubblico impiego e diritto del lavoro (ed. Morano di Napoli). Fu comunque un’occasione per avere qualche riscontro scientifico. E ne ebbi, positivi ma ovviamente soltanto “di attesa” del completamento della ricerca. Ricordo con piacere, in particolare, il giudizio d’un Commissario della fama e del rigore di Federico Mancini. Che, avendo apprezzato il mio studio, nel rilevarne l’originalità (e il carattere provvisorio), aggiungeva che esso già dimostrava “ingegno e cultura”: detto da Mancini non era da poco!

Il mio libro L’impiego pubblico in Italia uscì nel 1978 edito da Il Mulino, che lo pubblicò su proposta congiunta di Sabino Cassese e Umberto Romagnoli. Con quest’opera vinsi la cattedra, a giudizio unanime della Commissione, nel concorso del 1980, il primo dopo quello del 1975. È il caso di notare che, contrariamente a quanto avviene oggi, all’epoca i concorsi a cattedra si facevano a distanza di anni l’uno dall’altro. Il mio libro sull’impiego pubblico ebbe comunque un discreto successo e l’editore ne fece alcune ristampe: considerato “una novità”, infatti, fu adottato nei corsi in varie Università italiane e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.

Adesso pare che l’Editore, nell’ambito d’una iniziativa proposta dal caro amico Guido Balandi, allievo di Romagnoli e attualmente Direttore di Lavoro e Diritto – “Lo scaffale de Il Mulino” – di ristampa on line di vecchie opere, voglia ristampare anche il mio libro. La cosa ovviamente mi emoziona molto, benché mi renda conto che, in quasi cinquant’anni, troppa acqua è passata sotto i ponti. Nel senso che troppe aspettative dell’epoca sono andate deluse. Oggi tuttavia rimane in piedi l’idea di fondo che lavoro pubblico e lavoro privato debbano procedere, per quanto possibile, per vie omogenee e parallele, ferme restando le insopprimibili particolarità di ciascun settore. Del resto è rimasta inalterata, in linea di massima, l’impostazione del legislatore nella grande riforma del 1992-‘93: contrattualizzazione del rapporto individuale; contrattazione sindacale; giurisdizione ordinaria delle controversie.

  • A trent’anni da questa riforma del lavoro pubblico, secondo Mario Rusciano cosa è cambiato realmente dell’esperienza del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e cosa c’è ancora da fare?

 

A trent’anni da questa riforma ripeto che, dal punto di vista strutturale, i cambiamenti non sono tanti e incisivi, sebbene il testo originario sia stato corretto da vari interventi legislativi. Anche perché ogni Ministro della Funzione pubblica ha voluto legare – ed è comprensibile – il suo nome a uno specifico intervento. Così ci sono state la riforma Brunetta, la riforma Madia e prima ancora le riforme di Bassanini e di Cassese. Ciascuno ha affrontato i problemi da un punto di osservazione diverso. Ad esempio Cassese (da grande conoscitore anche della storia della pubblica amministrazione) ha operato grosso modo un riordino complessivo. Bassanini ha dedicato maggiore attenzione ad alcune ardite istanze sindacali: come la “contrattualizzazione” persino della dirigenza. Brunetta ha affrontato in particolare il problema dell’assenteismo, intervenendo soprattutto sul profilo disciplinare del rapporto di lavoro. La Ministra Madia ha fatto una riforma, meno ideologica, di sistemazione e manutenzione dell’impianto normativo.

Intendiamoci, l’intrinseco dinamismo della pubblica amministrazione richiede taluni aggiornamenti. Cambia a seconda delle condizioni generali, politiche, sociali, tecnologiche ecc. In una parola, richiede opera continua di manutenzione. Tra l’altro, non dimentichiamo che, quando parliamo di pubblico impiego, alludiamo a una sorta di galassia in cui mettiamo insieme settori assai diversi tra loro. È chiaro che l’impiego ministeriale è diverso da quello locale e quest’ultimo (a sua volta regionale o degli enti locali minori) è “altro” rispetto al lavoro nella scuola o nella sanità ecc. Per non parlare poi di pubblici dipendenti di ambiti peculiari, dai prefetti ai diplomatici, dai professori universitari ai militari e alle forze dell’ordine ecc.

Tuttavia, mi pare di poter dire che, rispetto al passato, ci sia una maggiore consapevolezza da parte dei dipendenti pubblici della loro posizione delicata, dell’essere al servizio non di un qualunque imprenditore che agisce sul mercato, bensì dell’utenza, dei cittadini. Insomma dell’interesse generale. Una consapevolezza sviluppatasi, in certa misura, anche per effetto della cultura della customer satisfaction. Da questo punto di vista un aiuto è giunto dalla importantissima legge 146 del 1990 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, che contiene un importante messaggio culturale sulla continuità di alcuni servizi che non ammettono interruzione e devono sempre funzionare a qualsiasi costo.

In ogni caso non deve meravigliare il susseguirsi d’interventi legislativi talvolta settoriali secondo le esigenze che si presentano all’attenzione della politica. Si può però ribadire che la struttura portante della prima riforma non è stata gran che toccata. Il testo unico 165/2001 ha risistemato le norme ma l’intelaiatura è rimasta invariata pur con le modifiche di cui non è possibile parlare qui.

D’altronde ogni grande riforma va osservata sempre con l’occhio dello storico. E io posso ricordare – per avervi partecipato in prima persona – che la legge 421 del 1992 e il decreto legislativo 29 del 1993 sono il prodotto d’un’epoca di grave crisi economica e politica. Forse solo un personaggio del calibro di Giuliano Amato potette affrontarla a capo d’un Governo in piena Tangentopoli e nell’impazzimento dei mercati finanziari. Giuliano Amato, sapendo dei miei studi sull’impiego pubblico, mi chiese di dargli una mano nel corso d’un incontro improvviso sulla spiaggia di Ansedonia – dove io ero ospite di Edoardo Ghera nell’estate del ‘92 – dicendomi che stava lavorando a una legge-delega per contenere la spesa pubblica riformandone le quattro antiche piaghe: sanità, previdenza sociale, enti locali e impiego pubblico. Tutto andava fatto rapidamente per tranquillizzare i mercati e io avrei dovuto occuparmi dell’impiego pubblico collaborando con Maurizio Sacconi, il Sottosegretario al Tesoro con delega alla Funzione pubblica. Un politico dinamico e intelligente con cui si lavorò molto bene, aiutati da un bravo Avvocato dello Stato, l’Avv. Daniela Salmini, e da una Commissione di studiosi – tra i quali Franco Carinci, Edoardo Ghera, Tiziano Treu, Marco D’Alberti – oltre ai Funzionari del Dipartimento della Funzione Pubblica. In quattro mesi, comprese le ferie natalizie, e dopo incontri e scontri con le tre Confederazioni sindacali – soddisfatte per aver ottenuto il riconoscimento formale sia del contratto individuale di lavoro pubblico sia della contrattazione collettiva – si riuscì ad approvare nel febbraio del ‘93 il decreto 29. Nelle condizioni date difficilmente si sarebbe potuto fare di più e meglio.

  • Veniamo all’altra monografia: Contratto collettivo e autonomia sindacale. In quella elaborazione scientifica si esamina a fondo il ruolo del sindacato confederale nella storia e nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico del nostro Paese. Quanto è stata importante quell’esperienza – anche, ma non solo, sul piano storico – e cosa occorre fare oggi, a Suo avviso, per modernizzare le relazioni industriali italiane?

 

Riprendo quanto ho detto prima circa l’inizio dei miei studi e l’interesse per i diritti sociali e per l’azione sindacale a cominciare dalla tesi di laurea e dai primi scritti. In pratica, oltre che d’impiego pubblico, mi sono occupato di sindacato, di rappresentanza sindacale e di conflitto sociale per tutta la mia vita di studioso. Ovviamente perché ho sempre considerato il sindacato – come d’altronde l’associazione imprenditoriale – uno dei pilastri della democrazia costituzionale, assieme ai partiti politici. Per me è naturale che la rappresentanza sociale, pur nella sua autonomia, si esprima in tutta la sua rilevanza, financo in senso lato “politica”.

Facendo una piccola digressione, devo ricordare che lo spunto della monografia sul contratto collettivo mi fu dato da Pietro Rescigno, che mi chiese di commentare la parte sul contratto collettivo del suo Trattato di Diritto privato, edito dall’Utet. Con Rescigno – uno dei più autorevoli civilisti del ‘900, che ha dedicato attenzione alle “società intermedie” – ho avuto più occasioni di amichevole confronto scientifico su partiti e sindacati. E difatti gli chiesi di scrivere la prefazione del volume monografico Contratto collettivo e autonomia sindacale, nel quale confluì, con qualche integrazione, il Commento del Trattato. Successivamente rivisto e aumentato nella seconda edizione del 2013.

Mi rendo conto che ora i tempi non sono favorevoli a posizioni ideali su sindacati e partiti. Anche perché la rappresentanza sociale è molto mutata col cambiamento del lavoro e soprattutto con la scomparsa graduale della classe operaia e quindi della “cultura operaia”.

Sulla storia del movimento operaio e sindacale bisognerebbe riflettere di più. In questo mi aiutò un caro amico, Antonio Lettieri, un sindacalista-intellettuale, a suo tempo Segretario Confederale e leader della cosiddetta “terza componente” della Cgil e che ancora oggi si occupa di problemi del lavoro e politici, anche sul piano internazionale, dirigendo due riviste on line Eguaglianza e Libertà e Insight.

Qui però dobbiamo necessariamente limitare il discorso alla rappresentanza in senso giuridico. Vale a dire alla rappresentanza come strumento della volontà collettiva al tavolo delle trattative nell’incontro con la controparte. E allora si deve partire naturalmente dalla concezione costituzionale della libertà sindacale e del sindacato: come movimento e come istituzione.

Ora nella prospettiva del Costituente la libertà sindacale garantisce la pluralità di ogni forma d’aggregazione sindacale. Quindi è normale la possibile “frammentazione” degli interessi, per così dire “movimentistica” per ragioni sindacali. Quando però le contrapposte rappresentanze – dei lavoratori e degli imprenditori – vengono investite della funzione “paralegislativa” di fissare le condizioni di lavoro, è indispensabile che arrivino a una sintesi – cioè a una “rappresentanza unitaria” dell’una e dell’altra parte – per stipulare il contratto collettivo della categoria. Parlo del contratto nazionale di categoria: che, sia per tradizione sia per Costituzione, è lo strumento giuridico più importante di composizione dei contrapposti interessi.

Poi certo, con l’evolversi delle relazioni industriali e con l’evoluzione delle imprese e dei sistemi produttivi, ha assunto sempre maggiore rilevanza il “contratto aziendale”, di più immediata vicinanza alle situazioni lavorative da regolare. Ma non c’è dubbio che, dal punto di vista tecnico-giuridico, è il “contratto nazionale”, dopo la legge, la fonte prioritaria di regolazione dei rapporti di lavoro. So bene che pochi giuslavoristi la pensano allo stesso modo, benché non mi pare argomentino a sufficienza il loro pensiero. Soprattutto non dicono come sia possibile assicurare trattamenti economici e normativi di categoria erga omnes (cioè anche per i non “sindacalizzati”) senza che a trattare e a concludere il contratto sia un soggetto unitario, munito della necessaria “rappresentatività”, che assorbe e supera la semplice “rappresentanza privatistica”.

Io nella monografia su Contratto collettivo e autonomia sindacale ho provato a riprendere l’elaborazione teorica di Gino Giugni sull’ordinamento intersindacale, riconoscendone sì la validità attuale, ma cercando di adattarla alle mutate situazioni dell’organizzazione produttiva e del lavoro. Giugni infatti, poiché costruisce in chiave euristica la sua teoria nel periodo d’oro dell’unità rappresentativa (nazionale, locale a aziendale) sia delle Confederazioni imprenditoriali sia delle tre maggiori Confederazioni sindacali – riesce a giustificare con l’autonomia dell’ordinamento intersindacale – per lui financo “originario” – l’efficacia generale dei contratti collettivi di categoria e delle corrispondenti articolazioni aziendali della contrattazione. Ora non è più così. La teoria dell’ordinamento intersindacale è valida per tutto quanto riguarda le relazioni delle organizzazioni sociali tra di loro, ma non più per la stipulazione dei contratti collettivi a efficacia generale. Il cui fondamento infatti è lasciato da sempre al “diritto giurisprudenziale”. I giudici peraltro talvolta arrancano, talaltra cercano di valorizzare, per quanto possibile, il ruolo dell’autonomia collettiva. Si pensi al dibattito sul sindacato “non firmatario”, ma certamente “rappresentativo”, che ha portato all’intervento della Corte costituzionale sull’art. 19 dello Statuto dei lavoratori. Ovviamente la Consulta ha fatto del suo meglio ma determinati aspetti della complessa problematica dovrebbero essere affrontati funditus dal legislatore. Perciò io concludo la mia riflessione monografica – ripresa peraltro in vari successivi articoli più recenti – sostenendo che l’ordinamento è monco finché il legislatore non interverrà a mettere ordine nella rappresentanza e rappresentatività sindacale, facendo chiarezza pure sui tre commi successivi al primo dell’art. 39 della Costituzione.

  • Lei ha ricoperto diversi incarichi istituzionali (ad esempio come consulente del Governo, componente della Commissione di garanzia della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, ecc.). La scelta di prestare la Sua attività prevalentemente per istituzioni pubbliche, piuttosto che essere, ad esempio, un tecnico di parte (es. un avvocato) è stata casuale o frutto di una precisa preferenza?

 

È stata una scelta precisa, l’ho accennato all’inizio. In realtà – con tutto il rispetto per tanti cari e valorosi amici che esercitano la professione forense – nel Diritto del lavoro chi fa la professione in genere sceglie, più o meno forzosamente, quale parte difendere nelle controversie tra imprenditori e lavoratori. Questo, secondo me, pregiudica l’assoluta obiettività della ricerca d’uno studioso che voglia affrontare i problemi in piena libertà di pensiero. È cioè quasi inevitabile – quindi altresì comprensibile – che il professore-avvocato sia indotto a orientare la sua ricerca in funzione degli interessi che difende professionalmente.

Diverso è lo studio per la semplice consulenza scientifica a un’istituzione pubblica. Alla quale, dovendosi comunque rispettare il principio d’imparzialità, si danno pareri pro veritate per indirizzarne correttamente l’azione. Ovviamente un’amministrazione pubblica, se agisce da datore di lavoro, può e deve difendersi, ma a essa è normale che un consulente dica di aver torto e dunque di evitare difese improbabili.

Insomma, indipendentemente dalla scelta di campo, nella consulenza all’istituzione pubblica, si tende a interpretare la legge ispirandosi al dettato costituzionale e non a sposare pregiudizialmente una tesi di parte. Mai pensato, per esempio, che i lavoratori debbano avere ragione per principio, sempre e comunque. Anzi, tante volte, proprio prendendo spunto da alcune vicende dell’impiego pubblico, mi è capitato di suggerire al datore di lavoro di resistere contro lavoratori pubblici privi della consapevolezza del loro servizio, cioè di dimenticare l’interesse pubblico intrinseco alla loro prestazione individuale, tesa a raggiungere obiettivi d’interesse generale. Ho quindi spesso criticato il sindacato quando difende cause indifendibili, in genere e specie nel settore pubblico e nei servizi essenziali per la collettività.

  • Come dicevamo, Lei è stato componente della Commissione di garanzia della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Quella commissione, la prima, ha fatto “giurisprudenza”, indirizzando anche le scelte del legislatore quando è intervenuto a novellare la disciplina della legge 146/1990. Ce ne vuole parlare?

 

Ho fatto parte della Commissione di garanzia della legge 146 del 1990 (sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali) per circa quattro anni: dal 1992 al 1996. Per la verità avevo partecipato, in precedenza, alla “Commissione sindacale unitaria” per allestire una proposta di legge in materia, tenuta presente dal successivo legislatore. Ero poi stato Relatore al Convegno di Fiuggi del 1988 dell’Aidlass sullo Sciopero, occupandomi appunto del settore pubblico; mentre il collega Paolo Tosi s’era occupato del settore privato. Avevo inoltre curato – assieme al caro e compianto amico Giuseppe Santoro-Passarelli – il primo Commentario alla legge 146 del 1990 per l’Editore Giuffrè. Ancora prima avevo pubblicato qualche articolo sull’autodisciplina sindacale del conflitto. Per esempio, un saggio su Politica del Diritto, da Romagnoli intitolato: L’autoregolamentazione del conflitto: un’idea che cammina su ruote quadrate.

Fu l’allora Presidente della Camera Giorgio Napolitano (in accordo col Presidente del Senato Giovanni Spadolini) a proporre al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro la mia nomina a Commissario. Insomma posso dire d’aver vissuto per intero la stagione del contenimento del conflitto. A garanzia del bilanciamento tra diritto di sciopero e diritto di cittadini e utenti alla continuità dei servizi essenziali.

Del periodo passato in Commissione conservo un ottimo ricordo. Presidente della Commissione era Antonello D’Atena, un insigne ed equilibrato costituzionalista. Ed erano Commissari: il sociologo Aris Accornero; il costituzionalista Pier Francesco Grossi; e i giuslavoristi, oltre a me: Edoardo Ghera; Mario Grandi; Giancarlo Perone; Umberto Romagnoli; Giuseppe Suppiej. Quando ci si riuniva, nella piccola sede di via dei Villini sulla Nomentana, il dibattito era sempre di grande interesse – aperto e spesso assai vivace – su quale diritto, nei casi concreti, dovesse prevalere: se quello degli utenti o quello dei lavoratori.

Tante le soluzioni scaturite dalle decisioni di allora, non a caso recepite, o comunque tenute presenti, dal legislatore nella successiva legge del 2000. Qualche esempio importante: l’inderogabilità della proposta della Commissione finché le parti non avessero raggiunto un accordo su servizi minimi e prestazioni indispensabili. In sostanza, fermo restando nelle more il tentativo della Commissione d’agevolare l’accordo, nel frattempo la proposta della Commissione dovesse avere lo stesso valore inderogabile dell’accordo (a pena di sanzioni) per garantire la continuità del servizio pubblico. Inoltre la distanza tra uno sciopero e l’altro nello stesso settore o in settori affini. Anche a proposito delle sanzioni e dell’effettività della relativa irrogazione, sul piano sia individuale sia collettivo, la legge del 2000 ha recepito la “giurisprudenza” di quella prima Commissione di Garanzia.

Terminata l’esperienza della Commissione di garanzia della legge 146, non ho dismesso però la mia funzione di Garante o di Arbitro in altre occasioni. Mi furono offerte da Gino Giugni, che faceva il mio nome quando gli veniva chiesto di suggerire un Professore che arbitrasse controversie delicate. Ho così fatto per qualche anno l’Arbitro in alcune controversie delle Ferrovie dello Stato. Persino in occasione d’un grave incidente, che aveva provocato il licenziamento di alcuni dipendenti, che non potevano non essere licenziati. E quando costoro, ovviamente scontenti, decisero di rivolersi al Giudice, la mia decisione fu confermata integralmente in Tribunale.

Ho fatto poi un’altra esperienza molto interessante, sempre su designazione di Giugni, all’allora ENAV (l’Ente Nazionale di Assistenza al Volo). Fui chiamato a presiedere un Comitato – composto da rappresentanti sindacali e dell’Ente – che aveva il compito d’interpretare il contratto collettivo degli assistenti di volo allo scopo di prevenire e raffreddare i conflitti. Anche in questo caso sono riuscito, con le mie proposte di mediazione, a evitare più d’uno sciopero degli assistenti di volo: una delle categorie, come si sa, più complicate per la straordinaria professionalità e responsabilità.

Infine, non meno interessante e importante, è stata la funzione che mi fu affidata – stavolta su proposta di Tiziano Treu – di Presidente della Commissione Nazionale di disciplina dell’INPS, anch’essa composta da Rappresentati dei Sindacati e dell’Istituto previdenziale. Anche in questo caso ho avuto la soddisfazione di ottenere l’unanimità su quasi tutte le decisioni proposte. Naturalmente dopo che la Commissione aveva ascoltato – nel corso d’una sorta di “processo” – l’accusa, la difesa ed eventuali testimoni.

Queste esperienze mi consentono di rispondere – a quanti dicono che chi fa solo lo studioso non conosce la realtà delle controversie di lavoro – che io di esperienze concrete ne ho fatte eccome. Senza parlare poi degl’innumerevoli Corsi di formazione, nei quali gli allievi portavano nel dibattito problemi di notevole rilievo e complessità. Nel campo della formazione ho collaborato con il Formez; con la Scuola della Pubblica Amministrazione (ora SNA: Scuola Nazionale dell’Amministrazione) e con Organizzazioni Imprenditoriali e Sindacali.

Infine sono stato, per ben diciotto anni, Presidente della Società “Intesa-Sanpaolo-Formazione”. Che, pur facendo parte del gruppo Intesa San Paolo, inventava e gestiva progetti sul mercato della formazione. Logicamente in questo lungo periodo ho trattato problemi concreti della formazione professionale: dei dirigenti, dei funzionari, dei quadri e degli impiegati.

  • Lei si dichiara “di sinistra”, ma non è mai stato iscritto a un partito e, pur collaborando spesso col sindacato, non è mai stato “organico” ad alcuna Organizzazione sindacale. Si è trattato di una scelta di “libertà” o non c’è stata una reale occasione d’impegno più strutturale?

 

Ribadisco che per me non vincolarsi è stata una scelta di libertà. Mi ha consentito d’essere imparziale e privo di pregiudizi ideologici o di schieramento. Anche per quanto riguarda il sindacato, ho sempre insistito per l’unità sindacale – che per me costituisce un valore irrinunziabile – ma poi ho collaborato, capitandone l’occasione e in momenti diversi, indifferentemente con Cgil, Cisl e Uil. Anche quando si lavorò alla legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e poi per la riforma del pubblico impiego, ho sempre dialogato con le maggiori organizzazioni rappresentative, dei lavoratori come degli imprenditori. Ritengo essenziali, per uno studioso, la totale indipendenza e libertà di pensiero, sì da poter indicare pregi e difetti di strategie politiche e sindacali.

Ovviamente ho avuto offerte d’impegno politico diretto, ma ho sempre ringraziato e declinato.

  • Nel mondo accademico del diritto talvolta si fa riferimento alle Scuole e sempre più spesso se ne parla al passato. Eppure tanti studiosi, di diverse generazioni, vengono oggi accreditati come componenti di una Scuola napoletana ancora molto attiva scientificamente, che riconosce in Lei quello che si definisce un Maestro; la Scuola si ritrova oggi attorno alla rivista Diritti Lavori Mercati, che ha fondato e dirige insieme a Lorenzo Zoppoli. Cosa ha significato questa esperienza umana, accademica e scientifica e, dunque, la guida di una comunità di giuslavoristi così numerosa e articolata?

 

Premetto che ho sempre avuto per così dire la “vocazione” del didatta. Per me l’insegnamento e la trasmissione del sapere sono tra le poche cose che mi riconosco di saper fare. Difatti anche prima di andare in cattedra – da Assistente e da Professore incaricato – sono sempre stato attento a individuare persone di talento da reclutare per avviarle agli studi e alla carriera universitaria. Ne ho seguito le scelte tematiche e letto gli scritti, dando indirizzi e consigli, stabilendo rapporti personali allo scopo di costituire gruppi scientificamente validi. Penso che, nelle scienze umane e sociali, lo studio debba essere anzitutto individuale, ma penso che poi il confronto collettivo sia altrettanto indispensabile. Proprio sulla base di questo convincimento ritengo d’aver fatto (quasi) sempre buone scelte e di non aver molto da rimproverarmi, benché dei tanti allievi qualcuno s’è allontanato dimenticando la genesi della sua carriera. In ogni caso non ho difficoltà ad affermare d’aver sempre cercato di scegliere persone migliori di me, affinando col tempo la capacità di riconoscere, rispettare e diffondere il talento degli altri.

Forse anche per questo sono stato eletto dapprima Direttore del Dipartimento di Diritto dei rapporti civili ed economico-sociali – incarico che ho svolto per quasi quindici anni – e successivamente Presidente del Polo delle Scienze Umane e Sociali (che comprendeva le Facoltà di Giurisprudenza, Lettere e Filosofia, Economia, Scienze Politiche e Sociologia) dell’Ateneo napoletano Federico II.

Naturalmente molte energie ho dedicato alla Scuola di Diritto del lavoro: che certo, se funziona, si riproduce e si allarga. E questo mi ha consentito di fare varie ricerche collettive, quasi tutte in collaborazione con Lorenzo Zoppoli, che considero il mio primo allievo e che ha un’eccezionale produttività scientifica, per me, difficilmente eguagliabile. Ricordo, per esempio, le ricerche per il CNEL, specialmente in materia di revisione legislativa del lavoro, apprezzate da Luigi Mengoni e Gino Giugni. Con Lorenzo Zoppoli abbiamo fondato e dirigiamo la rivista Diritti Lavori Mercati, una rivista di classe A, che è servita molto per aggregare il gruppo degli allievi – ormai quasi tutti cattedratici o in procinto di raggiungere questo traguardo finale – i quali a loro volta hanno tirato su nuove leve, selezionate sempre con i criteri rigorosi d’un tempo. La Rivista tuttora svolge tale funzione perché nelle riunioni di redazione si discute, anche animatamente, dei problemi più attuali e più scottanti. È inutile dire quanto questo sia importante per la crescita intellettuale di tutti: soprattutto dei giovani dottori di ricerca e dottorandi (per me allievi degli allievi) e financo d’un vecchio come me, relativamente estraneo ad alcuni temi della modernità.

La Rivista pubblica anche dei Quaderni di Diritti Lavori Mercati, quando si deve trattare una tematica di particolare rilevanza, che richiede l’approfondimento monografico. C’è inoltre una sezione interamente online, DLM.Int, che assicura la prospettiva europea e internazionale e che – grazie agli amici Mario e Alfredo De Dominicis, intraprendenti proprietari dell’Editoriale Scientifica – è open access.

Io non parlo purtroppo le lingue straniere – pur avendo, da giovane, studiato il francese, l’inglese e persino un po’ di tedesco – perché non ho mai avuto l’occasione di usarle correntemente. Sono però consapevole che sempre per uno studioso – e, oggi più che in passato, pure per i giuristi – è necessaria l’ampiezza della conoscenza al di là delle frontiere nazionali. Il Diritto dell’Unione Europea in materia di lavoro è addirittura diritto da applicare, ma un vero respiro intellettuale impone di non ignorare i Trattati internazionali e di coltivare altresì la prospettiva comparata. Perciò posso dire che Diritti Lavori Mercati è una rivista plurale, che a conti fatti ne comprende tre.

Naturalmente l’orgoglio non è solo mio e di Lorenzo Zoppoli ma di tutti i collaboratori impegnati in prima linea: da Massimiliano Delfino a Edoardo Ales, da Paola Saracini a tutti i curatori dei Quaderni.

Grazie a Tiziano Treu, inoltre, ancora dirigo con lui la Collana di Diritto del lavoro dell’Editore Giappichelli, forse la più antica tra le collane contemporanee (risale infatti al 1995), che consente a giovani studiosi di pubblicare, dopo rigorosa selezione, le loro monografie (quasi) senza alcun onere economico. E, fino ad alcuni anni fa, ho coordinato la Sezione di Diritto del lavoro degli Annali dell’antica famosa Enciclopedia del Diritto della Giuffrè (ora estinta), su invito del celebre storico del diritto Paolo Grossi (ora purtroppo scomparso) e dell’altrettanto insigne costituzionalista Enzo Cheli: entrambi autorevoli Giudici e Presidenti della Corte Costituzionale.

Naturalmente i rapporti scientifici e accademici non si devono mai limitare, secondo me, a una comunità soltanto, diciamo così, “domestica”. Io quindi ho sempre cercato di allargare la mia visione del panorama scientifico, soprattutto giovanile, al di fuori di Napoli ma sempre nel Mezzogiorno. E così nel 1982 sono stato eletto nel Comitato ordinatore per costituire ab imis la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Magna Graecia di Catanzaro, nella quale ho insegnato fino al 1990.

Qui il mio primo collaboratore, selezionato a Napoli (dove s’era laureato) è stato Antonio Viscomi – originario di Catanzaro e legato alla sua terra – al quale sono tuttora grato per l’aiuto in quell’opera per tanti versi entusiasmante. Per Catanzaro poi sono passati quasi tutti gli altri miei allievi.

Concludo ricordando che, a mio avviso, soprattutto per i giovani l’appartenenza a una Scuola è fondamentale, se non financo indispensabile. Perché soltanto se ci si vede, ci si confronta, a volte si litiga, veramente si cresce. Ripeto qui quanto ho detto di recente nel Seminario dell’Aidlass dedicato a giovani studiosi: il lavoro per la ricerca scientifica s’impara “in bottega”. La Scuola infatti va vista come una vera e propria bottega. Ovviamente, per fondare una Scuola e mantenerla occorre tanto la dedizione, quanto il disinteresse. In una parola: attenzione agli altri e soprattutto al futuro attraverso i giovani.


 

  • Lei ha sempre coltivato interessi che vanno al di là del diritto, uno per tutti la musica; ma si potrebbe ricordare anche la storia, la scrittura sui quotidiani (sono un appuntamento fisso i Suoi editoriali della domenica sul Corriere del Mezzogiorno). Che influenza c’è stata tra le altre passioni di Mario Rusciano e l’attività principale del Professore?

 

Per quanto riguarda la musica, la storia o la letteratura questi sono interessi culturali in senso ampio. Che consentono di conoscere il mondo e la società. D’altronde il giurista, prima di essere tale, dovrebbe avere molta curiosità ed essere colto: un po’ storico, un po’ filosofo, sociologo, un po’ antropologo e tanto altro. Chi può negare che tutto questo serva all’attività principale d’un professore? E ora che sono in pensione questa pluralità d’interessi mi aiuta a vivere (o, se si vuole, a sopravvivere). Per il giuslavorista spaziare con l’osservazione nei vari ambiti della vita culturale significa venire a contatto con il lavoro di musicisti, attori, artisti figurativi, organizzatori di mostre ed eventi ecc.

La musica poi mi piace, mi dà serenità, mi consente di rilassarmi. Ma è anche esempio di disciplina e di rigore tecnico-professionale. Frequentare il Teatro San Carlo, sia per l’opera lirica sia per i concerti, è per me un impegno vero e proprio. Ricordo che, quando insegnavo, ai miei studenti spesso, per spiegare l’organizzazione dell’impresa e del lavoro, usavo la metafora della “prova d’orchestra”. Tutti gli orchestrali devono conoscere la propria partitura e avere la capacità di “armonizzarsi” con gli altri: con una precisione che non ammette errori. La perfetta esecuzione d’una sinfonia fa capire come si ottiene una vera “produttività”. Su questo quanti scambi preziosi con il celebre sociologo (purtroppo scomparso l’anno scorso) Domenico De Masi, molto amante della musica. Con lui sono stato a lungo nel Consiglio d’amministrazione della Fondazione Ravello – De Masi Presidente, io Consigliere – dove s’organizzavano, oltre ai grandi concerti sinfonici, mostre ed altri eventi: di letteratura, di teatro ecc.

Per la storia devo molto all’insegnamento e all’intensa amicizia con il famoso storico e politico Giuseppe Galasso, che mi ha coinvolto quale Consigliere sia della Società Napoletana di Storia Patria, che tuttora m’impegna; sia della Fondazione delle Ville Vesuviane, che ho lasciato nel 2020 da Presidente, per un paio d’anni, dopo l’improvvisa scomparsa di Galasso.

Adesso faccio parte del Comitato scientifico della Fondazione del Circolo Artistico-Politecnico di Napoli, che ha da poco inaugurato un bel Museo (il MUSAP), che raccoglie opere di pittura, scultura e fotografia soprattutto della storia napoletana dell’800 e del ‘900.

Quanto invece all’attività pubblicistica, io sono un cittadino e quindi sento il dovere di coltivare anzitutto i “diritti di cittadinanza”. Peraltro vivo in una città come Napoli, dove c’è bisogno di avere un occhio attento ai tanti problemi della città, che poi sono i problemi dell’intero Mezzogiorno. Destinati peraltro a peggiorare dopo la folle iniziativa della Lega di far passare in Parlamento l’autonomia regionale differenziata. Che contrasta con una lettura esatta della Costituzione, perché spacca l’Italia e creerà enormi diseguaglianze tra i cittadini. Altro che diritti di cittadinanza!

Questo insieme di cose mi ha sempre dato una spinta ad apprezzare l’utilità della comunicazione giornalistica, importante per la sua immediatezza, anche se oggi superata da quella dei social. Ho perciò cominciato a scrivere sui giornali grosso modo dalla seconda metà degli anni ‘70. Poi ho incrementato negli anni ‘80 e nel 1990 sono diventato giornalista-pubblicista e tengo molto alla relativa tessera. Naturalmente nella scrittura degli articoli mi servo delle mie competenze soprattutto di giurista del lavoro, ma non disdegno analisi politiche e socio-antropologiche. Così da circa cinque anni scrivo ogni domenica l’editoriale del Corriere del Mezzogiorno (supplemento locale del Corriere della Sera), occupandomi dei problemi più disparati. Finché dura, perché no?

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