Vi sono dei temi ad andamento “carsico”, che ogni tanto tornano in superficie. È il caso della c.d. supplenza dei giudici e del salario minimo costituzionale. Non è casuale che entrambi siano riapparsi in questi ultimi mesi, in coincidenza , da un lato, con l’affermarsi di una giurisprudenza (civile e penale) in materia di individuazione dei parametri di cui all’art 36 Cost; e ,dall’altro lato, con le varie fasi del confronto politico sulla proposta di legge sul salario minimo.
In entrambi i casi vi sono stati commenti caratterizzati da evidente distrazione ampiamente diffusa.
Solo qualche distratto osservatore, infatti, può dolersi che -nei casi e nei termini e nei limiti previsti dalle leggi- sia il giudice a individuare il trattamento retributivo conforme alla previsione costituzionale.
Che, è il caso di ricordarlo, ha valore precettivo e non meramente programmatico.
Si potrà condividere o meno il percorso argomentativo seguito dal giudice e le motivazioni poste a base della decisione; ma risulta arduo capire come possa essere contestato il ruolo della giurisprudenza e qualificarlo come un travalicamento di confine o almeno come supplenza. Né la distrazione di taluni commentatori può giungere al punto da ignorare che la vituperata supplenza costituisce connotato tipico della funzione integratrice dell’ermeneutica giurisprudenziale; e che questa, oltre che doverosa, si rende tanto più necessaria quanto più indefinito è il quadro normativo. In proposito pare superfluo insistere sul fatto che lo stesso art. 36 Cost e gli articoli della Carta che ad esso fanno contorno sul piano sistematico non hanno -per mille ragioni, più o meno fondate, più o meno di natura giuridica- ancora trovato la necessaria attuazione. Basti pensare ai profili della rappresentanza e a quelli, connessi, dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi.
E a proposito di questi ultimo, emerge un altro caso, connesso, di distrazione di molti interventi, non solo giornalistici.
Nel corso del dibattito sulla eventualità di fissare un salario minimo legale vi è stato un fiorire di laudatori ed estimatori dell’autonomia collettiva, considerata come lo strumento principale, se non esclusivo, per una adeguata ed equa determinazione della retribuzione in senso ampio del lavoratore.
Ferma restando l’importanza primaria, ma non esclusiva né esaustiva, dell’autonomia collettiva, non si può fare a meno di constatare che molti dei suoi “cantori” sono stati, fino a non molto tempo fa, detrattori e critici di essa e della sua asserita tendenza espansiva. E ancora, pur facendo salva la possibilità di cambiare idea, viene da chiedersi se vi sia qualche coincidenza di tale conversione con l’attuale fase storica di debolezza dell’interlocutore sindacale.
E qualche ulteriore stupore e interrogativo sorge dalla constatazione che molti degli entusiasti cantori dell’autonomia collettiva svolgono di fatto un ruolo di ostruzionismo, se è vero (come nessuno nega) che più del 50% dei contratti collettivi non vengono rinnovati da molti anni (8-10 anni in alcuni settori).
E allora, depurando la riflessione dalle considerazioni di tanti non disinteressati o, quanto meno, distratti cantori del ci vuole ben altro, forse si deve concludere che, realisticamente, una regolamentazione legale del salario minimo, opportunamente delineata, non risolverà ogni problema connesso a questa complessa materia, ma contribuirà in buona misura a limitarne la portata. A cominciare da quello dell’intervento giurisprudenziale.
Resta, poi, sullo sfondo ancora non risolta la situazione di alcuni milioni di lavoratori (e delle loro famiglie) che sono poveri nonostante il lavoro e che ricevono una retribuzione universalmente riconosciuta al disotto della soglia di povertà. Sembra che di questi lavoratori poveri nessuno si occupi concretamente, e risulta difficile dire loro di pazientare in attesa che il dibattito giunga a conclusione e si adotti una soluzione per una situazione di oggettiva compressione dei diritti primari della persona.
Il quadro sopra delineato assume tratti surreali. Ma la realtà prima o poi prevale.
E sarebbe opportuno che prima di allora maturi in tutti i protagonisti del dibattito un atteggiamento realistico e consapevole, privo di approccio ideologico.
A tale obiettivo LDE si sforza di contribuire con l’impegno di informazione e riflessione collettiva su questi temi, fondato sulla rappresentazione della pluralità degli orientamenti e delle opinioni.