E’ passato l’ennesimo 8 marzo, ricco di avvenimenti, celebrazioni, riflessioni. Che certo non possono che far bene per l’obiettivo di un pieno accoglimento delle istanze antidiscriminatorie e di integrazione che riguardano, fra le tante discriminazioni, anche l’universo femminile, nel mondo del lavoro e non.
Quello che vorremmo qui considerare, come piccolo ed iniziale spunto ad una discussione, e forse come l’avvio verso qualcosa di più concreto, è un dato strisciante e poco considerato, che si innesta proprio in quelle che sono differenze di genere, ma che proprio in quanto non siano riconosciute nella loro peculiarità, come diversità da valutare e sostenere, finiscono per discriminare nel pratico, nelle scelte ed indirizzi di ogni giorno.
Parlare di malattie femminili è difficile, anche per chi ne viene colpita.
In primo luogo c’è una forma di riservatezza, in parte comprensibile, in parte legata a retaggi culturali; quando si parla delle “parti basse” si cerca sempre di parafrasare, è come qualcosa di cui si fa fatica spesso anche solo a pronunciare il nome. Pensate ad un vocabolo, ora meno usato, con cui si era soliti definire certe zone del corpo, le pudenda: non c’è bisogno di essere degli esperti latinisti per andare all’etimo (pudere) e comprendere che si sta parlando di qualcosa da trattare con discrezione, anzi di cui in fondo in fondo vergognarsi un po’. E quindi è con vergogna e reticenza che chi soffre di queste patologie ne parla.
La seconda cosa che fatica ad entrare nella mentalità - non solo maschile, intendiamoci – è che è estremamente riduttivo trattare e definire questi malanni come “disturbi”. Quasi fossero nient’altro che un prolungamento dei dolori mestruali, e allora perché tanta scena, in fondo è un fatto che colpisce tutte, non bisogna farne una tragedia solo “per un po’ di dolore in più”.
L’unione di queste due devastanti percezioni mancate della gravità del problema (unite al fatto che la specializzazione in queste patologie è rara e la diagnosi è spesso difficoltosa) crea una terza, ancor più devastante complicazione: la persona colpita e che soffre, si sente in colpa, racchiusa in un circolo vizioso da cui è impossibile uscire. Un po’ quello che accade con i disturbi di natura psicologica, spesso sottovalutati e trattati con i buoni consigli della nonna; e se tiriamo in ballo, non a caso, i disturbi psicologici, è perché soffrire di alcune di queste malattia spesso si accompagna, e non si vede come non potrebbe, a ricadute di natura psichica, innescando un ulteriore tragico circolo (“vedi che è colpa tua, devi essere più positiva, se non reagisci sarà peggio”, e tutto il campionario delle cose dette, magari anche con affetto e da chi ti sta vicino, che restringono ancora di più il cerchio del soffocamento, della solitudine e della incomprensione).
Dare un nome a queste malattie, e cominciare a parlane seriamente, è la prima forma di caduta del velo di Maya. E allora, senza pretendere di fare un elenco esaustivo o di offrire un piccolo trattato di medicina che sarebbe davvero ben lontano dalla nostra portata professionale. (anzi chiediamo anticipatamente scusa per le eventuali ipersemplificazioni), possiamo parlare di endometriosi o di vulvodinia
L’endometrio è sostanzialmente una tonaca mucosa che riveste internamente la cavità dell’utero; il suo ispessimento o il suo sfaldamento (l’endometriosi, appunto) crea, insieme a dolori lancinanti nella zona addominale, il possibile e spesso pericoloso interessamento di altri organi adiacenti, nel qual caso è talvolta necessario intervenire chirurgicamente con uno o più interventi per la rimozione delle schegge impazzite di questo tessuto, che può portare gravi conseguenze. Chi ne è colpita in modo serio, quando va bene (cioè quando non subentrano le complicazione suddette) è comunque interessata da forti dolori, abbastanza continui e non direttamente coincidenti con il periodo mestruale, in cui possono a volte intensificarsi. Si stima che soffrano di endometriosi in Italia circa tre milioni di donne, e che sul lavoro si parla di una media di 5/6 giornate lavorative perse al mese. Una certa attenzione è stata data includendo questa patologia nei LEA, i livelli essenziali di assistenza, ma si nota ancora un certo ritardo nel riconoscerne il potenziale invalidante.
La vulvodinia è ancor più rara e sconosciuta, ma interessa anch’essa un numero sempre crescente di pazienti (si calcola sfiori il mezzo milione in Italia, comprese le diagnosi sbagliate o incerte). Le cause della vulvodinia non sono ancora note, c’è chi la lega a fattori biologici, psicologici o relazionali. Tale patologia, chiamata anche vestibolite vulvare, determina un incremento esponenziale del volume e del numero di terminazioni nervose dolorifiche nella zona vulvare, manifestandosi all’inizio quasi come una normale infiammazione , ma con un dolore continuo e pressante che finisce per trasferirsi a livello di tutto il sistema nervoso. Dolore per cui esistono ad oggi solo terapie palliative e sintomatiche, senza una cura.
Come non citare a questo punto, anche una terza patologia, la fibromialgia, che ha diversi apparentamenti (si calcola infatti che oltre il 90% dei colpiti da fibromialgia siano donne) con le malattie precedenti, di cui talvolta è una spiacevole conseguenza (nei fatti, ma senza ad oggi alcun collegamento causale), che viene classificata, in mancanza di meglio, come una malattia reumatica. Il termine “fibromialgia” dall’etimo greco composto sta a significare appunto dolore dei muscoli e delle strutture connettivali fibrose (legamenti e tendini).
La cause precise dell’insorgenza di questa sindrome cronica dolorosa sono poco note, ma normalmente i sintomi solitamente iniziano a manifestarsi dopo traumi fisici, infezioni o forti stress psicologici (ecco il possibile collegamento con la vulvodinia e con l’endometriosi).
Della fibromialgia si conoscono bene solo i sintomi, ad oggi il principale mezzo diagnostico: un dolore diffuso in tutto il corpo, vissuto come una sensazione di contrattura, rigidità e bruciore, e l’astenia, cioè una stanchezza cronica, una debolezza generale con riduzione della forza muscolare. La pesantezza di tali sintomi può portare a volte a paralizzare completamente le attività sociali di chi ne è colpito in forma grave. Anche in questo caso le cure sono solo sintomatiche o palliative.
Ma perché parlare di queste malattie in questo consesso lavoristico? Perché i risvolti di tali patologie nell’accesso e nel mantenimento al lavoro risultano evidenti.
Consideriamo la questione da un’altra angolazione. Il 20 dicembre 2021, il Parlamento ha approvato all’unanimità la legge n. 227/2021, una delega al Governo in materia di disabilità (una delle riforme previste dalla Missione 5 “Inclusione e Coesione” del PNRR) per adottare, entro 20 mesi, uno o più decreti legislativi per la revisione ed il riordino delle disposizioni vigenti in materia di disabilità, partendo dalla definizione di disabilità delle Nazioni Unite.
“Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri.”
Fra gli altri scopi della norma da approvare vi è anche l’elaborazione di un “progetto di vita personalizzato” che consenta alla persona con disabilità, fra le altre cose necessarie, il superamento delle condizioni di emarginazione nei diversi contesti sociali di riferimento, inclusi quelli lavorativi e scolastici.
Nell’ambito dell’accesso al lavoro, la ns. legge 68/99 – con cui la legge delega dovrà in qualche modo correlarsi – favorisce “la promozione dell'inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”.
Spesso si pensa alla disabilità solo come qualcosa di visibile, di concreto: ed è proprio questo il dramma delle patologie in argomento, che costituiscono sicuramente una pesante barriera sociale, ma che sono striscianti, poco visibili, anche se terribilmente incidenti sulla vita di molte donne.
Noi ovviamente ci auguriamo primariamente che per tutte le patologie invalidanti, fra cui quelle sopra descritte, come per le altre che sarebbe impossibile qui continuare a menzionare, si trovino presto cure efficaci e risolutive e comunque livelli di assistenza sanitaria adeguati.
Ma non possiamo non pensare che il riconoscimento del grado invalidante di queste malattie sia indispensabile per favorire un inserimento mirato ed attento nella vita sociale e lavorativa delle molte donne che ne sono colpite, con conseguenze umane e psicologiche spesso anche devastanti, con tutti gli strumenti che tale riconoscimento metterebbe a disposizione.
Come Centro Studi e Ricerche dei Consulenti del lavoro di Milano, insieme con la neocostituita Fondazione dei Consulenti del Lavoro di Milano, abbiamo intenzione di sollevare e tenere alta l’attenzione su questi problemi e di dare vita ad una campagna di ricerca e sensibilizzazione volta a favorire, attraverso ogni riconoscimento giuridico, ma anche attraverso forme di welfare e di contrattazione collettiva, il massimo sostegno a chi è colpito da queste patologie, mantenendo nel contempo un’attenzione a 360 gradi su tutte queste tematiche, ovviamente anche a prescindere dalla questione di genere.