Testo integrale con note e bibliografia
Non c’è governo insediato, non c’è riforma del lavoro, non c’è discorso socio-politico in cui i giovani, anche se non sono l’oggetto principale dell’intervento, non siano considerati. Il che è logico, considerando che i giovani, oltre ad essere il futuro, sono anche ciò a cui, direttamente o indirettamente, la società adulta dirige il cuore, sono i figli ed i nipoti per i quali si spera il meglio.
Questo interesse ed attenzione, tuttavia, si ferma spesso a frasi di circostanza o a interventi poco mirati.
Gli interventi sul settore scolastico e formativo, ad esempio, si rappresentano in continuo e non sempre proficuo cambiamento, con investimenti risicati o comunque inadeguati all’importanza del tema.
L’economia dei lavoretti (la gig economy) vive di vicende alterne, frequentemente osteggiata quale peggior precariato, ma senza considerare quanto sarebbe opportuna una regolazione stabile e senza pregiudiziali, proprio in funzione del mondo giovane (pensiamo ad esempio allo studente che cerchi fonti di sostentamento economico durante gli studi o nel periodo estivo). Regolazione che dovrebbe al contempo prevedere limitazioni agli abusi e controlli mirati: invece la costruzione tipica italiana dell’affronto di questi temi è la complicazione normativo-burocratica (che penalizza tutti indistintamente) a cui poi non fa seguito una decisa repressione dei fenomeni perversi.
Anche l’alternanza scuola-lavoro, parimenti osteggiata per motivazioni più ideologiche che reali , trova spesso ostacoli o viene realizzata con modalità improvvisate, fatte salve ovviamente le iniziative virtuose e fattive che comunque esistono; eppure sarebbe uno strumento importante non solo per un approccio al mondo del lavoro ma anche alla realtà stessa e alle responsabilità della vita adulta.
Il tirocinio (curricolare ma soprattutto extracurricolare) vive di altalenanti fortune, quasi montagne russe: non di rado è usato in modo improprio come strumento di pura diminuzione del costo del lavoro e di disimpegno normativo, anche per via della “distrazione” dei soggetti (pubblici e privati, ma tutti qualificati) che dovrebbero curarne la promozione ed il tutoraggio ma che spesso si limitano “a fare numeri” (anche per i risvolti economici che offrono tali numeri); per tale motivo viene sempre più limitato o appesantito, invece di affermare solo i percorsi realmente virtuosi.
Tutto questo si situa all’interno di un contesto con risvolti inquietanti: non è un mistero che proprio i giovani sono quelli che hanno più risentito degli effetti della recente pandemia, sia sotto un profilo psicologico (una battuta d’arresto in un normale processo di crescita, caratterizzata da isolamento al posto di socializzazione e da incertezza invece che positiva costruzione) sia rispetto agli strumenti culturali e lavorativi loro offerti.
Ma anche il contesto mondiale (gli effetti a lungo termine della globalizzazione, i cambiamenti climatici e l’inquinamento, l’impoverimento delle risorse, il costo della vita – anche indipendentemente dall’inflazione – aumentato, la sempre minore sostenibilità della sicurezza sociale di cui hanno goduto i loro nonni e padri ) offre ai giovani un substrato di incertezza e disorientamento che si riflette in scelte personali di disingaggio e di mancanza di reale autonomia.
Il tutto con grossi riflessi sul mondo del lavoro, dato che oggi chi si occupa del lavoro si trova a fronteggiare, in particolar modo nei giovani ma non solo , una diversità di approccio al mondo del lavoro, un cambio culturale che vede una perdita di significato del lavoro non solo dal punto di vista quantitativo ma qualitativo: il lavoro non è più uno snodo di costruzione del sé e del mondo e della propria realizzazione personale, ma diventa un disincantato strumento di mero mantenimento o di accesso al consumo, anche entro una dimensione economica generale concentrata sull’oggi (scarsa propensione al risparmio o all’investimento, del resto senza una prospettiva o mezzi reali è quasi scontato pensare di vivere alla giornata ).
Nell’ambito delle risorse umane questo è un fenomeno da capire, prima che da condannare o da rifiutare, e su cui misurarsi, ed un modo per un cambio di paradigma passa proprio dall’offerta di una costruzione, da un ingaggio reciproco, dal trasmettere il senso dell’avventura e dell’appartenenza proprio delle comunità lavorative. In particolare verso i giovani.
Per quanto utili, le mere incentivazioni economiche (si pensi alla decontribuzione totale o parziale under 36) non appaiono in grado di poter contrastare questa involuzione culturale. Involuzione che, beninteso, investe in eguale misura, in contraltare, il mondo imprenditoriale, dato che se tutta l’attenzione è concentrata sul risparmio e sul ribasso, sulla fuga dall’impegno con richiesta di precarietà e flessibilità spinte, sicuramente questo non è il modo migliore per coinvolgere e incoraggiare: la precarietà nella richiesta semina la precarietà nell’offerta, in un circolo che diventa vizioso e che si autoalimenta se non se ne spezza la logica.
Forse lo strumento dell’apprendistato, se ben articolato e sfruttato, può aiutare a segnare un’inversione di tendenza.
Innanzitutto perché alla base dell’apprendistato (quello vero) c’è un patto di ingaggio (formativo e lavorativo) molto forte: una trasmissione di competenze ed un inserimento nel mondo del lavoro con prospettive di crescita. In un percorso reciprocamente virtuoso, per cui il mondo imprenditoriale forma e costruisce le competenze sia specifiche che trasversali di cui ha necessità. Ed insieme, in questo patto, può forgiare una rinnovata significanza del lavoro come espressione personale. Politiche di decontribuzione come i ricordati benefici per gli under 36 rischiano tuttavia di porsi in pericoloso antagonismo con l’apprendistato, che ad avviso di chi scrive e per le riflessioni di questo contributo,, dovrebbe essere il percorso assolutamente privilegiato per l’inserimento dei giovani nel lavoro.
Accanto all’apprendistato più tradizionale, quello che fin dagli anni 50 ha avuto una sua regolazione specifica e che ora trova la propria evoluzione in continuità nell’apprendistato professionalizzate, si accompagnano due importanti strumenti come l’apprendistato di primo e terzo livello, per il conseguimento (il primo) di diploma professionale o maturità. Nati vent’anni fa dall’intuizione biagiana (la loro prima comparsa fu nel D. Lgs. 276/2003) ancora oggi questi strumenti stentano a decollare in molte regioni d’Italia, per l’inerzia congiunta di enti locali e di istituzioni, comprese quelle deputate alla formazione . Eppure l’importanza di questo sistema duale va ben oltre la banalizzazione che spesso ideologicamente ha portato a contrastarlo o a guardalo con diffidenza (identificandolo nel concetto di una scuola non orientata alla formazione della persona ma alla mera costruzione di competenze utili) e sarebbe invece utile, al contrario, in senso di orientamento, professionale e personale, e di ricostruzione di un significato del lavoro come dimensione ed espressione del sé. Proprio perché attraverso il lavoro e insieme al lavoro si impara, ci si forma e quindi si impara in definitiva anche a vivere e relazionarsi a livello sociale. Senza contare il contributo innovativo che le giovani generazioni possono portare, anche in termini di stimolo al cambiamento e di apertura verso nuove competenze.
Il tutto in un percorso che tramite il doppio tutoraggio (aziendale e dell’istituzione formativa promotrice, che fa da contrappeso alla talvolta scarsa capacità formativa e di orientamento dell’impresa, non di rado più volta al risultato) riesce a dare un valore semantico, una significanza al fare, al lavoro, all’impegno. Andando quindi ben al di là di una mera trasmissione di competenze pratiche necessarie nell’immediato e coinvolgendo, in ultima istanza, anche l’azienda nella necessità di un cambio di cultura e di approccio.
Sono queste le riflessioni che come Ordine di Milano ci sentiamo di proporre a margine di un Convegno che abbiamo organizzato con Regione Lombardia, incentrato proprio su queste due forme di apprendistato duale e con le iniziative che l’Ente sta mettendo in campo al riguardo .
Arrivando ad una conclusione di queste sintetiche riflessioni, non so se i giovani siano diversi da quelli di un tempo, probabilmente sì, non peggiori ma diversi.
E’ adulta una società che è capace di misurarsi con questa diversità e che , invece che colpevolizzarla, ricerca e mette a punto gli strumenti per accoglierla, fortificarla, darle un orizzonte di senso e di scopo.
E’ davvero formativa una scuola che sappia formare entrando anche nella concretezza, senza uno stacco con mondo reale che il giovane da solo può non riuscire a colmare.
E’ altresì maturo un mondo datoriale in grado di uscire dalla pura attenzione al basso costo, investendo (e non solo per quanto riguarda i giovani) nell’accoglienza, nella formazione e nell’intelligente pianificazione della risorse.
Possiamo (e dobbiamo) pretendere giovani che maturino, ma solo come conseguenza di una fattiva ed equilibrata saggezza complessiva delle strutture sociali a cui i giovani si approcciano.