testo integrale con note e bibliografia
Il recente sviluppo di alcune norme, perlopiù di matrice europea, nella cultura organizzativa dell’impresa verso una gestione aziendale trasparente, intelligente, equa e rispettosa del benessere e della dignità dei lavoratori e finanche della società sono senz’altro apprezzabili. Forse lo è un po’ meno una tendenza, non so se solo italiana ma nel nostro Paese sicuramente esistente e resistente, a tradurre spesso in burocrazia (montagne di carta, adempimenti inutilmente onerosi, pesanti sanzioni al minimo errore) quella che potrebbe essere un’opportunità di sviluppo – gestionale e di mentalità - anche, se non soprattutto, per le piccole e medie imprese, che costituiscono la maggior parte del nostro tessuto produttivo ed economico.
Ma non è sulla burocrazia e sulla necessità di semplificazione che vorremmo focalizzare l’attenzione, bensì sull’impostazione giuridica degli strumenti di tutela del bene e di tutela dell’attore, in cui osserviamo una sempre maggiore recrudescenza, in particolare sugli oneri probatori, su cui è forse opportuna qualche riflessione. La necessità di porre in tutela chi “alzi la mano” contro un’ingiustizia, un reato o per la tutela dei propri diritti deve a parere di chi scrive ritrovare un equilibrio che salvaguardi tutte le parti in gioco
Offriamo a tale proposito un confronto fra nome che seppure su argomenti estremamente differenti si pongono obiettivi simili.
Cominciano dalla discriminazione, ben regolata dal D.lgs. 216/2003 e che offre una protezione a largo raggio contro qualsiasi forma di discriminazione, tanto che l’elencazione contenuta nel D.lgs citato ben può ritenersi esemplificativa e non tassativa.
La discriminazione spesso non è un atto facile da provare, le logiche interne di un’organizzazione potrebbero essere tentate di coprire (anche al fine di limitare eventuali richieste di danni) eventuali responsabilità, specie se imputabili all’organizzazione o alla sua direzione apicale.
In tal senso il comma 4 dell’art. 28 del D. lgs. 150/2011 contiene un interessante principio.
“Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata”.
La presunzione a tutela del discriminato, presunzione semplice con onere di prova contraria a carico del convenuto, poggia – è palese – su un’azione che deve fondarsi su elementi di fatto, magari anche solo statistici.
La finalità è chiara: l’intento discriminatorio può essere ricavato anche per relationem o in base ad indici presuntivi, in quanto in molti casi è abbastanza difficile trovare la c.d. “pistola fumante”, tuttavia l’attore qualche cosa di concreto deve pur argomentare.
Lo sviluppo di alcune norme recenti perde questo principio (che riteniamo di civiltà giuridica e sociale) spostando la tutela su una china perigliosa.
Prendiamo ad esempio il D.lgs. 104/2022, sul diritto del lavoratore a richiedere informazioni trasparenti relative al rapporto di lavoro e a vedere applicate clausole e regole di garanzia al medesimo rapporto. Nel capo IV sono previste le misure di tutela, in particolare è interessante il comma 3 dell’art. 14.
“Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604, qualora il lavoratore faccia ricorso all'autorità giudiziaria competente, lamentando la violazione del comma 1, incombe sul datore di lavoro o sul committente l'onere di provare che i motivi addotti a fondamento del licenziamento o degli altri provvedimenti equivalenti adottati a carico del lavoratore non siano riconducibili a quelli di cui al comma 1.”.
Risulta icto oculi – nella essenziale e corretta tutela prevista per il lavoratore che subisca trattamenti pregiudizievoli, che sostanzialmente trovino origine in una causa illecita, in quanto ritorsiva – l’assenza di una qualsiasi previsione della necessità di un minimo di documentabilità; la semplice accusa (“lamentando”) inverte automaticamente l’onere della prova.
Analogo approccio troviamo nella recente normativa sul whistleblowing (D.lgs. 24/2023) di cui l’art. 17 (divieto di ritorsione) al comma 2 sancisce che;
“Nell'ambito di procedimenti giudiziari o amministrativi o comunque di controversie stragiudiziali aventi ad oggetto l'accertamento dei comportamenti, atti o omissioni vietati ai sensi del presente articolo nei confronti delle persone di cui all'articolo 3, commi 1, 2, 3 e 4, si presume che gli stessi siano stati posti in essere a causa della segnalazione, della divulgazione pubblica o della denuncia all'autorità giudiziaria o contabile. L'onere di provare che tali condotte o atti sono motivati da ragioni estranee alla segnalazione, alla divulgazione pubblica o alla denuncia è a carico di colui che li ha posti in essere.”
Certo, qui un fatto ben preciso, la segnalazione di un reato da parte del perseguitato, ha una sua certa connotazione. Tuttavia è da tenere presente che le condizioni per la segnalazione, salvo i casi di diffamazione o calunnia, possono basarsi anche su un semplice sospetto (art. 16: “fondato motivo di ritenere che le informazioni sulle violazioni segnalate fossero vere”.) e anche in tal caso il segnalatore è protetto. Ancora una volta, un (addirittura doppio) onere probatorio che viene ribaltato.
Ma altrettanto interessante è scorrere l’elenco esemplificativo, non esaustivo, delle possibili vietate ritorsioni, contenuto nel comma 4 dello stesso art. 17 fra cui troviamo: “il licenziamento, la sospensione o misure equivalenti; la retrocessione di grado o la mancata promozione; il mutamento di funzioni, il cambiamento del luogo di lavoro, la riduzione dello stipendio, la modifica dell'orario di lavoro; la sospensione della formazione o qualsiasi restrizione dell'accesso alla stessa; l'adozione di misure disciplinari o di altra sanzione, anche pecuniaria; la coercizione, l'intimidazione, le molestie o l'ostracismo; la discriminazione o comunque il trattamento sfavorevole (a questo punto varrà ancora l’onere probatorio originario?); la mancata conversione di un contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, laddove il lavoratore avesse una legittima aspettativa a detta conversione; il mancato rinnovo o la risoluzione anticipata di un contratto di lavoro a termine” . Una specie di “prontuario delle ritorsioni” (che sicuramente verrà utile anche al di fuori della norma specifica) dove però, a ben vedere, comportamenti odiosi e da reprimere duramente si frammischiano con fatti del tutto normali, o almeno ricorrenti e legittimi, in una vita lavorativa, ma che possono essere letti – anzi travisati- in modo molto malizioso. Non solo: a ben vedere, tutte – tutte – queste fattispecie che incidono sul rapporto lavorativo sono già governate (nel nostro Paese, a differenza di altri Stati membri UE) da meccanismi normativi e regolatori che, limitando il potere del datore di lavoro, prevedono meccanismi di tutela e controllo molto puntuali, e già utilizzati in senso e spirito difensivo dalla magistratura.
Se pertanto una difesa, anche forte, contro un lavoratore oggetto di ritorsioni, molestie, discriminazioni di ogni tipo va salutata con favore, si profila il rischio di un aumento indiscriminato del contenzioso sulla base di semplici, e forsanche non particolarmente fondate, presunzioni, o addirittura sulla condizione interiore del lavoratore (quale lavoratore a termine non ha una “legittima aspettativa” alla conversione a tempo indeterminato? Su quali concrete basi parlare di ostracismo, forse anche qui una “legittima aspettativa” del lavoratore ad una promozione non intervenuta?). Pare di capire che il terreno sul quale muoversi sia particolarmente insidioso
Il modello normativo ispiratore è evidentemente quello degli “uomini contro”, della cultura non della collaborazione e della legalità ma del sospetto. E quindi già il delicato (per il datore di lavoro) meccanismo di esercizio dello ius variandi, del potere disciplinare o della scelta imprenditoriale, rischia di essere ancor più compresso.
Con un ulteriore conseguenza, che è quella della generazione di azioni contrarie (secondo il noto terzo principio della termodinamica, ma che trova uguali riscontri in psicologia e sociologia); tanto per rimanere nel whistleblowing, si profila l’individuazione non di meccanismi di pulizia da eventuali scorrettezze messe in atto dalle organizzazioni, ma di mere strutture esimenti e discolpanti, come spesso avviene anche in ambito del D.lgs. 231/01 (detto terra terra: non un “cerchiamo di pensare e funzionare meglio” ma “cerchiamo di non incappare in guai”) . Oppure, a causa della tutela esasperata di chi magari non la meritava, di forme di fuga dalla legalità (se non anche dal Paese) per l’oggettivo ingessamento del fare impresa.
Certo, nella bilancia giuslavoristica dei diversi (non necessariamente contrapposti) interessi, un equilibrio non è facile, talvolta appare impossibile; ma se la bilancia pende un po’ troppo da una parte gli squilibri prima o poi trovano il modo di farsi sentire, se non altro rallentando l’affermazione, sempre più faticosa, di una proattiva cultura del lavoro e della responsabilità, anche imprenditoriale.