Ricorre in questi giorni il diciassettesimo anniversario della morte, rectius dell’assassinio, del giuslavorista Marco Biagi, la cui visione prospettica del mondo del lavoro ed il cui metodo di analisi sono un terreno fertile che ancora oggi fornisce grandi frutti, grazie anche all’impegno di chi ne ha portato avanti l’opera.
Senza alcuno spirito commemorativo, che lasciamo ad attori più rappresentativi, vogliamo qui ricordare, fra i tanti, un risvolto delle sue intuizioni talmente lungimirante da trovare, dopo così tanto tempo, ancora un grosso spazio ed un utilizzo limitato rispetto alle potenzialità dell’istituto: la certificazione dei contratti di lavoro.
La fattispecie è stata introdotta , in attuazione della L. 30/2003, dagli artt. 75 -84 del D. Lgs. 276/2003, ed è stata successivamente oggetto di implementazione soprattutto ad opera dell’art. 30 del “Collegato lavoro” L. 4 novembre 2010, n. 183. Come detto, l’istituto è ancora conosciuto in modo estremamente limitato e troppo poco utilizzato, essendosi attivato perlopiù sull’asse autonomia-subordinazione, in particolare con riferimento ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa (prima a progetto ed ora secondo le declinazioni dell’art. 2 del D. Lgs. 81/2015), mentre le sue potenzialità sarebbero molteplici ed in gran parte poco esplorate anche dagli addetti ai lavori.
L’ art. 75 esprime in pochi concetti la finalità ed il raggio di azione dell’istituto recitando che “al fine di ridurre il contenzioso in materia di lavoro, le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro secondo la procedura volontaria stabilita nel presente titolo”.
E’ pertanto da subito evidente con immediatezza che la certificazione è una procedura:
- volontaria: non vi è alcun obbligo di sottoporre un contratto a certificazione (“le parti possono”) , che resta solo una opportunità intravista dalle parti del contratto per motivi che espliciteremo più avanti;
- inerente qualsiasi tipo di contratto in cui venga esercitata una prestazione di lavoro, ove qui la prestazione deve essere intesa in senso personale, anche se la certificazione potrà riguardare (ed è qui il significato del termine “indirettamente”) contratti o fattispecie che siano regolatorie e/o insistenti su tale prestazione, cioè che pur essendo contratti di natura essenzialmente commerciale e non lavoristica, come l’appalto, abbiano una valenza peculiare e diretta sui diritti e sulle conseguenze dei prestatori di lavori impiegati per mezzo di detti contratti;
- con la finalità specifica di riduzione del contenzioso, ove questo aspetto non riguarda solo il contenzioso fra le parti, ma anche quello eventualmente instaurabile per iniziativa o azione degli organi di accertamento e vigilanza, in merito alla qualificazione del contratto o ad alcune sue clausole.
Riguardo a quest’ultimo aspetto, la riduzione del contenzioso viene realizzata attraverso un’attenta, competente e perspicace fase preventiva, propedeutica alla certificazione, di esame del contratto e delle sua modalità di estrinsecazione concreta, arrivando persino alla consulenza ed assistenza alle parti nel merito: una vera e propria procedura di audit preliminare asseveratorio, con un alto valore aggiunto rispetto alla regolazione del mondo del lavoro.
Quale è la felice intuizione della certificazione del contratto ? In un mondo del lavoro che già alla fine del secolo scorso si caratterizzava per una profonda eterogeneità dei tipi e modelli contrattuali e delle esigenze di flessibilità (con la contemporanea necessità di non perdere terreno rispetto a sicurezza sociale e legalità), la procedura di certificazione restituisce un’importante sicurezza alle parti sulla correttezza del proprio operato e di quanto stabilito fra di esse, anche di fronte a possibili contestazioni o perplessità in merito o all’individuazione di un certo tipo di qualificazione della prestazione (ed anche del contratto commerciale che su essa inerisce) o all’esercizio di determinate clausole contrattuali.
In estrema sintesi, possiamo definire la certificazione come in un procedimento - come detto, volontario – attraverso il quale un contratto con le caratteristiche suddette (cioè relativo, anche indirettamente, ad una prestazione di lavoro) viene sottoposto al vaglio di un Ente verificatore qualificato cioè alla Commissione di certificazione.
La finalità dell’esame della Commissione adita è quella di :
• accertare la volontà delle parti sottoscriventi ed il grado di consapevolezza di ciascuna di esse in ordine alla forma di regolamentazione contrattuale, a singole clausole stabilite nel contratto ed alla disponibilità dei propri diritti o ad una loro eventuale abdicazione;
• verificare la corrispondenza della forma contrattuale prescelta delle parti all’esatta qualificazione del rapporto sotto un profilo normativo; ovviamente ciò non può fermarsi al mero nomen juris identificato dalle parti medesime, ma alla corrispondenza di esso con quanto esercitato in concreto;
• constatare la rispondenza delle clausole contrattuali alle norme di carattere generale e, laddove ricorrenti, a quelle stabilite dai contratti collettivi in forza di delega di legge; sul punto è peraltro opportuno ricordare che la certificazione , può essere richiesta anche solo relativamente ad alcune clausole particolari concordate fra le parti;
• verificare, ove richiesto, anche la coerenza degli aspetti di carattere amministrativo, civile, fiscale e previdenziale conseguenti al contratto ed alle clausole concordate.
Rispetto alle clausole del contratto di certificazione, un importante impulso è stato ad essa conferito dal già ricordato Collegato lavoro, il quale ha stabilito che
- nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle sue clausole il giudice non può discostarsi da quanto stabilito dalle parti in sede di certificazione (salvo i vizi o le cause di ricorso di cui diremo più avanti);
- attraverso la certificazione, i contratti individuali possono addirittura tipizzare delle peculiari fattispecie di giusta causa o di giustificato motivo di licenziamento, di cui il giudice deve tener conto nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento.
L’aspetto più evidente della certificazione è che la stessa esplica la propria efficacia su tutti i contenuti sottoposti a certificazione (contratto, qualificazione del tipo contrattuale, singole clausole) non solo nei confronti delle parti sottoscriventi ma anche nei confronti dei terzi; in particolare assume un’importanza di assoluto rilievo rispetto il fatto che i terzi comprendono tutti gli Enti della P.A., comprese le autorità preposte alla vigilanza. Questa efficacia permane fino al momento in cui dovesse essere accolto con sentenza di merito un eventuale ricorso contro la certificazione; il rimedio infatti esperibile contro la certificazione è solo il ricorso per via giudiziale, che però può essere esperibile soltanto nei seguenti casi:
- erronea qualificazione del contratto;
- difformità fra testo contrattuale ed effettivo e concreto svolgimento della prestazione;
- vizi del consenso;
- violazione del procedimento o eccesso di potere.
Ovviamente l’onere probatorio rispetto alla ricorrenza di tali ipotesi spetta alla parte, che può essere uno dei contraenti oppure un terzo interessato, che ricorre al giudice.
Non solo, vi è un altro ostacolo sulla strada del contenzioso: prima di poter adire all’autorità giudiziaria, la parte (anche il terzo, Enti di vigilanza compresi) che volesse mettere in discussione il contratto o la clausola deve necessariamente promuovere un’istanza obbligatoria di conciliazione presso la Commissione di Certificazione che a suo tempo ha provveduto a certificare il contratto; il giudice, inoltre, dovrà tener conto del comportamento tenuto dalle parti in questo obbligatorio passaggio conciliativo (che quindi non sarà meramente formale) avanti la Commissione di certificazione adita.
L’importanza di questa opportunità offerta dalla conciliazione- qui obbligatoria - risulta evidente in molti casi, ma spesso si rappresenta in tutta la sua portata quando ci si trova di fronte ad una contestazione ispettiva.
Infatti, in tal caso la certificazione ha come immediata conseguenza la temporanea inefficacia di un accertamento ispettivo, tanto che prima di procedere all’irrogazione di sanzioni o di qualsiasi altro provvedimento conseguente all’accertamento che riguardi il contratto certificato (nella parte relativa alla certificazione ovviamente) l’Ente di vigilanza dovrà promuovere l’azione giudiziale e, prima ancora, effettuare un passaggio conciliativo “di confronto” presso la Commissione che ha certificato il contratto. E ciò non solo per gli aspetti più propriamente giuridici del contratto, in quanto una certificazione richiesta anche sotto il profilo amministrativo, fiscale o previdenziale avrebbe il medesimo effetto, ovvero quello di stoppare in origine la contestazione, che potrà essere elevata solo con il doppio passaggio (confronto avanti alla Commissione e successivo esperimento della fase giudiziale) anche per gli aspetti di natura impositiva e le loro conseguenze.
Lo stesso, ovviamente, vale anche per i ricorsi che può promuovere contro la certificazione una delle due parti contraenti.
Tanta forza ha la certificazione che, in un’ottica di economia di intervento, la Direttiva sulle ispezioni emanata nel settembre 2008 dall’allora Ministro del Lavoro, On. Maurizio Sacconi, aveva espressamente previsto che l’attività ispettiva dovesse evitare di concentrarsi sui contratti e sulle fattispecie già oggetto di certificazione, a meno (ovviamente) di casi di evidente e marchiana violazione delle norme o di illegittimità della certificazione.
E’ necessaria a questo punto una breve elencazione delle fasi standard di un procedimento di certificazione, anche deve opportunamente essere precisato che le stesse possono variare sia riguardo alle singole modalità in atto presso ciascuna Commissione, sia rispetto alla tipologia di contratto.
Vi è un primo esame documentale, che riguarda gli aspetti formali del contratto, le previsioni e le ricadute (sotto il profilo fiscale, previdenziale ed assicurativo se è richiesta la certificazione anche riguardo a tali aspetti), le clausole fissate fra le parti e la loro rispondenza con la qualificazione del contratto. In casi in cui pare opportuno accertare determinate condizioni soggettive od oggettive la Commissione può liberamente chiedere l’integrazione di documenti o atti.
In una fase successiva vi è l’audizione delle parti contraenti, che vengono interrogate separatamente per accertare la loro consapevolezza– sia in termini di eventuali rinunce o penalizzazioni, sia per le clausole contrattuale vere e proprie e le loro eventuali conseguenze - e la coerenza logica dei rispettivi ”racconti” sia fra di loro che rispetto al contratto sottoposto all’attenzione della Commissione.
E’ importante ricordare che qualunque Commissione non ha compiti e/o prerogative ispettive , tuttavia un lavoro ben fatto dalla Commissione adita - non solo come opera di consulenza ed assistenza, ma anche con un vaglio attento delle domande poste ai richiedenti – determina la tenuta e l’efficacia della certificazione. Ad esempio, qualora le dichiarazioni raccolte in sede di audizione si rivelassero in una fase successiva palesemente false, fuorvianti o strumentali, la certificazione stessa ne risulterebbe minata ab origine; il provvedimento di certificazione, che viene emanato al termine del procedimento descritto, si basa infatti su una serie di motivazioni che fanno esplicito e puntuale riferimento a tutto quanto sottoposto alla Commissione e dalla stessa raccolto.
Possono essere sottoposti a certificazione tutti i contratti di lavoro subordinato, sia in merito alla loro conformità alla tipologia contrattuale prescelta, sia rispetto a singole clausole oppure a variazione delle condizioni. Benchè di norma un normale contratto di lavoro subordinato viaggi su binari già delineati dalla norma o dalla contrattazione collettiva, vi sono alcuni aspetti su cui può essere opportuno prevedere una “fortificazione” a cura della certificazione. Tanto per fare alcuni esempi, la determinazione di particolari poste retributive, oppure clausole sempre più frequenti in diversi contratti (durata minima garantita, patto di non concorrenza, rinuncia alla proprietà intellettuale, part-time temporaneo e le condizioni di ritorno al tempo pieno, etc.) possono suggerire un passaggio di certificazione che ne corrobori la valenza. La certificazione può essere utilizzata anche in caso di contratti in via di definizione normativa e dai confini incerti: ad esempio, la stipula di un contratto di lavoro agile (o smart working) ex L. 81/2017 potrebbe, attraverso la certificazione, offrire opportunamente alle parti un riparo sicuro su quanto contrattualizzato rispetto ad una norma con molti punti ancora non ben focalizzati. Lo stesso potrebbe dirsi per i misteriosi (in quanto citati da alcune norme ma assolutamente privi di puntuale disciplina in alcun ad oggi) contratti di codatorialità, possibili sia in agricoltura che all’interno di un contratto di rete, Un'altra ipotesi utile potrebbe essere dato dalla certificazione di un contratto di lavoro dipendente, qualora alcuni indici potrebbero far propendere per una presunzione di mancanza di subordinazione con relativa contestazione da parte degli Enti (come nel caso di lavoro prestato verso titolari dai famigliari o verso la società da parte di un socio della stessa). per Ricordiamo qui inoltre che la riforma dell’art. 2103 c.c. ha previsto, nella versione così modificata dall’art. 3 del d. Lgs. 81/2015, il passaggio in certificazione in caso di modificazione delle mansioni e/o del rapporto nei casi previsti dal comma 6 del medesimo articolo. Un altro caso particolare in cui la certificazione potrebbe avere una particolare efficacia è la cessione di un contratto di lavoro che contenesse abdicazioni o pattuizioni particolari, quali la facoltà di retrocessione.
Come detto, poi, una parte importante della certificazione ha riguardato contratti di lavoro autonomo o parasubordinato: sono tutti quei contratti connotati da una prestazione di lavoro di carattere personale (agenti, procacciatori, contratti d’opera, contratti intellettuali, collaborazioni coordinate e continuative, etc.) laddove tale prestazione sia rivolta in via principale, ancorchè non esclusiva, verso un determinato committente. In particolare, sembra opportuno qui ricordare che a norma dell’art. 2 del D. Lgs. 81/2015 è possibile sottoporre a certificazione i contratti autonomi ai fini della constatazione dell’assenza dei parametri che ne determinerebbero l’applicazione della norme del lavoro subordinato (prestazione continuativa, personale ed etero-organizzata). Normalmente, in tutti questi tipi di contratti, la contiguità con caratteristiche normalmente non lontane a quelle del lavoro subordinato può rendere opportuna la certificazione dell’autonomia effettiva del prestatore. Si pensi nell’attuale alla diatriba sui riders sui platform workers, in cui la certificazione potrebbe rivelarsi utile. Anche il tal caso potrebbero inoltre essere certificate clausole di particolare pregnanza od effetto per le parti.
Ma un terzo nucleo di atti certificabili riguarda i contratti di impresa – o commerciali in genere - ad alto coefficiente di prestazione lavorativa: il caso più tipico è quello dell’appalto, in particolare rispetto alla sua genuinità nei confronti di ipotesi di somministrazione illecita. Ma in tale filone si inseriscono di diritto tutti gli altri contratti di esternalizzazione (come il distacco e la somministrazione stessa); né sarebbe male comprendervi (oggi la legge è limitata su questo aspetto) altri contratti che prevedano il significativo scambio di prestazioni in cui siano convolti lavoratori, con ricaduta significativa sui rapporti di lavoro stessi, ad esempio quei contratti di carattere associativo (associazione in partecipazione , associazioni temporanee di imprese, reti di imprese, attività consortili, certe attività di trasporto o logistica, etc.) che prevedano un apporto anche intenso di prestazioni lavorative . Qui, ad esempio, è stata resa obbligatoria ex lege la certificazione degli appalti in spazi confinati e a rischio di inquinamento, perlopiù pe rla verifica puntuale dei requisiti professionali che in tali casi debbono essere rispettati; ma sotto questo aspetto, non sarebbe certo male affidare alla certificazione in via generale l’accertamento ex art. 27 del D. Lgs. 81/2008 (cioè riguardante i requisiti di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi).
Per quanto riguarda queste ultime tipologie contrattuali “commerciali” la verifica delle Commissioni di certificazione non viene fatta attraverso il contraddittorio (rectius, il confronto-audizione separata ) delle parti, ma sulla fisionomia del contratto e delle sue caratteristiche di esercizio, nonché sulla struttura costitutiva del soggetto che ne dovrebbe dare attuazione.
Ma quali sono i soggetti che possono costituire e gestire le Commissioni di certificazione ? L’art. 76 del D. Lgs. 276/03 li elenca puntualmente :
• le Direzioni provinciali del lavoro;
• le Province (rispetto alle quali scarsa o nulla risulta l’attivazione di Commissioni);
• le Università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie esclusivamente nell'ambito di rapporti di collaborazione e consulenza attivati con docenti di diritto del lavoro di ruolo;
• il Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro- nel caso di predisposizione a livello nazionale di schemi di convenzioni certificati dalla commissione di certificazione istituita presso il Ministero del lavoro;
• i Consigli provinciali dei Consulenti del Lavoro di cui alla legge 12/ 1979, , esclusivamente per i contratti di lavoro instaurati nell’ambito territoriale di riferimento;
• gli enti bilaterali costituiti nell'ambito territoriale di riferimento ovvero a livello nazionale quando la commissione di certificazione sia costituita nell'ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale.
Proprio su questi ultimi attori (Enti bilaterali) si è concentrata una circolare del recente passato dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, la n. 4 del 12 febbraio 2018, che ha ribadito come a norma del D. Lgs. 276/06 gli Enti Bilaterali legittimati ad operare in tal senso (e quindi in grado di garantire un’efficacia alla certificazione) sono unicamente quelli costituiti ad iniziativa “di una o più associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative” (si noti che la congiunzione “e” suggerisce che la rappresentatività debba essere ugualmente presente in entrambe le parti costituenti); ciò ripropone il problema noto della presenza nel panorama lavoristico italiano di contrattazioni collettive prive di reale rappresentatività, ma anche quello – a monte - della determinazione (e poi della misurazione efficace) di tale rappresentatività.
In ogni caso, come si vede, gli organismi preposti alla certificazione hanno sicuramente un grande ruolo nella gestione delle dinamiche lavorative nel nostro Paese.
Ed è proprio con questo pensiero che vorremmo chiudere, senza alcuna enfasi, le presenti considerazioni: potremmo infatti rilevare come la certificazione – ed è qui la portata davvero innovativa – si ponga non solo (e sarebbe già tantissimo) come strumento di prevenzione del contenzioso ma anche come contribuzione alla costituzione di quel c.d. “diritto vivente” che promana non solo dalle riflessioni dottrinali e giurisprudenziali ma anche da quelle buone prassi e dai comportamenti corretti che gli attori del lavoro mettono in campo (virtuosamente accompagnati, nel caso della certificazione, da organismi e modalità in grado di fornire delle rilevanti garanzie).
Ciò che, e torniamo ciclicamente all’apertura di questo contributo, è stata in fondo, a parere di chi scrive, una delle grandi intuizioni della riflessione “biagiana” e cioè che le leggi – per quanto fondamentali ed indispensabili - non potessero da sé sole pretendere di disciplinare correttamente e puntualmente ogni aspetto di un lavoro che con un’accelerazione sempre maggiore presenta connotati di cambiamento ed ha bisogno di trovare le fonti della sua regolazione in relazioni costruttive fra gli attori del lavoro. Ma stiamo parlando di un diritto del lavoro che, pur senza dimenticare la sua vocazione difensiva, è visto in prospettiva ideale come diritto delle relazioni industriali e delle organizzazioni.
Per concludere questo intervento con una utile informazione, si ricorda che anche l’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano ha istituito la Commissione di conciliazione e certificazione, che è operativa tutti i giorni della settimana per l’espletamento delle funzioni sopra esposte.