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Nelle pieghe dell’attuale progetto di riforma della giustizia civile dibattuto in questo periodo in Parlamento, tema amplissimo e sui cui non vi sarebbe spazio per soffermarsi completamente, spunta una norma apparentemente neutra e di sicuro interesse, che sembra contenere fra le pieghe un preciso indirizzo politico.
Si prevede che la conciliazione in materia di lavoro, di cui all’art. 411 primo comma, del codice di procedura civile, sia esperibile direttamente fra le parti, purchè assistite ciascuna da “un difensore”.
Ovviamente a tale accordo verrebbe accordata sia l’esecutività prevista in materia, sia la capacità di concludere in maniera c.d. “tombale” le rinunce e transazioni di cui all’art. 2113 c.c..
Si tratta di un interessante alleggerimento della formulazione attuale, per la quale le sedi c.d. “protette” sono le uniche a poter raccogliere e sancire le definitive rinunce del lavoratore.
Infatti non è infrequente che in tali sedi protette pervengano accordi di fatto già raggiunti fra le parti, talvolta anche già confezionati nel testo finale, molto spesso con l’ausilio di professionisti del lavoro che si confrontano e mediano gli interessi e le rispettive posizioni delle parti.
Il passaggio nelle sedi protette acquisisce così talvolta un mero suggello formale, ancorchè rimane comunque intatta – in tutti gli altri casi e talora anche in quelli predetti – la funzione di garanzia, formale e sostanziale, che esse svolgono, con particolare riguardo alla posizione delicata e più debole del lavoratore.
A parere di chi scrive, peraltro, così come già la magistratura ha avuto modo di osservare per le conciliazioni in sede sindacale, in caso di conciliazione assistita non sarebbe male in primo luogo un inciso che rispetto a tale riforma prevedesse che l’assistenza di ciascuna parte debba essere effettiva e documentabile e non meramente formale e/o di favore.
E’ poi ovvio che a tale riguardo, e proprio per garantire al massimo una reale assistenza, il difensore non sia un soggetto qualunque ma abbia una specifica preparazione in materia di lavoro. Pertanto, non dissimilmente dalla riflessione portata avanti in seno alle professioni legali in merito alla specializzazione, l’accesso a tale particolare assistenza andrebbe tuttavia riservata, sempre a parer dello scrivente, solamente ai “lavoristi”, ovvero a quella branca dell’avvocatura con qualificata competenza in diritto del lavoro. Ma a questo corollario vorremmo aggiungerne un altro di particolare rilevanza.
Orbene, nelle pieghe della scrittura e della presentazione della riforma in argomento appare chiaro l’intento del riformista di turno di tradurre la parola “difensore con quella di “avvocato”. Pertanto la conciliazione assistita in materia di lavoro sarebbe riservata solo qualora le parti siano assistite da due avvocati.
E’ per mero senso dell’obiettività, e non certo per difesa di una categoria che di esser difesa non ha alcun bisogno, che osservo che se questa fosse la piega presa dalla novella normativa è stridente la mancanza, fra i possibili difensori-conciliatori, dei consulenti del lavoro.
I quali, non solo per definizione, competenza in materia lavoristica ce l’hanno, eccome. Non soltanto, e pienamente, nella composizione giuridica della controversia, ma anche in molteplici aspetti non proprio secondari della conciliazione, a cominciare dalle fasi di calcolo del quantum, senza trascurare anche le ricadute amministrative fiscali e previdenziali. Anzi, proprio l’esperienza in materia di contenzioso e conciliazione porta ad osservare come non di rado su tali aspetti si osservi in talune sedi una certa trascuratezza di forma e sostanza, che sicuramente non agevola il successivo esito positivo di una controversia già composta e che rischia di incagliarsi ex post sui dettagli (nei quali, come recita un vecchio adagio, si nasconde il diabolico).
Del resto, già i consulenti del lavoro hanno nel DNA del loro codice deontologico quanto basta per rappresentare compiutamente gli interessi di una parte in un ambito lavoristico, e non già solamente sul fronte datoriale ma anche, se occorresse, assistendo il lavoratore. Cosa che è riconosciuta, solo per fare qualche esempio, per quanto riguarda l’invio del modello telematico di dimissioni o, con ancor più pregnanza, per le previsioni dell’Art. 3 del D.Lgs. 81/2015 in merito all’assistenza del lavoratore dinanzi alle commissioni di certificazione in caso di modifica delle mansioni. Senza contare che proprio alla categoria dei Consulenti del Lavoro, sia pure in quanto Ordini Provinciali e sotto il coordinamento del Consiglio Nazionale nell’ambito di intese con il Ministero del Lavoro, è affidata la possibilità di costituire Commissioni di Certificazione, Conciliazione ed Arbitrato. Che funzionano da tempo a pieno regime sul territorio con pluralità di colleghi adeguatamente formati ed esperti.
Insomma, l’esperienza e la competenza ci sono tutte, la deontologia pure, non sembra esserci nulla di ostacolo che a rappresentare una parte in ambito di conciliazione assistita vi siano anche i Consulenti del Lavoro. A meno che, ovviamente, questa piega della riforma non nasconda un ingiustificato favor verso una categoria, quella degli avvocati, minando però nel contempo le esigenze di celerità e di snellimento del contenzioso che in tali pratiche di ADR trovano la loro giustificazione, visto l’altissimo numero di Consulenti del lavoro che in tali conciliazioni sono coinvolti in assistenza alle parti.
Peraltro ciò darebbe anche la possibilità, si consenta a chi scrive, di inserire un altro tassello non secondario, che è quello della piena reciprocità deontologica fra le parti che assistono il contenzioso lavoristico, reciprocità che oggi purtroppo non sussiste, sostenendo taluni legali in punta di diritto che la facoltà di effettuare comunicazioni riservate – e pretenderne la riservatezza e non riproducibilità - spetti solo e soltanto agli avvocati, senza alcuna prerogativa riconosciuta al consulente.
Che poi, ad onor del vero, la maggior parte dei legali questa forma di rispetto e collaborazione interprofessionale la osservino è altra cosa, chi si occupa del diritto del lavoro può comprendere senza fatica la differenza fra diritto effettivo e benevola concessione.

 

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