Testo integrale con note e bibliografia
Il contratto di lavoro intermittente è stato riscritto dal D. Lgs. N. 81/2015 nell’ottica di un ampliamento delle ipotesi di possibile ricorso a tale forma di contratto, peraltro facendo riferimento ad un decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociale ad oggi non ancora emanato.
Si tratta di un contratto, a tempo determinato o indeterminato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno, comunque per non più di 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni. Il lavoratore può essere assunto con obbligo di risposta, quindi se chiamato deve erogare la propria prestazione (in tal caso ha diritto una particolare indennità), oppure senza obbligo di risposta per cui sarà il lavoratore a decidere se prestare la propria opera o no.
Oltre alle ipotesi previste dai CCNL siglati dalle Organizzazioni Sindacali maggiormente rappresentative e oltre alle ipotesi in cui sussistendo i requisiti soggettivi inerenti all’età anagrafica (fino a 25 anni non compiuti e oltre i 55 anni) è possibile accedere al contratto di lavoro intermittente per le attività elencate nel Regio Decreto n. 2657/1923 (di fatto viene usato per lo più per attività di vigilanza, custodia, fattorini, camerieri e personale di servizio nel settore del turismo). In merito, mentre il Mistero del Lavoro, con nota prot. 18194/2016 precisava che la contrattazione collettiva ben poteva vietare il lavoro intermittente, la Suprema Corte con sentenza n. 29423/2019 stabiliva che le Parti sociali non hanno un diritto di veto potendo solamente definire le situazioni che ne giustificano il ricorso. È un tipo di contratto che non trova applicazione nella Pubblica Amministrazione.
Obbligo spesso trascurato nella pratica è che il datore di lavoro, fatte salve disposizioni più favorevoli dei contratti collettivi, è tenuto ad informare con cadenza annuale le RSA o RSU sull’andamento del ricorso al contratto di lavoro intermittente (art. 15, c.2).
È un contratto interessante per chi è iscritto nelle liste di mobilità in quanto, se non è previsto l’obbligo di risposta, il lavoratore permane nel diritto di restare iscritto anche se il contratto è a tempo indeterminato (Ministero del Lavoro, interpello n. 15/2015).
Tuttavia, sono stabiliti dei divieti (art. 14, D.Lgs. 81/2015):
- per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
- presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi (articoli 4 e 24 della Legge 23 luglio 1991, n. 223) che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente, oppure presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente;
- ai datori di lavoro che non hanno svolto la valutazione dei rischi in applicazione della normativa a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Il datore di lavoro è tenuto alla comunicazione preventiva di assunzione agli organi competenti (Unilav), specificando l’obbligatorietà o meno di rispondere alla chiamata; il lavoratore va registrato nel Libro unico). Prima dell’inizio di ciascuna prestazione lavorativa (anche il giorno stesso purché la prestazione non sia già in corso) o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a 30 giorni, il datore è tenuto a comunicarne la durata con modalità semplificate alla Direzione Territoriale del Lavoro competente per territorio, mediante SMS o e-mail.
Il contratto di lavoro intermittente è stato ricompreso tra i contratti oggetto di revisione da parte del recente D.Lgs. n.104/2022, il c.d. Decreto Trasparenza. Ribadita la necessità della forma scritta, all’art. 5 il Decreto elenca una serie di contenuti da ricomprendersi all’interno dei contratti.
Volendo entrare nello specifico, il riferimento alla natura variabile della programmazione del lavoro, caratteristica propria del lavoro intermittente, ha destato molte perplessità, nella parte in cui veniva previsto che il datore di lavoro fosse obbligato a chiamare il lavoratore con un preavviso di almeno un giorno, norma che poi è stata rimossa lasciando alla libera trattativa qualsiasi tipo di preavviso. Inoltre, non viene più prevista una comunicazione che integri le informazioni, prevedendo l’obbligo di redigere da subito il contratto di lavoro. In questo caso viene imposto che il contenuto minimo di tale tipo di contratto sia il seguente:
a) la natura variabile della programmazione del lavoro, durata e ipotesi, oggettive e soggettive, che consentono la stipulazione del contratto a norma dell’art. 13
b) il luogo e le modalità della disponibilità eventualmente garantita dal lavoratore
c) il trattamento economico normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita, con l’indicazione dell’ammontare delle eventuali ore retribuite garantite al lavoratore e della retribuzione dovuta per il lavoro prestato in aggiunta alle ore garantite nonché la relativa indennità di disponibilità, ove prevista
d) le forme e le modalità con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l’esecuzione della prestazione di lavoro e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore, nonché le modalità di rilevazione della prestazione
e) i tempi e le modalità di pagamento della retribuzione e dell’indennità di disponibilità
f) le misure di sicurezza necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto
g) le eventuali fasce orarie e i giorni predeterminati in cui il lavoratore è tenuto a svolgere le prestazioni lavorative
L’intento è quello di consentire al lavoratore di avere le maggiori certezze possibili nel relazionarsi con un contratto che vorrebbe, per sua natura, essere molto flessibile. In effetti il Decreto Trasparenza esprime in alcuni punti, di cui si parla troppo poco, un messaggio molto chiaro: ogni lavoratore deve essere messo nelle condizioni di poter godere della più ampia prevedibilità dello svolgersi del suo lavoro. In questo si trova un forte contraddizione tra le necessità datoriali di un lavoro intermittente e gli articoli 9 e 10 del decreto in discorso. Tali articoli dispongono rispettivamente “la prevedibilità minima del lavoro” e il diritto del lavoratore alla “transizione a forma di lavoro più prevedibili, sicure e stabili”.
Dal nostro punto di vista aziendalistico si tratta di condizioni irrealizzabili in un mondo in frenetico cambiamento. Oggi le imprese sono chiamate ad essere particolarmente flessibili, adattabili a condizioni di mercato sempre più instabili. Ci si chiede come sia possibile in tale contesto storico, garantire la prevedibilità del lavoro ed una condizione di stabilità, a cui tutti di certo aspirano, anche e forse soprattutto gli imprenditori, ma che la realtà economica attuale impedisce di realizzare nella maggior parte dei casi.
L’intento è chiaro, il legislatore non può dare supporto ai contratti che incentivano la precarietà, di conseguenza, non potendo vietarli (almeno per ora), tende a porre vincoli tali da rendere il percorso talmente disagevole da essere poco conveniente. Di nuovo ci si domanda se un tale sistema normativo possa essere adatto ai continui cambiamenti tecnologici, ad affrontare una concorrenza delle imprese estere sempre più dinamica (ormai il mondo è interconnesso ed è diventato “piccolissimo”).
Per i contratti di lavoro intermittente il legislatore non offre alcuna deroga al contenuto dell’articolo 9, ne consegue la pretesa che il datore di lavoro debba riuscire in qualche modo a prevedere qualsiasi cosa, in modo da poter avere l’andamento più lineare possibile della sua produzione, altrimenti potrebbe arrivare al paradosso di non poter imporre al lavoratore l’obbligo di svolgere alcuna prestazione “poco prevedibile” a meno che non ricorrano contemporaneamente le seguenti condizioni:
- il lavoro si svolga entro ore e giorni di riferimento predeterminati
- il lavoratore sia informato dal suo datore di lavoro sull’incarico o la prestazione da eseguire, con il ragionevole periodo di preavviso che va obbligatoriamente previsto nel contratto di lavoro (punto 3 della lettera p) di cui sopra)
in carenza di una o entrambe le condizioni di cui sopra il lavoratore ha il diritto di rifiutare di assumere un incarico di lavoro, o di rendere la prestazione, senza subire alcun pregiudizio anche di natura disciplinare.
Ci si domanda: cosa faranno, ad esempio, le imprese che offrono servizi di assistenza tecnica o manutentiva? Se un tubo di un cliente comincia a perdere di domenica (magari di mattina molto presto) l’azienda troverà qualcuno disposto ad andare ad aggiustarlo? Di sicuro queste imprese, anche se molti contratti collettivi disciplinano la c.d. “reperibilità”, dovranno integrare le regole dell’orario di lavoro con un contratto collettivo aziendale in modo da definire ciò che serve per poter rendere i propri servizi, al fine di avere una ragionevole certezza del fatto che nessuno si rifiuterà di fare il lavoro in caso di “imprevisto”.
Nella pratica si osserva che, nel quadro complessivo della gestione dei rapporti di lavoro a prestazioni discontinue, il lavoro intermittente pare essere utile per le aziende con più di cinque dipendenti che non possono accedere al lavoro accessorio, o che pur essendo sotto tale soglia, vogliano offrire maggiori compensi e avere più tempo-lavoro a disposizione senza dover accedere ai c.d. voucher.
Sulla base di queste osservazioni desta forti perplessità la lettura dell’articolo 10 del D.Lgs. 104/2022:
Articolo 10 – Transizione a forme di lavoro più prevedibili, sicure e stabili
Ai lavoratori va garantito un lavoro stabile, prevedibile, sicuro e chiunque può chiedere di averlo se ritiene che il suo ruolo sia troppo impegnativo o instabile per lui.
Ecco il contenuto di questo articolo che lo impone chiaramente:
1. Ferme restando le disposizioni più favorevoli già previste dalla legislazione vigente, il lavoratore che abbia maturato un'anzianità di lavoro di almeno sei mesi presso lo stesso datore di lavoro o committente e che abbia completato l'eventuale periodo di prova, può chiedere che gli venga riconosciuta una forma di lavoro con condizioni più prevedibili, sicure e stabili, se disponibile
2. Il lavoratore che abbia ricevuto risposta negativa può presentare una nuova richiesta dopo che siano trascorsi almeno sei mesi dalla precedente
3. Il diritto può essere esercitato a condizione che il lavoratore manifesti per iscritto la propria volontà al datore di lavoro o al committente entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro il diritto di precedenza si estingue una volta trascorso un anno dalla data di cessazione del rapporto
4. Entro un mese dalla richiesta del lavoratore di cui ai commi uno e tre il datore di lavoro ho il committente forniscono risposta scritta motivata
5. Le previsioni del presente articolo non si applicano ai lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, hai lavoratori marittimi e del settore della pesca e ai lavoratori domestici
Abbiamo notato che la norma è scritta in modo particolare; infatti, non dispone che il datore di lavoro sia “obbligato” a spostare il lavoratore ad altra posizione se non è disponibile, però si può presupporre che lo sarebbe se tale condizione esistesse; se la posizione non è disponibile il datore di lavoro deve “motivare” il perché non lo è, e se il motivo non fosse ritenuto adeguato il lavoratore potrebbe agire giudizialmente per la tutela del suo diritto (lo stabilisce il successivo articolo 12).
In un modo in cui continuamente nascono nuovi lavori, dove la tecnologia è in continuo e velocissimo cambiamento, dove l’adattabilità ai nuovi contesti economici e competitivi è l’unico modo di sopravvivere ci si chiede, da economisti, come possa essere gestita con successo l’applicazione di queste nuove norme. L’intento è comprensibile ma la realizzazione pratica è, nella maggior parte dei casi, probabilmente di difficilissima attuazione.
E dal lato lavoratore? Siamo sicuri che non si producano intermittenti “seriali”, ossia lavoratori che abbiano compreso che questo tipo di contratto può essere utile a diverse imprese o professionisti per gestire in modo più flessibile alcune attività? E se i datori di lavoro fossero più di uno perché non si potrebbe iniziare a definirli committenti? E il lavoratore non potrebbe a questo punto essere definito prestatore d’opera ex art. 2222 c.c.? Possono sembrare domande particolari, tuttavia, mentre è chiaro che un contratto intermittente simulato può facilmente trasformarsi in un contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, un lavoro ormai diventato per una persona “professionale”, esercitato per più committenti in modo abituale perché non potrebbe essere riqualificato come lavoro autonomo? Pensiamo ad es. che il Ministero del Lavoro con l’interpello n. 17/2014 ha tenuto a precisare che può essere consentito l’utilizzo del contratto intermittente anche per un’impresa appaltatrice (nel caso di specie si trattava di un servizio di pulizia), ecco che allora ci potrebbero essere lavoratori in grado di offrire i propri servizi a più imprese. Certo è arduo pensare che un simile tipo di controllo sia operato dall’Ispettorato del Lavoro o dagli agenti della Guardia di Finanza; tuttavia, è legittimo ritenere che ciò potrebbe essere possibile con tutte le conseguenze di un cambio netto degli obblighi anche contributivi, oltre che fiscali. Certo si produrrebbe una situazione, che in prima battuta potrebbe apparire un pò “fantascientifica”, per cui i datori di lavoro coinvolti potrebbero chiedere il rimborso dei contributi versati e i lavoratori potrebbero essere obbligati a pagare i contributi personali omessi, magari perché inquadrabili nella gestione commercianti. Se, però, pensiamo che esistono casi in cui l’Inps ha disconosciuto il rapporto di lavoro dipendente instaurato in azienda dal genitore nei confronti, ad esempio di una figlia, con conseguente restituzione dei contributi versati dall’impresa e con richiesta di restituzione di quanto percepito dalla figlia stessa per il periodo di maternità carico dell’istituto, si capisce che la questione potrebbe essere tutt’altro che remota. E nel mondo di oggi estremamente interconnesso l’ipotesi potrebbe non essere da scartare.