La Cassazione, con la sentenza n. 1663 del 24 gennaio 2020, ha confermato l’estensione ai c.d. Riders, ossia coloro i quali consegnano cibi da asporto a domicilio utilizzando la propria bicicletta o motorino, le norme sul lavoro subordinato. La Cassazione, in n passaggio della sentenza, non ritiene che possa esistere un tertium genus, intermedio tra l’autonomia e la subordinazione. Secondo la Cassazione, infatti, l’art. 2, comma 1, del D.Lgs. 81/2015 è una norma di disciplina e, quindi, non crea una nuova fattispecie. La Suprema Corte suddivide la fase genetica dell’accordo con il Rider a cui viene di fatto solo proposto, tramite una apposita piattaforma, di iniziare un turno e poi di effettuare una consegna, restando, egli, libero di effettuare o meno la prestazione, dalla fase funzionale nella quale il raider esegue la prestazione secondo modalità che ben possono essere considerate tipiche del lavoro subordinato. Sembra così che il rapporto nasca autonomo ma poi venga a svolgersi in un modo tale da riportarlo alla regolamentazione tipica del lavoro subordinato.
Emblematico è il punto della sentenza in cui si afferma che “non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perché ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato “.
Questa affermazione mi porta a riflettere sul fatto che nella storia dell’uomo il diritto è nato per regolamentare i rapporti, direi prima di tutto commerciali. Ossia sono nati prima i rapporti tra le persone e poi le leggi che li hanno regolamentati. Così il mio suggerimento è di partire dal comprendere a livello economico/imprenditoriale chi è il Rider. L’imprenditore produce e commercializza beni o servizi, il professionista produce servizi mettendo a disposizione dei terzi (i clienti) le proprie conoscenze, entrambi con lo scopo di trarne un utile decidendo autonomamente come promuovere commercialmente la propria attività per crescere in termini di fatturato e utili. Il dipendente è una persona che pone al servizio di un terzo, il datore di lavoro, le proprie competenze lasciando che sia quest’ultimo a decidere il come, dove e quando e a che “prezzo” (rispettando il limite minimo stabilito dai CCNL) le proprie attività debbano essere “fedelmente ex art. 2105 c.c.” svolte. Nella realtà ormai è da decenni che ci si interroga sulla c.d. parasubordinazione, su cosa sia davvero la collaborazione coordinata e continuativa citata solo nell’art. 409 cpc (che però non regola il contratto ma solo le modalità processuali), di fatto il Rider incarna quella fattispecie particolare di persone che vuole mantenere una certa libertà di autodeterminare il quando prestare la propria opera e quindi non desidera (almeno in teoria) vincolarsi in un rapporto di tipo subordinato, ed in più utilizza beni propri per prestare la propria opera (la bicicletta o il ciclomotore). Di fatto non è un vero imprenditore perché non può pubblicizzare ad esempio la propria precisione nelle consegne per aumentare il numero di clienti/committenti e per aumentare le proprie entrate deve semplicemente essere disponibile a fare più consegne. Di fatto non è un vero dipendente perché può decidere quando iniziare il proprio turno, non è vincolato ad effettuare una consegna perché può non farla. Quindi si palesa l’esistenza di un tertium genus? Sotto il profilo civilistico no perché esiste l’art. 2222 c.c. che disciplina il contratto d’opera che già regola rapporti occasionali ovvero l’art. 1677 qualora le prestazioni siano di carattere continuativo di servizi. Un secondo aiuto a dirimere la questione deriva dall’art. 1 del D.P.R. n. 633/1972, che impone l’Iva sulle prestazioni effettuate nell’esercizio di arti e professioni o in regime d’impresa così come definite rispettivamente dagli artt. 53 e 55 del TUIR. Caratteristica peculiare è l’esercizio in forma abituale ancorché non esclusiva di attività di lavoro autonomo o d’impresa ex art. 2195 c.c.. Significa che se una prestazione diviene costante e fonte abituale di un reddito per una persona, essa, stando alla interpretazione letterale delle norme citate, dovrà dotarsi di partita Iva. Cosa ancor più vera se la persona opera abitualmente utilizzando mezzi propri, per svolgere attività per uno o più committenti, in tal caso egli altro non è altro che un imprenditore (o un professionista se si tratta di opera intellettuale).
Credo che il Professor Marco Biagi avesse in mente questo criterio quando, nella legge che portava il suo nome, introdusse il lavoro a progetto. Io tornerei lì, infatti se non si ha la partita Iva significa che non si esercita abitualmente una certa attività ossia si svolge una attività limitata ad una singola “commessa” ossia si produce una prestazione di tipo occasionale, dove l’occasionalità non è in termini di durata ma in termini di “progetto” per dirla alla Biagi. Se poi si inizia a svolgere tale attività più volte per uno stesso committente o, a maggior ragione per più committenti, ecco che tale attività diviene abituale e, dunque, o d’impresa o professionale e la persona si dovrà dotare di partita Iva, altrimenti dovrà essere assunta. Da qui vi fu il tentativo di stabilire una percentuale di fatturato tale per cui una prestazione con partita Iva poteva essere trattata come lavoro dipendente (la Legge n. 92/2012 finalizzata a contrastare il fenomeno delle false partite Iva introducendo l’art. 69 bis nel D.Lgs. 276/2003 che conteneva un meccanismo di presunzione al verificarsi di alcune condizioni).
Quindi ne deduco che effettivamente esiste una via di mezzo, una sorta di situazione che direi che dovrebbe essere per sua natura provvisoria, in cui si attiva non un tertium genus vero e proprio ma semplicemente una prestazione autonoma di tipo continuativo. In questo modo il Rider sarebbe costretto ad aprire una partita Iva? Secondo me sì. In questo senso bene ha fatto il Jobs Act a disciplinare delle tutele specifiche per il lavoro autonomo; male ha fatto il legislatore successivo a non considerare la realtà economica ed i rapporti che ne derivano intervenendo sul lavoro svolto attraverso piattaforme digitali, in specie per i Riders, con il D.L. n. 101/2019 convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 128/19 disponendo che tali rapporti seppure autonomi, debbano essere di fatto trattati come rapporti di lavoro subordinato; questo dal mio punto di vista di economista pare essere una contraddizione in termini. Tuttavia, il pregio della nuova norma è stato quello di aumentare considerevolmente le tutele dei Riders e di demandare, sostanzialmente, alla contrattazione collettiva (con l’intervento delle Parti Sociali), i dettagli della regolamentazione dei rapporti di lavoro in discorso, soprattutto in termini di compenso minimo.
A questo punto si può concludere che siamo davvero di fronte all’esistenza di un tertium genus?
Al momento sembra che la risposta sia negativa. Benché la nuova legge stabilisca che ci possa essere un rapporto di lavoro autonomo trattato da lavoro dipendente questo non significa l’introduzione nel nostro sistema giuridico di una nuova tipologia contrattuale, significa solo garantire le tutele specifiche del lavoro subordinato a prestatori d’opera di fatto parzialmente autonomi. Tale conclusione permette, tra l’altro, di evitare ai Riders l’obbligo di aprire una partita Iva posto che la disciplina fiscale applicabile in forza della nuova formulazione dell’art. 2 del D.Lgs. 81/2015, ne determina il trattamento disciplinato dall’art. 52 del TUIR per i redditi assimilati al lavoro dipendente.