TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Si possono contrapporre o anche solo distinguere valori e tecniche nella ricerca su una complessiva esperienza giuridica?
La Rivista mi chiede una lettura critica dell’importante libro e ciò mi fa piacere, per l’occasione di un sintetico confronto con le meditate opinioni di tanti Colleghi e Amici, che hanno profuso un rilevante impegno teorico. Ne dobbiamo essere loro grati, come per qualunque riflessione rivolta al senso profondo della nostra materia, con un obbiettivo messo in luce dal titolo. Si avvicinano “valori” e “tecniche” e, nella sua Introduzione, il prof. Del Punta annuncia il complessivo tentativo di “accomunare in una unica riflessione, seppure condotta da diverse prospettive di osservazione, due discorsi, quello sui valori e quello sulle tecniche, che spesso tendono a procedere per vie proprie, senza che se ne colgano le reciproche relazioni” (v. pag. 7). Nonostante l’affermazione metta i due concetti in un raccordo dialettico, ne postula la distinzione, come, in fondo, è implicito nel titolo.
Qui sorge una prima questione, forse irrisolvibile, poiché rimanda all’idea individuale dell’esperienza giuridica e del suo manifestarsi nella storia. Forse che la valutazione di un ordinamento, o di un suo ambito prescrittivo, consenta una originaria diversificazione fra valori e tecniche o essi concorrono in una inscindibile sintesi a definire il significato della norma e del suo recepimento nella vita collettiva, a maggiore ragione qualora si discuta di oltre ventuno milioni di rapporti di lavoro subordinato e, dunque, del destino professionale e patrimoniale dei loro protagonisti? Di fronte al precetto e alla sua vita nell’applicazione, esiste una dimensione tecnica da separare da quella dei valori espressi e si può immaginare una analisi a sé di tali prospettive, come se l’una potesse rinnegare l’altra? O questo approccio nuoce alla comprensione storica del diritto, espressione della forza regolativa della società nel suo complesso, in cui le ragioni sistematiche e quelle strategiche si combinano nell’evoluzione economica e civile?
Il libro parte dalla ricerca del proprio dei valori, minacciati dall’incombere dell’economia e delle sue logiche, come il prof. Del Punta lascia intendere, seppure con il suo abituale equilibrio (Diritto del lavoro e valori, pag. 23), facendo riferimento alla presenza e all’aggressività “di un ‘nemico’ esterno, la critica economica neo – liberale o liberista, che come è noto ha trovato nella globalizzazione e nella montante rivoluzione tecnologica le condizioni ideali per allargarsi politicamente e per imporre il valore euristico delle proprie acquisizioni o, spesso, certezze”. Se l’analisi è rilevante sul piano della comprensione dei fenomeni, ci si può domandare se la loro lettura si possa basare su valori “esterni” al cambiamento culturale e produttivo, come se i due fronti appartenessero a dimensioni distinguibili e non ci trovassimo davanti a una inscindibile esperienza, nella quale, per quanto possa spiacere, non tanto “devono” convivere, ma in modo inevitabile coesistono tutte le pulsioni significative per la regolazione giuridica, quelle a noi gradite e quelle avversate. Anche chi non abbia alcuna simpatia per il potere politico italiano contemporaneo, deve riconoscere, sul piano della comprensione delle dinamiche, come non si possa guardare alla società in nome di contrapposizioni precostituite, ma si debba pensare a essa in relazione a una evoluzione governata da tutti i disorganici impulsi presenti, compresi le leggi e i contratti collettivi, a loro volta espressione unitaria di valori e tecniche.
Almeno in parte, coglie questo spunto chi, pure vedendo una contrapposizione fra valori e capitalismo (v. Maio, Valori e tecniche nell’assetto dei licenziamenti emergente dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, pag. 201 ss.), riconosce che “il capitalismo, proprio in quanto sistema di valori professato e praticato in massa da due secoli, è, ormai, un habitus mentale, un discorso (…) che ci appartiene e ci condiziona tutti”. Sarei più drastico; come la regola giuridica è espressione di una storia nella quale sarebbe velleitario contrapporre valori e tecniche, così la comprensione della nostra società (e di una sua componente qualificata) non può essere imperniata sulla distinzione programmata di valori, gli uni “esterni” agli altri, ma sulla necessaria accettazione di un corso caratterizzato dall’influenza dialettica fra componenti ideali e pratiche (nel significato greco dell’espressione), diverse nel fondamento, ma in reciproca connessione. Queste considerazioni non ridimensionano affatto il pregio e l’importanza del libro, ma invitano solo a guardare a noi stessi come (piccoli) protagonisti di una esperienza nella quale l’ipostasi di valori del lavoro non ha senso se non è vista in correlazione a molto più articolate esigenze, a cominciare da quella del reddito, non raggiungibile senza l’impresa, nel mondo contemporaneo.
2. Un possibile catalogo dei valori e le indicazioni costituzionali.
Ci si può chiedere se abbia la stessa fiducia nei valori chi afferma che “la scommessa (…) è superare l’idea di un apparato regolativo impermeabile a qualunque valutazione del contenuto delle norme, di ciò che esse descrivono o prescrivono, nella consapevolezza della necessità di una regolazione che rappresenti il punto di sintesi tra testo e contesto, tra tecniche di regolazione e di controllo dei poteri datoriali e situazioni sostanziali diverse, tra teoria, storia e cambiamento dei luoghi di lavoro” (v. Caruso – Zappalà, Un diritto del lavoro “tridimensionale”: valori e tecniche di fronte ai mutamenti dei luoghi di lavoro, pag. 49 ss.). A prescindere dalle loro diverse, possibili concezioni, i valori si devono presentare come connotati da una qualche componente se non trascendente rispetto ai modelli organizzativi, almeno stabile a fronte dell’innovazione tecnologica, e la documentata attenzione per tale orizzonte porta la riflessione piuttosto verso le tecniche, come, in fondo, si ricava dall’attento esame delle indicazioni europee (v. pag. 51 ss.), per lo più ricondotte alla disciplina delle strategie prescrittive, non degli obbiettivi ultimi, persino a proposito del divieto di discriminazione, del quale a ragione si postula la crescente centralità nella giurisprudenza.
In qualche modo (se non forzo le sue articolate indicazioni) replica il saggio successivo, il quale non ridimensiona il ruolo delle istituzioni europee, ma ne sottolinea le incertezze politiche e culturali, ricordando che quello della crisi epidemica sarebbe il momento “per riformulare o ripensare ai nostri valori, l’occasione che ci offre la storia per distaccarci dall’unilateralismo del principio economico e dalla tirannia della ‘crescita’, che impediscono di vedere la dimensione non economica dello scambio, la possibilità di (…) fondare una relazione etica fra le persone nell’ambito delle relazioni di mercato” (v. Giorgio Fontana, Il diritto del lavoro e i valori nella crisi, pag. 85 ss.). Il suggerimento è meritorio e, discostandosi dall’analisi delle attuali propensioni organizzative, cerca un fondamento unitario a obbiettivi complessivi (e stabili) dell’ordinamento, se mai cogliendo la crisi (nel significato etimologico del termine), come … momento del giudizio, secondo la concezione greca, quale presupposto per una riflessione generale sul dovere essere.
Riprende questi temi chi ricorda la “duplice dimensione del lavoratore subordinato. Da un lato egli è un fattore della produzione, che partecipa alla organizzazione dell’impresa. Dall’altro è una persona, che, nello svolgimento di tale funzione produttiva, mette in gioco la sua sfera biologica e psicologica, con tutti gli annessi profili connessi alla sicurezza, alla dignità, alla libertà e così via” (v. Speziale, Il “diritto dei valori”. La tirannia dei valori economici e il lavoro nella Costituzione e nelle fonti europee, pag. 130 ss.). La sintesi non può essere discussa, poiché pone con chiarezza i termini della questione. Se mai, questa diventa sfumata quando si passi (v. pag. 137 ss.) alla ricognizione delle implicazioni costituzionali e del diritto europeo. A leggere le brillanti analisi su quali componenti dei valori dovrebbero essere tutelate (e come), il saggio entra nel merito delle ultime contrapposizioni, con una visione solida, ma, per sua natura, discutibile (v. pag. 142 ss., con l’ammissione del variare dell’interpretazione costituzionale). Poco importa il fatto che in larga misura io condivida la tesi, soprattutto a proposito dei licenziamenti; la ricostruzione della Costituzione e degli atti dell’Unione europea è comunque aperta a varie soluzioni e appare un intrecciarsi fra valori e tecniche, se mai questa conferma fosse stata necessaria.
In fondo, quale fattore del divenire dell’ordinamento, neppure la Costituzione si pone al di fuori del cambiamento storico, il quale ne condiziona la lettura e, quindi, le conseguenze sull’esperienza giuridica. Anzi, non sempre i principi costituzionali hanno quella solidità di cui li si accredita (v. pag. 144), con una lettura affascinante sulla pretesa priorità della dimensione personalista, ma con una riflessione alquanto creativa, certo non presente al legislatore costituzionale storico, collocato in una epoca assai lontana per la concezione del sistema economico e dei rischi indotti sulle dinamiche collettive. Pertanto, la ricerca nella Costituzione e nel sistema europeo dei presupposti della cernita dei valori sconta un vizio di origine. La loro selezione non è mai frutto di una effettiva operazione ermeneutica, ma di una valutazione complessiva del diritto e, quindi, delle sue finalità, con un predominio delle convinzioni soggettive. Se è ineliminabile e da accettare come componente della riflessione sugli scopi della tutela, almeno si deve riconoscere tale vocazione creativa, con un ridimensionamento dei riferimenti all’esegesi di disposizioni costituzionali, per quanto generali e capaci di adattarsi al mutare delle condizioni economiche.
3. Il diritto del lavoro e la cosiddetta promessa di libertà.
A volere concedere spazio alle impostazioni di Hegel (e non è concessione da poco, almeno per chi come me è ancorato a una visione cristiana), può sorprendere il quesito così formulato (v. Perulli, Il diritto del lavoro tra libertà, riconoscimento e non – dominio, pag. 101 ss.): “il diritto del lavoro può essere concepito come parte di un progetto normativo coerente con la premessa, di matrice hegeliana, secondo la quale la coscienza di sé e la capacità di agire dipendono da un riconoscimento preventivo del soggetto da parte degli altri?” Sul piano storico, la risposta negativa è agevole e non si vede alcun realistico motivo per cui dovrebbe essere messa in dubbio. Il diritto del lavoro è una strategia di autoriforma del sistema capitalistico; da un lato, il negozio sindacale è stata la più originale creazione giuridica della società ottocentesca, frutto della spontanea risposta alla sfida del mondo protocapitalistico. Dall’altro lato, questo contratto è nato con un accostamento precario alle iniziative eteronome e si è subito interrogato sul ruolo dello Stato, di possibile riequilibrio delle diseguaglianze.
Sul piano teorico, è sostenibile, ma non persuasiva l’idea per cui la coscienza di sé dipenderebbe dal riconoscimento altrui. Appunto, è espressione del pensiero di Hegel, cui è possibile, se non necessario contrapporre una originaria concezione personalista, frutto della Creazione e, quindi, specchio di una dignità immortale del soggetto, che non ha bisogno di alcun riconoscimento per avere coscienza di sé. Se mai, può avere necessità di aiuto nell’esercizio della sua sfera volitiva e cognitiva, ma sul versante applicativo, non in ordine alla più impegnativa e cruciale “coscienza di sé”. Pertanto, non si può condividere la tesi per cui “questa tensione verso il riconoscimento, id est una soggettività che dipende dall’altro e si completa nell’altro, consente di riannodare ancor più saldamente, sotto il profilo normativo, i nessi tra dignità, solidarietà e uguaglianza, attribuendo al diritto del lavoro il compito politico – culturale di costruire un sistema normativo capace di riflettere la connotazione in senso sociale del rapporto di lavoro, in cui la solidarietà completa l’autonomia del soggetto mediante relazioni di riconoscimento” (v. pag. 105).
La soggettività e l’autonomia vengono prima di qualunque prospettiva dialettica e non si collegano a una dimensione relazionale, ma sono il segno e il prodotto di una originaria dignità dell’uomo, fuori dalla dimensione storica, in particolare per quanto attiene al fondamento della sua razionalità e della sua volontà. Ciò nulla toglie all’importanza dell’attenuazione delle differenze ai fini dell’esercizio delle prerogative individuali, profilo del tutto scisso dall’idea fondativa della persona quale protagonista della storia, ma da essa non determinata. Sia come lavoratore eterodiretto, sia come imprenditore, l’uomo pone in primo piano valori che non si basano solo sulle dinamiche sociali, né vi trovano il loro fondamento primo, ma sono espressione del suo essere. Né il diritto del lavoro asseconda una simile visione del riconoscimento, pure esprimendo istanze solidaristiche non transeunti. Queste si imperniano sull’idea della persona non quale conseguenza dei rapporti, ma come loro motore.
Peraltro, è esatta l’affermazione per cui, “nel rapporto di lavoro, per evitare che il dominio (…) sia espressione nell’esercizio del potere, non ci si può certo affidare alla indulgenza o benevolenza del datore di lavoro, ma è necessario costruire un robusto sistema di ‘sicurezza’ contro le interferenze illegittime nella sfera di libertà altrui” (v. pag. 109). Non si vede perché mai l’inderogabilità delle norme o delle clausole del contratto collettivo dovrebbe avere un simile fondamento hegeliano; al contrario, in modo molto più aderente alle dinamiche storiche (e non a concezioni aprioristiche di matrice idealistica), l’inderogabilità è spiegata dalle differenti potenzialità fra datore e prestatore di opere, con le connesse esigenze di protezione e di limitazione dell’autonomia negoziale del primo. Poi, non si capisce perché la realizzazione delle finalità del diritto del lavoro dovrebbe postulare la partecipazione al governo aziendale (v. pag. 111), secondo modelli messi in discussione persino in Germania e mai radicatisi nel nostro Paese. Il diritto del lavoro non vuole, né può realizzare alcuna “eticità democratica” (v. pag. 113), ma solo attuare relazioni equilibrate fra persone e, a tale fine, lo strumento prioritario e meglio riuscito nel nostro ordinamento sono i vituperati limiti esterni all’esercizio dei poteri (v. pag. 111). Se mai, sono messi in discussione nella loro centrale e tradizionale posizione dall’estendersi della tutela antidiscriminatoria, non da avventurose escursioni del legislatore verso la partecipazione al governo delle imprese.
4. I poteri del datore di lavoro, la loro regolazione e l’attuale contesto organizzativo.
Se la cernita dei valori è un tema destinato a sfuggire a una completa catalogazione, se non altro per il modificarsi degli obbiettivi aziendali e delle necessità dei lavoratori, è inevitabile la riflessione sulla struttura del contratto di lavoro e questa si apre con un contributo (v. Corazza, Al di là del rapporto di lavoro: fenomenologia e stili del potere datoriale, pag. 167 ss.) con cui si mette in discussione la tradizionale ricostruzione delle forme di manifestazione dell’autorità, poiché, si dice, “il mutamento della fenomenologia del potere del datore di lavoro consegue (…) alla trasformazione profonda del contesto, in linea di principio di ordine fattuale, ma in ultimo rilevante sul piano economico e alla fine giuridico, poiché modifica tutto ciò che circonda il rapporto di lavoro, conformandone i confini”. In realtà, il saggio non illustra un “mutamento” dei poteri e tanto meno della loro configurazione teorica, ma si limita a un riepilogo di taluni fattori capaci di influenzare l’esercizio e gli scopi specifici delle iniziative dell’impresa, non la struttura del contratto. Tuttavia, tali questioni devono essere considerate in una riflessione sul presente quadro organizzativo, poiché riguardano frequenti conflitti, seppure provocati dall’esercizio dei consueti poteri, immodificati nella loro impostazione.
Il punto è colto dalla successiva analisi (v. De Luca Tamajo, Valori e tecniche in tema di disciplina dei poteri datoriali, pag. 177 ss.), con un richiamo ai limiti cui deve soggiacere l’interpretazione, poiché (v. pag. 178) “non può essere trascurato che la banda di oscillazione delle operazioni giurisprudenziali e più in generale della attività ermeneutica è certo più ristretta rispetto a quella del legislatore. L’approccio valoriale è consentito, ma pur sempre nei limiti delle graduazioni desumibili dall’ordinamento e non dalla soggettiva ideologia dell’interprete”. Il monito è importante, senza che si cada in un giuspositivismo superato nei fatti e in contraddizione con lo spirito complessivo dell’opera. Peraltro, se bene si comprende, si intende mettere in luce come le questioni sociali poste dall’evoluzione economica e dalle ultime tensioni organizzative debbano essere qualificate alla stregua delle indicazioni sistematiche dell’ordinamento, non sulla base di individuali visioni, che sconfinerebbero nell’approccio politico.
Soprattutto, il saggio suggerisce la considerazione di qualsiasi interesse meritevole di tutela, nello spettro di quelli ripresi nell’impianto regolativo; non a caso, si aggiunge, “i beni inerenti alla persona del lavoratore presentano un nucleo incomprimibile, provvisto di incondizionata tutela e non soggetto a bilanciamento, ma poi hanno dei contorni più flessibili che devono fare i conti, nella storicità della vicenda evolutiva del diritto del lavoro, con le contrapposte istanze imprenditoriali” (v. pag. 179). Non potrebbe essere in modo diverso; senza questa visione completa della nostra società economica, il catalogo dei valori sarebbe sterile, mentre acquista risalto se è collocato nell’esperienza giuridica, quindi nel confronto fra le ragioni aziendali e quelle dei prestatori di opere, in una infinita ricerca di un inafferrabile equilibrio, che il diritto può vedere quale meta ideale, non come plausibile esito stabile delle sue indicazioni prescrittive (anche se il legislatore fosse più avveduto di quello attuale, ipotesi … non irrealizzabile).
In qualche modo si collega a queste riflessioni il rigoroso contributo di chi vede (a ragione) i poteri come criterio identificativo della subordinazione (v. Voza, Poteri dell’imprenditore e tutele del lavoratore a cinquanta anni dalla legge n. 300 / 1970, pag. 184 ss.), con la perspicua osservazione per cui “il concetto di autonomia evoca la libertà, il concetto di subordinazione evoca la sottoposizione al potere. L’impianto delle tutele è, invece, un dato irrilevante ai fini della qualificazione della fattispecie: ciascuna di esse è un effetto del contratto di lavoro subordinato”. In fondo, per uno studioso del diritto, qualsiasi (apprezzabile) ragionamento sui valori li deve collocare in una riflessione sistematica, comunque attenta alle tecniche, se così si intende la ricomposizione teorica degli istituti. Non a caso, si osserva, “compiuta la giuridificazione del potere di comando sul lavoro altrui attraverso l’invenzione del contratto di lavoro, il diritto del lavoro è stato chiamato a somministrare dosi di libertà, nella misura storicamente data e storicamente reversibile. Ma è una missione, direi una tensione, a cui esso non può rinunciare”. L’affermazione è importante, non solo perché colloca la riflessione complessiva sul significato della regolazione nella sua necessaria dimensione storica, ma in quanto sottolinea come la sintesi fra aspettative opposte sia da cogliere a opera della dottrina come un esito precario di un equilibrio instabile, nel passato e nel futuro.
5. La disciplina dei licenziamenti come terreno dello scontro fra opposte aspettative nell’ultimo decennio.
Si potrebbe a lungo discutere sulla scelta (episodica e approssimativa) del legislatore di fare, nell’ultimo decennio, della disciplina dei licenziamenti il terreno di scontro fra opposte ragioni; come si ricorda (v. Maio, Valori e tecniche nell’assetto dei licenziamenti emergente dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, pag. 201 ss.), con qualche esagerazione nel rivendicare l’importanza di discutibili e frammentarie decisioni della giurisprudenza costituzionale, “possiamo tutti convenire che una Repubblica non si fonda su un contratto, su una fattispecie, su una controprestazione, ma, piuttosto su quello che i costituzionalisti chiamano il ‘valore fondante’ del lavoro”. Però, per acquisire rilevanza giuridica ed essere oggetto di una riflessione strutturata, esso deve essere visto nel contesto sistematico e, cioè, nella ricostruzione del contratto. Le due affermazioni non sono incompatibili, ma complementari, poiché segnano il passaggio fra le declaratorie dei principi (un po’ enfatiche e non molto riuscite, come nel caso dell’art. 1 cost.) e la loro traduzione nell’impianto teorico. Se mai, a fronte di questo dialogo inevitabile, si può discutere sul senso dell’opportunità degli Organi parlamentari e di governo degli ultimi dieci anni, i quali hanno trasformato la disciplina dei licenziamenti e, soprattutto, delle corrispondenti sanzioni in un terreno di scontro di visioni del pari approssimative, fuori da una meditata impostazione. La legge n. 92 del 2012 e il decreto legislativo n. 23 del 2015 appartengono alle fonti meno riuscite, ma anche i loro detrattori cadono spesso in una enfatica contrapposizione di pretese istanze desunte a priori.
Coglie il punto con notevole sensibilità chi sostiene che “la complessità del sistema rimediale nei licenziamenti non può essere colta e spiegata esclusivamente da un’unica prospettiva valoriale egemone. Richiede un discorso assiologico più complesso, maggiormente inclusivo. Il mercato del lavoro, purtroppo, non è, né è mai stato, neppure lontanamente somigliante a un ‘regno dei fini’” (v. Maio, Valori e tecniche nell’assetto dei licenziamenti emergente dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, pag. 211). A volere essere sinceri, se non mi inganno, Kant (invocato dall’Autore) risponderebbe che l’oggetto della riflessione pratica è di per sé un “regno dei fini”, qualunque sia l’approccio del legislatore e nonostante i suoi errori. Però, il contributo merita pieno apprezzamento, perché sottolinea non solo la complessità del tema, ma la sua inidoneità a essere il terreno di scontro di improvvisate concezioni (diffuse su entrambi i fronti), con malcelati e poco avveduti obbiettivi elettorali o di ricerca di un effimero consenso.
In questa logica, un minimo di prudentia avrebbe suggerito che la difficoltà di fondare una regolazione equilibrata … non è superata dalla sua duplicazione e, cioè, dalla costruzione di due normative, in ragione della (irrilevante) data di stipulazione del contratto. In chiara divergenza dall’impostazione recente, si osserva con saggezza che esiste immanente “il problema del bilanciamento e della mediazione tra i valori: un’operazione complessa considerato che essi rilevano al di fuori del classico procedimento sussuntivo tra fattispecie concreta e fattispecie astratta” (v. Zoli, Il puzzle dei licenziamenti e il bilanciamento dei valori tra tecniche di controllo e strumenti di tutela, pag. 213 ss.).
Però, poiché la disposizione nasce e vive in funzione della sua applicazione, se l’ultimo decennio ha mostrato la completa assenza in Italia di una sensata ricomposizione di istanze opposte in tema di licenziamenti e sanzioni, ha fatto emergere con pari chiarezza l’inadeguatezza culturale dei legislatori di tutti gli schieramenti. Soprattutto, si possono trovare attenuanti per il fallimento nella fondazione di una solida disciplina su dei temi delicati e, per loro natura, al centro di contrasti economici forti, ma non per la superficialità con cui è stata intrapresa una simile avventura. Purtroppo, si può sempre peggiorare e l’invito fermo (e inevitabile; v. Zoli, Il puzzle dei licenziamenti e il bilanciamento dei valori tra tecniche di controllo e strumenti di tutela, pag. 257 ss.) della giurisprudenza costituzionale (v. Corte costituzionale 22 luglio 2022, n. 183) a una nuova regolazione riguardante le piccole imprese suona come l’annuncio di disastri ulteriori e incombenti.
6. I cosiddetti contratti “flessibili” e le ragioni teoriche della deviazione dalla disciplina generale.
Se si ragiona della sintesi fra le esigenze dei prestatori di opere e le aspettative delle imprese, il tema dei rapporti cosiddetti “flessibili” si presenta sempre promettente, e lo dimostra il primo, rigoroso saggio, con una riflessione complessiva che muove dall’esperienza del contratto a tempo determinato, sempre travagliata nel nostro Paese (v. Aimo, Alla ricerca di una ‘ragionevole flessibilità del lavoro non standard nell’intreccio di valori e tecniche, pag. 267 ss.). Di particolare attualità è la direttiva comunitaria del 20 giugno 2019, n. 1152, applicata poche settimane fa con il decreto legislativo n. 104 del 2022. Di fronte a queste articolate trasformazioni, la sospensione del giudizio appare almeno prudente, in attesa di una minima esperienza applicativa, proprio quando (agosto 2022) si discute di un auspicato differimento dell’entrata in vigore del testo normativo. Tuttavia, l’apprezzamento positivo e risoluto del contributo (v. pag. 278) lascia un po’ sorpresi, perché varie previsioni potrebbero comportare un aggravio di adempimenti amministrativi senza molto costrutto; al contrario, si afferma che per “i contenuti della direttiva le novità sono potenzialmente rilevanti: sono presenti sia disposizioni che rispondono a esigenze proprie di tutti i lavoratori, standard e non, sebbene inevitabilmente sentite in maniera diversa dall’una e dall’altra categoria, sia disposizioni che rispondono invece a bisogni propri dei soli lavoratori non standard”. Ci si può domandare se tali esigenze siano reali, per lo meno per percentuali significative di dipendenti, o soltanto immaginate dall’Unione europea e se, in particolare, il contratto individuale debba precisare in modo minuzioso i diritti dei prestatori di opere. Lo leggeranno con attenzione e ne comprenderanno i contenuti?
In modo opportuno, l’attenzione è spostata sul sistema previdenziale (v. D’Onghia, Tensioni tra tecniche e valori nella disciplina delle tutele sociali dei lavoratori flessibili, pag. 285 ss.), sulla base dell’esatta affermazione per cui, “se il mercato del lavoro ha raggiunto un sufficiente grado di flessibilità ed elasticità, ciò non è altrettanto vero per quel che concerne il regime di protezione sociale dei lavoratori non standard” (o, meglio, con rapporti così definiti). Se mai, la discussione deve vertere non tanto sul ragionevole obbiettivo di una protezione universalistica, ma sulle corrispondenti strategie, al fine della distribuzione di risorse sempre ridotte a paragone degli obbiettivi. Dal mio soggettivo punto di vista, è meritoria la tesi critica sul cosiddetto principio di condizionalità, frutto di reiterate illusioni del legislatore, insieme alla fiducia eterna nel successo (mai realizzatosi) delle politiche attive, che, al più, aiutano gli addetti assunti per tali interventi. In modo opportuno si osserva che “questa deriva – una sorta di modello do ut des – non può essere trascurata se si intende ragionare in termini propositivi tra tecniche e valori dove le prime sono funzionali al riconoscimento dei secondi, sempre che si voglia guardare per davvero alla vita delle persone che abbia una direzione di senso” (v. pag. 301). Più in generale, qualsiasi riflessione prospettica deve muovere da una realistica valutazione delle potenzialità dell’apparato amministrativo italiano, salvo cadere nella declaratoria di intenzioni irrealizzabili.
Conclude il volume un saggio di notevole portata critica (v. L. Zoppoli, Valori, diritti e lavori flessibili: storicità, bilanciamento, declinabilità, negoziabilità, pag. 305 ss.), con la perspicua affermazione per cui “il dato storico (…) di maggiore rilievo non attiene (…) alla compiuta e specifica configurazione legislativa di ciascun ‘lavoro flessibile’ (forse ancora nemmeno raggiunta), ma al periodo in cui l’intera tipologia – come un insieme matematicamente caratterizzato – ha progressivamente conquistato la scena nel diritto del lavoro” (v. pag. 306). Ci si può chiedere se ciò sia avvenuto per sovvenire a vere o immaginarie esigenze delle imprese, per esempio indotte a una sopravvalutazione della portata organizzativa del conflitto individuale, anche nelle aziende più articolate. Non a caso, si soggiunge (v. pag. 306) che il descritto fenomeno si è verificato “nell’ultimo ventennio, togliendo lo scettro del contratto principe al contratto full time a tempo indeterminato con identità di datore di lavoro e utilizzatore della prestazione lavorativa”. Questi sono stati i valori difesi dalle imprese, a torto o a ragione; la relativa percezione è stata esatta o fuorviata da una miope valutazione? In fondo, per una riflessione storica, simili giudizi sono poco significativi.
Quasi a coronamento dell’intero libro, si legge poche pagine dopo (v. pag. 308): “i valori (…) nelle nostre analisi contano in quanto giuridificati” e, quindi, qualunque ne sia il fondamento, se appartengono a quelle componenti della società in grado di farli apprezzare agli Organi parlamentari e di governo. Ma subito si precisa: “la soluzione diviene meno semplice se ci si chiede chi ‘giuridifica’ i valori (e quando e come). Di certo dalla metà del novecento in poi tale giuridificazione non può essere più opera esclusiva del legislatore ordinario. Non c’è infatti piena disponibilità dei valori da parte del legislatore. Le scelte del legislatore devono risultare compatibili con quelle ricavabili dal quadro costituzionale, pur dinamicamente considerato”.
In fondo, in questa dialettica sta il senso dell’intera ricerca che, prima di tutto, è una riflessione sulla compatibilità costituzionale dell’ultima fase del nostro ordinamento (v. Speziale, Il “diritto dei valori”. La tirannia dei valori economici e il lavoro nella Costituzione e nelle fonti europee, pag. 139 ss.). A considerare sia la prospettiva dei lavoratori, sia quella delle imprese (v. Maio, Valori e tecniche nell’assetto dei licenziamenti emergente dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, pag. 201 ss.), le tensioni di questi decenni si spiegano in nome di visioni unilaterali non sempre convincenti su un fronte e sull’altro. Anzi, proprio l’esistenza dei due “fronti” dimostra miopia, più che prudentia edificatrice dei gruppi organizzati, nel dialogo con il sistema parlamentare. Dal libro esce una immagine poco promettente del diritto del lavoro italiano e, a rischio di essere criticato per la formulazione di un giudizio dal sapore moralistico, aggiungerei l’espressione … poco edificante. Proprio per questo i contributi sono frutto di una esatta percezione della nostra storia recente e, già per questo solo, notevole pregio, la ricerca merita apprezzamento. Se, poi, il concetto di valore porta con sé quello di dovere essere e se questa dimensione potrà ispirare maggiore solidità all’ordinamento del futuro, le analisi potranno essere meno sconsolate delle attuali.