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In questo agile e denso lavoro Butera e De Michelis analizzano da angolazioni diverse, ma convergenti, alcune direttrici evolutive, indotte dalla digitalizzazione ed in particolare dall’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro e della società. Un aspetto molto interessate della loro disamina è la prefigurazione di linee di progettazione sociotecnica, definiti da Butera “sistemi socio-tecnici 5.0” (cfr infra), che evitino direzioni distopiche ben determinate e crei uno spazio teorico-pratico per il lavoro che vada oltre la riduzione dell’impiego di “manodopera e soprattutto di mentodopera” (pp. 42-43). La pervasività di agenti artificiali è infatti inarrestabile, sia nel caso dei modelli di reti neurali sviluppati fino a metà degli anni ’10 di questo secolo, sia nell’odierna ondata travolgente di Intelligenza Generativa (d’ora in poi IG), che gode di una crescente popolarità. Si pensi che solo nel 2023 sono stati resi pubblici 149 nuovi modelli di IG, più del doppio di quelli pubblicati nel 2022. Si tratta di modelli linguistici, ovvero di architetture neurali in grado da un lato di catturare le regolarità del linguaggio umano -sia esso parlato, scritto, artistico, tecnico-scientifico, ecc.- e dall’altro di generare “autonomamente” forme espressive analoghe, in quanto basate sulle regolarità estratte dalle varie produzioni intellettuali umane. In breve, i modelli linguistici sono capaci di riproporre lo “stile” proprio degli autori umani, siano essi persone comuni oppure personalità nei vari domini di conoscenza, che caratterizzano la cultura sviluppata dall’umanità nel corso dei secoli e nel flusso continuo del presente. Un presupposto fondamentale per il loro potenziale generativo è il processo di apprendimento, basato su enormi dataset, relativi a molteplici campi disciplinari e alle raccolte di esempi dalla vita ordinaria, rappresentata nei social. Non deve sorprendere che, grazie ad un aumento esponenziale della potenza occupazionale, i modelli generativi possano produrre risposte suggestive alle domande degli utenti, in quanto derivanti dall’applicazione di sistemi di software essenzialmente statistici, ossia alla ricerca di associazioni tra parole, frammenti di frasi, immagini ecc., combinate in base alle regolarità estratte dai dataset di addestramento.
Dato questo potenziale tecnico-scientifico a disposizione dell’umanità, Butera e De Michelis affrontano alcuni temi ed interrogativi di fondo, con riferimenti ad una serie di studi autorevoli e interessanti. Uno dei primi quesiti è: “quello che l’AI può e non può fare”. Uno studio OCSE (Lane e Williams, 2023, Defining and classifying AI in the workplace) contiene l’elenco di una serie di campi di applicazione, con l’indicazione di attività che sia l’AI “simbolica” tradizionale che le reti neurali fino all’IG possono svolgere con output quali modelli predittivi, supporto ai processi decisionali nel consumo e nella produzione, inferenze in campo medico, e così via, sulla base del vasto insieme di dati e informazioni organizzate durante il processo di apprendimento, continuamente incrementato con l’arrivo d nuova informazione e i feedback degli utenti.
Al tempo stesso, però, vi sono cose che l’IA non può fare, come argomenta Butera (pp. 29-31): 1) comprendere completamente il contesto. 2) Esperienze sensoriali dirette. 3) Creatività intuitiva. 4) Etica e giudizio morale. 5) Relazioni interpersonali complesse. 6) Trasferimento di conoscenze e competenze tra ambiti totalmente diversi. 7) Elaborazione creativa di contributi dell’IA e controllo dell’affidabilità dei dati.
Le prestazioni suggestive degli agenti artificiali generativi, come quelle dei precedenti modelli, non possono avere “una comprensione profonda dei processi umani”. È quindi arduo pensare che possano sostituire completamente il lavoro umano in una serie di attività, che richiedono interazioni multisensoriali, relazioni complesse, etica e, aggiungiamo noi, una fondamentale capacità di andare contro l’evidenza acclarata da secoli di pensiero umano e prove tecnico-scientifiche. Ci riferiamo a quanto è accaduto ad esempio, con l’elaborazione della teoria della relatività di Einstein, dopo secoli di accettazione indiscussa della teoria newtoniana, che è ancora oggi valida a scala ordinaria e a velocità lontane da quella della luce. Analogamente è accaduto per la meccanica quantistica e i comportamenti contro-intuitivi di particelle e sub-particelle a scala infinitamente più piccola di quella in cui si svolge la nostra vita.
L’intensità e la portata delle trasformazioni prodotte dall’intelligenza artificiale sono stimate in modo molto differente da ricercatori, studiosi, centri di ricerca, società di consulenza internazionali, che Butera raggruppa in tre categorie (tecno-ottimisti, apocalittici, cautelosi), di cui traccia un’efficace sintesi delle varie posizioni. Butera colloca sé stesso e De Michelis in un ulteriore gruppo, quello dei “progettuali”, comprendente coloro che ritengono sia doveroso intervenire con strumenti appropriati per evitare lo scenario distopico di un mondo dominato dall’intelligenza artificiale e da pochi big player, che detengono le leve del potere di controllare i flussi informativi globali. Secondo i “progettuali”, infatti, è possibile lavorare per la costruzione di un’”area di democrazia sostanziale” agendo simultaneamente “su scala planetaria e locale”. Prima di esaminare gli elementi propositivi di questa visione prospettica, è opportuno prendere in considerazione almeno due aspetti trattati nell’agile, denso e suggestivo lavoro di Butera e De Michelis.
“C’è una rivoluzione in corso e il lavoro ne è pienamente investito” (autore De Michelis, articolo apparso sulla rivista “Studi Organizzativi”. Siamo quindi in presenza di quello che in molti saggi internazionali è definito “inflection point” nelle attività socio-economiche di tutto il pianeta, grazie ad un potenziale tecnico-scientifico senza uguali nella storia umana. Molti studi ipotizzano la crescita della produttività del lavoro e dell’occupazione a livello mondiale, in conseguenza dell’estesa applicazione della IG, che innescherà profonde trasformazioni di contenuti professionali e sostituzione di lavori, come sostengono un rapporto OECD e Arvind Krishna CEO di IBM, analogamente a quanto sta accadendo in grandi imprese multinazionali.
L’aspetto più rilevante, aggiungiamo noi, è però costituito da quella che, come argomentano Acemoglu e Johnson nel libro “Power and Progress” (2023), è la tendenza prevalente nelle imprese Usa, ma molto diffusa in tutto il mondo, a sostituire gli umani nello svolgimento di determinati compiti, con l’effetto congiunto di ridurre la partecipazione del lavoro alla distribuzione del valore aggiunto prodotto. In breve, riduzione dei salari e asimmetrie di potere tali da determinare una situazione “in which those without power have no way to improve their outcome”, che Erik Brynjolfsson chiama “Trappola di Turing” (The Turing Trap: The Promise & Peril of Human-Like Artificial Intelligence, Daedalus (2022). https://doi.org/10.1162/daed_a_01915.
I cambiamenti per il mondo del lavoro sono evidentemente connessi al nuovo modello di impresa che si sta affermando, cioè la decision factory, che Butera riprende da Iansiti e Lakhani (Competing in the Age of Artificial Intelligence, HBR, 2020) e al cui centro sono le piattaforme digitali, perno flessibile grazie al quale possono essere attivate competenze multiformi e distribuite tra una molteplicità di attori. Il dato cruciale è che si tratta di un mondo con un elevato rischio di “dispotismo”, esercitato dai pochi global player proprietari delle piattaforme, su cui si costruiscono ed evolvono reti variabili tra un’enorme molteplicità di attori. È a questo punto che Butera solleva un quesito fondamentale (p. 50): “È pensabile un diverso modo di progettare le piattaforme?” (p. 51), che consenta all’umanità di affrontare i dilemmi prima indicati: lo scenario distopico evocato da Butera, e uscire dalla “trappola di Turing” di Brynjolfsson?
A questo proposito che l’analisi di Butera si salda con quella di De Michelis, che contiene un’affermazione da assumere come punto di partenza essenziale, riprendendo delle enunciazioni del filosofo Michel Serres: la digitalizzazione e l’automazione sono a fondamento di una “terza rivoluzione antropologica” (dopo la scrittura e la stampa, pp. 89-95) che cambia radicalmente la “nostra percezione dello spazio, del tempo e della conoscenza” (p. 79), alterando le tradizionali modalità di svolgimento dei processi decisionali nelle organizzazioni e i modelli taylor-fordisti di organizzazione del lavoro. L’informazione ubiquitaria, infatti, rende sempre meno strutturanti le interazioni umane in ambito circoscritto e al tempo stesso l’info-sfera dei flussi globali di informazione avvolge e permea tuti i processi fisici e socio-economici. Il digitale, quindi, “costituisce una rivoluzione che sta cambiando per sempre la vita degli umani” (p. 87).
L’effetto è quello di una sorta di progressivo svuotamento delle attività dell’uomo sia di natura ripetitiva che basate su contenuti cognitivi medio-alti, il cui esito tende a configurarsi in termini di marginalizzazione delle prestazioni lavorative umane, che divengono “sempre più residue e prive di contenuto” (p. 78). Uno degli aspetti più rilevanti è il cambiamento di quattro dimensioni principali del “senso del lavoro” (pp. 106-108): 1) spazio-temporale. 2) Economica, 3) Il contenuto del lavoro. 4) Le capacità necessarie per svolgere il lavoro nello scenario odierno.
In queste brevi note viene enfatizzata la prima, perché la riteniamo elemento fondante della rivoluzione antropologica indicata da De Michelis e si rinvia al testo di riferimento per gli spunti in merito alle altre. La separazione taylor-fordista tra tempo e luogo di lavoro, da un lato, e tempo e luogo di vita, dall’altro, era “costruttrice di senso”, che viene meno con quanto è accaduto con il lockdown pandemico e la successiva accelerazione del processo di digitalizzazione. Alla luce dell’analisi qui svolta e della molto più ricca disamina di Butera e De Michelis, non è possibile prevedere con precisione quale sarà il futuro del lavoro e delle modalità con cui gli umani riusciranno a organizzare le loro attività, quindi la base del loro senso della vita e delle interazioni socio-culturali. È però certo che la ‘rottura’ del binomio tra tempo di vita e tempo di lavoro indurrà a ripensare l’organizzazione dell’evolversi del pensiero e del modo di concepire l’esistenza, come si evince da alcuni fenomeni già evidenziati dalla letteratura internazionale (i cosiddetti great reshuffle, great upgrade, work-life balance). Butera e De Michelis forniscono, però, alcuni elementi di grande suggestione a questo riguardo, mossi dalla prospettiva di superare gli scenari distopici accennati in precedenza.
Il riferimento è alla visione che accomuna i due autori, ossia quella di andare oltre il digitale odierno ripensando il lavoro e i processi formativi, basandosi su principi innovativi quali: 1) progettare organizzazioni capaci di accogliere e sviluppare la professionalizzazione di tutti” (p. 110, uno dei punti prospettici enunciati da Butera e ripresi da De Michelis). 2) Gli esseri umani saranno ancora essenziali, ma è essenziale “potenziare le competenze a tutti i livelli”, impegnandosi su “tre direttrici: formare competenze digitali, sviluppare e formare lungo tutto l’arco della vita competenze e abilità non contendibili dalle tecnologie, progettare nuovi lavori” (pp. 52-54). 3) Sviluppo di lavori ibridi, dove “il lavoro ibrido combina e integra le competenze relative ai processi tecnici specifici di ‘un’occupazione con le competenze informatiche e digitali…” (pp- 55-60). La formulazione di Butera è più ampia e articolata, a cui si rinvia, aggiungendo solo che si tratta di una visione non dissimile da quella che in alcuni studi internazionali, che pongono al centro delle prospettive per il lavoro la formazione di figure definite “expert generalist”, cioè persone con specifiche competenze teorico-pratiche, ma al tempo stesso con dotazioni conoscitive più ampie, in modo da poter interagire con soggetti in possesso di differenti domini cognitivi. Una delle caratteristiche fondamentali delle imprese e organizzazioni odierne è infatti la necessità di avere team di competenze multiple e interdisciplinari, che richiedono appunto versatilità cognitiva e processi di apprendimento interattivi.
A compimento di queste linee strategiche è doveroso sottolineare la visione generale che ispira le riflessioni di Butera, incentrate sul concetto di sistema socio-tecnico 5.0, definito come “un sistema produttivo di beni e servizi in cui processi, tecnologie, struttura organizzativa, sistema professionale, regole delle risorse umane e sistema sociale (comunità umana) non solo si integrano fra loro, ma si innovano profondamente ed evolvono di continuo. Al sistema sociotecnico vengono assegnati obiettivi economici, tecnici e sociali ad alto livello di sostenibilità economica, ambientale e sociale che dovrebbero essere concordati e sviluppati con processi partecipazionali tra dirigenti, sistemi educativi, sindacati, lavoratori utenti. La persona reale è al centro del sistema socio-tecnico” (p. 63).
Lo scenario indicato appare coerente con quello ipotizzato da autori come Acemoglu e Johson (nel citato power and Progress), i quali pongono al centro delle prospettive non distopiche il perseguimento della complementarità tra macchine e umani, che in questa fase storica devono misurarsi con sfide globali. Date le asimmetrie di potere e di ricchezza esistenti a livello globale e locale, non sarà facile, ma la posta in gioco è troppo alta per non impegnarsi in tal senso, cercando di promuovere intelligenza individuale e collettiva secondo le linee strategiche proposte da Butera e De Michelis

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