testo integrale con note e bibliografia

Devo molto a Maurizio Cinelli.
Devo la mia iniziazione e poi specializzazione nel diritto dell’ assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
Correva l’anno 1995 quando mi propose di scrivere una monografia su questo argomento nella collana da lui diretta di dottrina e giurisprudenza sistematica di diritto della previdenza sociale, per i tipi della Utet. Evidentemente aveva più stima in me di quanta ne avessi io.
A quel tempo svolgevo le funzioni di giudice d’appello al tribunale di lavoro di Firenze.
Non erano più gli anni ruggenti del processo del lavoro, quando le prove si assumevano in fabbrica, per la pausa pranzo si andava tutti insieme alla mensa aziendale in unica tavolata. E le conciliazioni fioccavano.
Il più felice era il pretore, che aveva fatto riabbracciare, tra le lacrime, il fratello la sorella che non si parlavano da tempo, ma anche gli altri non scherzavano: si andava dai volti semplicemente soddisfatti, agli sguardi radiosi come le contadine di Aleksandr Deyneka, con il fazzoletto annodato sul capo, all’arrivo del trattore fiammante di nuovo.
Non erano più quei tempi, ma la spinta propulsiva era ancora forte. A Firenze come a Napoli o a Milano in un anno si riusciva a fare primo e secondo grado. Erano i tempi quando Andrea Proto Pisani amava ripetere nei convegni: nella mia città dove nulla funziona, il processo del lavoro funziona.
Voglio credere che fu una mobilitazione più professionale che ideologica; vi era la soddisfazione di poter dire: opus consumavi quod dedisti mihi ut faciam. Non come la confessione sconsolata di quel collega del penale che mi diceva: tra amnistie e prescrizioni
non ho mai visto una mia decisione divenire res iudicata.
Ero dunque molto coinvolto, e l’idea di scrivere un libro che poi sarebbe risultato di 800 pagine mi spaventava. Un trattato più che un manuale. Perciò Maurizio mi affiancò un allora validissimo e già brillante giovane, Stefano Giubboni, proveniente dall’Università Europea di Fiesole, che curò tutta la parte relativa alla responsabilità del datore di lavoro e del terzo, e con il quale avrei poi scritto a quattro mani il primo volume della serie sullo stesso argomento per la Giuffré.
Scopersi o approfondii così i classici della materia: Carnelutti, Miraldi, Alibrandi, Acconcia, il compianto Silvano Piccininno.
Ma ci misi del mio.
In quel torno di tempo erano stati uccisi per odio politico sette marinai italiani, mentre dormivano a bordo di una nave mercantile attraccata ad una banchina di un porto algerino.
L’Inail non accolse in sede amministrativa la domanda di rendita dei superstiti, perché la nozione di rischio ambientale non era ancora matura; ma non impugnò neppure la sentenza di accoglimento di primo grado, che divenne così res iudicata. Qualcosa dunque travagliava anche il pensiero dell’avvocatura Inail. Io mi chiesi: ma allora l’occasione di lavoro comprende tutte le situazioni in cui il lavoratore possa trovarsi in adempimento degli obblighi nascenti dal rapporto, nel quale agisca la causa violenta. E che differenza c’è tra una nave in mare, dove tutto ciò che avviene è in rischio ambientale, e uno stabilimento ben piantato nella terra
ferma, nel cui perimetro il lavoratore è costretto a muoversi.
Questa fu la mia prima proposta di interpretazione sistematica, che divenne poi ius receptum, fino alla concezione attuale, per la quale tutto ciò che avviene in relazione al rapporto il lavoro è in occasione di lavoro, eccettuato solo il rischio elettivo.
La seconda riguarda l’ infortunio in itinere.
Era il ventennio a cavallo degli anni ’60 del secolo scorso, in cui lo stesso vento comune europeo, che aveva introdotto la tutela degli infortuni sul lavoro sul finire dell’ 800 in tutti i Paesi dell’Europa continentale, sul modello bismarkiano, andava ora introducendo la tutela dell’ infortunio in itinere per tutti i lavoratori, in alcuni Paesi in via legislativa, ad esempio in Francia, in altri, come il nostro, per via giurisprudenziale.
In verità l’art. 31 Legge 19 gennaio 1963, n. 15 aveva concesso delega al Governo ad emanare norme per la disciplina dell’infortunio in itinere, e tale delega era stata rinnovata con le Leggi 11 marzo 1965, n. 158, e 1 dicembre 1966, n. 1206.
Non avendo l’Esecutivo esercitato la delega, la giurisprudenza ha lavorato sulla nozione di rischio generico aggravato. Partendo dalla considerazione che il rischio della strada è un rischio generico gravante su tutti gli utenti, la giurisprudenza andava alla ricerca di un quid pluris, connesso alle esigenze lavorative, che rendesse il rischio generico della strada aggravato per il lavoratore, quali una strada che presenti rischi diversi da quelli delle ordinarie vie di comunicazione, come sarebbe una strada di montagna (Cass. 20 marzo 1985, n. 2050), o che conduca esclusivamente al posto di lavoro, o infestata da banditi, etc.
Il caso che mi si presentò era quello di un dipendente di un’impresa di trasporti pubblici urbani che in ore antelucane partiva dalla propria abitazione, sita nella periferia, attraversava il centro cittadino con mezzo necessariamente proprio, ed arrivava alla periferia opposta, dove era il deposito degli autobus, in un paesaggio alla Mario Sironi, per iniziare la prima corsa mattutina del servizio di trasporto pubblico. Nel corso del tragitto ebbe un grave incidente d’auto. Dov’era il quid
pluris, se non nella destinazione lavorativa in sé stessa?
Arrivato in Corte, ebbi la soddisfazione di sentirmi dire: ci hai convinto, e così a partire da Cass. 19 gennaio 1998 n. 455 (in Foro it., 1998, I, 781) la Corte ha accolto tale prospettiva ed ha statuito che tale rapporto finalistico dell’iter con il lavoro è sufficiente ad integrare il quid pluris richiesto perché l’infortunio in itinere possa considerarsi avvenuto in occasione di lavoro. Poi è venuta la bicicletta, il mezzo proprio da considerarsi di per sé necessitato durante la pandemia da covid, e così via.
Nel 2005 abbiamo scritto a quattro mani con Stefano Giubboni il primo volume della fortunata serie per Giuffrè, nell’ambito della collana diretta da Onofrio Fanelli, e con il contributo prezioso di Fabrizio Domenico Mastrangeli, altro valoroso allievo di Cinelli, per la parte particolarmente ardua del sistema di finanziamento, che è rimasta la base anche per le edizioni successive.
In quegli anni la terza sezione civile della Corte stava approfondendo e rielaborando tutta la tematica del danno alla persona e della sua prova.
In questa fase vigeva una interpretazione dell’art. 2059 c.c. (“Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”), che identificava l’espressione “nei casi determinati dalla legge” nel senso di legge che espressamente
menzioni la risarcibilità del danno non patrimoniale, ipotesi che a quel tempo ricorreva solo nell’art. 185, comma 2, codice penale.
L’art. 2059 è stato sottoposto a rivisitazione in due direzioni:
quale norma di rinvio per la identificazione delle ipotesi in cui ricorre la risarcibilità del danno non patrimoniale, e in quanto consente la prova presuntiva del danno non patrimoniale (sentenze 12 maggio 2003, nn. 7281 e 7283, in Foro it., 2003, I, 2274).
Esaminando per primo il secondo profilo, la Corte, innovando rispetto all’orientamento precedente, ha affermato il principio che la responsabilità per danno non patrimoniale, di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., può essere affermato non solo quando sussiste il positivo accertamento della colpa dell’autore del danno, ma anche quando essa deve ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge, e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato.
E questa nuova frontiera del danno alla persona è stata consolidata dall’avallo della Corte costituzionale con la sentenza
interpretativa di rigetto, n. 233 del 2003 (in Resp. civ. e prev.,
2003, 1036).
Giubboni ha colto per primo la portata piena ed innovativa di tali sentenze, le quali prescindono dal carattere della responsabilità contrattuale o extracontrattuale, e sono focalizzate sulla funzione della prova presuntiva, e le ha applicate alla responsabilità presunta ex art. 2087 nel rapporto di lavoro (GIUBBONI, in DE MATTEIS-GIUBBONI Infortuni cit. 2005,970).
In Corte la collegialità è effettiva, e vi è grande attenzione, rispetto ed ascolto per la dottrina, che spesso partecipa alle discussioni orali con le sue presenze migliori. La Corte ha accolto la prospettiva suggerita da Stefano, ed ha affermato il principio che nella responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. la fattispecie astratta di reato è configurabile anche nei casi in
cui la colpa sia addebitata al datore di lavoro per non aver fornito la prova liberatoria richiesta dall’articolo 1218 c.c. (Cass. 24 febbraio 2006, n. 4184, del compianto Pasquale Picone; Cass. 3 febbraio 2017 n. 1918), orientamento che si può ora ritenere consolidato con la recente 19 giugno 2020 n. 12041, per la penna di Fabrizio Amendola.
Col passare degli anni, il dialogo e l’arricchimento è continuato tra convegni, nuove edizioni, nuovi casi, anche giurisprudenziali, ulteriori approfondimenti, camminate sul Conero, il pesce di Numana, la Rivista di diritto della sicurezza sociale.
Rimane una differenza tra il mondo dei magistrati e quello dei professori universitari.
I magistrati non hanno figli. Sono come i personaggi di Piero della Francesca, ciascuno avvolto nel proprio spazio, con gli sguardi che non si incrociano. Sì è vero, le loro decisioni impattano le persone, è vero che al centro della loro ricerca vi è, per stare alla nostra materia, la centralità del lavoratore, come direbbe Guglielmo Corsalini, ma rimangono sempre dei casi lontani, conosciuti al confessionale dell’udienza. È vero anche che i balzi giurisprudenziali in avanti nella lunga marcia espansiva della tutela infortunistica sono stati occasionati da infortuni particolarmente penosi, che scuotono le coscienze. Ma, come mi ammonì Francesco Almirante al mio arrivo in Corte, tu devi sentire l’orgoglio della istituzione, nel cui nome parli, non della propria persona.
I professori invece parlano a nome proprio, ed hanno figli e nipoti. La loro voce ed il loro ruolo impatta su ragazze e ragazzi che salgono il limitar di gioventù, con il miracolo della vita davanti, plasma le loro intelligenze e la loro personalità, e loro riconoscono in lui il padre e il maestro che li apprezza e li avvierà a prestigiose, anche se lunghe e faticose, carriere. Esiste una Scuola, di cui il professore è il fondatore, che si perpetuerà nel tempo, attraverso i suoi discepoli, ed i discepoli dei discepoli.
Vivrà in essi, e potrà dire a buon diritto: non omnis moriar. In nome proprio, o attraverso la scuola, il suo insegnamento si propaga ad onde concentriche nella società, arriva alle Alte Corti, e viene da esse istituzionalizzato ed integrato nel diritto vivente.
Di questa Scuola di diritto previdenziale Maurizio Cinelli è stato e rimane il Maestro.

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