Recensione di Simone Pietro Emiliani
Il bel libro di Forza, Menegon e Rumiati ha molto da dire agli studiosi e agli operatori del processo del lavoro.
La tesi centrale del libro è che le evidenze acquisite dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze consentono di gettare nuova luce sul processo di ragionamento attraverso il quale il giudice perviene alla sua decisione (ovvero su quel “processo psicologico” o “mentale” che va tenuto distinto, come avverte Riccardo Guastini, dal “discorso giustificatorio” attraverso il quale il giudice argomenta la decisione e la giustifica pubblicamente).
Quelle evidenze consentono, infatti, di affermare che se si indaga “come la sentenza si forma nella mente del giudice” (per usare le parole di Piero Calamandrei), cioè “l’effettiva attività mentale svolta dal giudice per giungere alla sentenza” (per usare le parole di Guido Calogero), non si può prescindere dal considerare che il giudice, al pari di ogni essere umano, deve fare i conti con alcune naturali “euristiche” e con vere e proprie “trappole cognitive” connesse con il funzionamento della parte antica del cervello oltre che con i condizionamenti che le “sensazioni affettive” determinano anche in relazione al suo particolare “profilo emozionale”.
Il libro di Forza, Menegon e Rumiati mostra, quindi, attraverso una ricca e suggestiva descrizione delle acquisizioni delle scienze cognitive e delle neuroscienze, la carica ideologica e, allo stesso tempo, la fallacia delle tradizionali rappresentazioni del ragionamento giuridico (nella sua accezione di processo psicologico o mentale) che non contemplano alcun ruolo, se non sotto forma di disturbo o patologia, delle emozioni del giudice.
Parafrasando un noto apoftegma di Eraclito (nella traduzione di Giorgio Colli e Angelo Tonelli), potrebbe dirsi che la lezione di Forza, Menegon e Rumiati si affianchi a quella dei giusrealisti americani nel mostrare come l’effettivo “nascimento” della decisione del giudice (e quindi l’effettiva realtà del processo decisionale giudiziario) “ama nascondersi”.
Ed infatti, così come i realisti americani, in polemica con il concettualismo e l’astrazione del formalismo langdelliano, già negli anni Venti e Trenta del secolo scorso avevano avvertito come gli effettivi processi decisionali giudiziali possano trovare la loro origine nascosta in ragioni ideologiche o culturali, o anche in semplici “atteggiamenti” del giudice, che si celano dietro la formale motivazione della sentenza apparentemente dettata da considerazioni strettamente giuridiche (“una decisione politica, mascherata con metafore”), Forza, Menegon e Rumiati ci avvertono oggi come l’intero processo di ragionamento del giudice possa trovare la sua origine nascosta (ovvero le “reali cause motivazionali”) nei meccanismi profondi della mente umana che, il più delle volte, sono nascosti allo stesso giudice, perché inconsapevoli.
Vi è, quindi, allo stesso tempo il completamento e il superamento della lezione del movimento giusrealista, sia perché Forza, Menegon e Rumiati fondano le loro argomentazioni sulle più moderne evidenze delle scienze cognitive e delle neuroscienze che i giusrealisti non conoscevano, sia perché i meccanismi inconsapevoli della mente ampiamente descritti nel libro sono più insidiosi delle ragioni extragiuridiche segnalate dai realisti americani, anche perché si tratta di meccanismi involontari e non coscienti e, quindi, più difficilmente controllabili.
Il libro di Forza, Menegon e Rumiati deve essere allora segnalato anche ai giuslavorisiti perché gli Autori mostrano come i meccanismi inconsapevoli della mente umana siano destinati ad entrare in gioco in particolar modo quando ricorrono due situazioni che sono familiari agli operatori del processo del lavoro.
La prima situazione si realizza allorché il processo abbia ad oggetto una “vicenda umana” che possa fungere da “stimolo che determina una cifra affettiva”, perché i giudici “non decidono in condizioni emotivamente neutre, ma in base a una valutazione degli eventi associata alla componente affettiva”, così che può accadere che l’intero processo di ragionamento possa essere in concreto influenzato dalle “sensazioni affettive”, ovvero “dall’elaborazione emotiva e dalla selezione stessa delle informazioni che la cifra affettiva determina anche inconsciamente”.
Si tratta, quindi, di un tipo di situazione che ricorre con frequenza nel processo del lavoro, perché il diritto del lavoro, come ha magistralmente affermato uno dei padri della sociologia giuridica, si distingue da tutti gli altri rami del “diritto patrimoniale” perché non è “dominato dal calcolo economico” e, anzi, come ha insegnato Luigi Mengoni, è ispirato ad un “principio etico”, qual è il “principio della personalità del lavoro”, che impone di far valere “l’immanenza della persona del lavoratore nel contenuto del rapporto”.
Per tale ragione, il processo del lavoro ha frequentemente ad oggetto le particolari vicende umane cui si riferiscono Forza, Menegon e Rumiati (basti pensare, soltanto come esempio, ai giudizi di impugnazione del licenziamento, la cui drammaticità, sul piano della vicenda umana, è tanto più acuta quanto maggiori possono apparire le difficoltà che il lavoratore sarà destinato ad affrontare al fine di reperire un nuovo lavoro con cui sostentare sé stesso e la sua famiglia).
La seconda situazione si realizza quando la possibilità che il giudice proceda ad un’analisi approfondita di tutte le informazioni a sua disposizione finisce per essere limitata, se non di fatto impedita, o dai “vincoli temporali” (dunque dallo “stress temporale”), o da un prolungato eccessivo carico di lavoro che abbia determinato nel giudice una situazione di “stanchezza mentale”, con l’affaticamento delle “aree cognitive di più alto livello coinvolte nello sforzo razionale (per esempio la corteccia prefrontale)”, tale da impedirgli di sottoporre a controllo, e quindi eventualmente “riorientare”, le conclusioni immediate cui la mente può essere giunta in virtù dei suoi meccanismi profondi (quali sono, ad esempio, le “intuizioni” generate dal sistema S1, o le reazioni emotive innescate dalla memoria) e che la stessa mente tende inconsapevolmente a confermare, anziché “falsificare”, soprattutto nelle condizioni di stanchezza.
Anche in questa situazione, infatti, anch’essa familiare agli operatori del processo del lavoro per il numero di giudizi che ciascun magistrato è costretto ogni giorno ad affrontare, aumenta il rischio che la decisione del giudice possa essere condizionata dai meccanismi profondi della mente, tanto più insidiosi, come detto, per la possibilità che lo stesso giudice non ne abbia piena consapevolezza.
Il libro di Forza, Menegon e Rumiati si segnala allora anche per l’invito a non sottovalutare il ruolo anche positivo che le emozioni del giudice possono svolgere (“un ruolo epistemico decisivo funzionale alla conoscenza”), al fine di superare le “euristiche” e, quindi, gli “errori sistematici” connessi con i meccanismi inconsci della mente.