Tra gli studiosi e gli operatori di quel ramo del diritto che prese il nome dal lavoro spicca la personalità di Gino Giugni (d’ora in poi: GG).
Oggi, manifestando gratitudine per l’insegnamento scientifico ed umano che ha ricevuto, Silvana Sciarra – sua brillante allieva e riconosciuta autorità nel campo, essendo anche pervenuta al ruolo di giudice costituzionale – pubblica una sintetica antologia di testi giugniani, sobriamente intitolati “Idee per il lavoro” e presentati come un parziale riepilogo dell’avventura intellettuale del Maestro.
Nel presentare, a mia volta, questo agile libretto laterziano di sole cento pagine, prefato tuttavia da cinquanta pagine di Introduzione che valgono come posizionamento critico dell’Autore nel suo tempo e nella dottrina con la quale interloquì e duellò per tutta la seconda metà del “secolo del lavoro”, me la potrei cavare facilmente rifacendomi alla Nota della Curatrice.
Ivi i dati essenziali ci sono tutti. Si parla della “visione” del diritto del lavoro di GG, che si traduce in opinioni ben ponderate, coraggiose per i suoi tempi e – cioè che più conta – destinate ad essere messe in pratica.
Sia quelle a sostegno della “non attuazione” dell’art. 39 Cost., perché volte alla piena valorizzazione dell’autonomia e della contrattazione collettiva (1960); sia quelle che – sotto forma di legislazione di riconoscimento del ruolo del sindacato nell’impresa e di sostegno alla sua azione di tutela delle posizioni dei lavoratori subordinati – andranno a versarsi nello Statuto dei lavoratori (1970); sia quelle che diedero struttura e robustezza alle parti sociali al tempo della c.d. “concertazione” (1993).
In molti frangenti GG è stato aiutato dallo svolgersi degli avvenimenti storici che gli scorrevano davanti, ma, in via reciproca, anzi circolare, ha aiutato la storia nel suo farsi. Non lo paragoneremo ad un Hegel che vede passare, sotto la sua finestra, la storia a cavallo ma, su un diverso e non negligibile piano, il sostegno da lui dato, sul piano scientifico e pratico, alla nuova idea di autonomia collettiva (mi riferisco ovviamente alla monografia del 1960 che gli valse la cattedra, non senza intoppi e difficoltà) aiutò il sindacato a farsi le ossa e a crescere come associazione di sempre più intensa rilevanza sociale. A sua volta, la posizione assunta dalla CISL di Pastore e Romani, fin dalla sua nascita per scissione in polemica con la CGIL, contro un certo tipo di legge sindacale che – attraverso l’obbligo di registrazione – finiva per coartare la libertà di organizzazione e di azione del sindacato professionale quale soggetto del pluralismo ed «espressione particolare del processo di trasformazione della società moderna» (così si espresse il Consiglio generale di Brunate nell’ottobre 1950), valse a fornire a GG fascine e buona legna per cuocere il suo pane dell’autonomia collettiva.
Non sono un esperto professionale di diritto del lavoro, ma mi azzardo a dire – sulla scorta peraltro di molti e autorevoli pareri – che la monografia di GG, con la sua tipica scrittura di libro per la cattedra, in sole 160 pagine proclama e fonda un nuovo paradigma. Abilmente congiunge l’indispensabile dommatica con i fatti storici concreti: la tanto temuta e da molti invisa sociologia congiunta alla realtà economica degli interessi in gioco, ai quali il diritto deve dare regole ed efficacia legale.
Della monografia concorsuale Sciarra non dà sunti né pezzi antologici (non opportuni in questa sede editoriale) ma rammenta in più luoghi della sua Introduzione quanto l’idea base di GG fosse una meditazione intelligente di quanto da lui appreso nella formazione post-universitaria che ebbe la fortuna di svolgere frequentando la scuola del Wisconsin diretta nei primi anni ’50 da Selig Perlman – a sua volta allievo di John Commons.
Quell’insegnamento, e soprattutto quella metodologia fresca ed aperta (ma assolutamente non superficiale), a lui arrivarono in dono con una Fulbright fellowship che lo vide pioniere, insieme a Federico Mancini, di un tipo nuovo di studi che, dalla metà degli anni ’50, aprirono porte e finestre alla casa accademica del diritto del lavoro italiano che, faticosamente, andava cercando un suo assestamento e aggiornamento, dopo la grigia stagione del corporativismo autoritario che aveva per un ventennio rattrappito forze e coscienze del nostro Paese.
Per buona ventura del diritto del lavoro emersero, a quel tempo, due insigni figure di alto profilo scientifico ed umano: Francesco Santoro Passarelli e Luigi Mengoni. Essi, muovendo da un rigoroso e riconosciuto altissimo profilo di civilisti, seppero nobilitare il diritto degli operai (e dei padroni) riuscendo a dare la giusta sistemazione epistemologica alla disciplina quando essa ancora poco più che allo stato nascente e a farsi Maestri di molti e qualificati allievi (per la scuola della Cattolica, quella della mia Università, i nomi di spicco sono quelli di Tiziano Treu e Mario Napoli, ma non solo loro)
È buona, a questo punto, l’occasione di segnalare – insieme al libro di Sciarra – anche quello di Umberto Romagnoli “Giuristi del lavoro nel Novecento italiano” (già recensito su questa Rivista da P. Ichino, nel dicembre 2019). Sento il bisogno di riproporlo non solo perché ivi si trova un profilo di GG rapido (16 p.), intenso e scritto magnificamente, là dove il Nostro è rubricato col sottotitolo, affettuosamente ironico di “compagno professore”, come veniva chiamato nelle sezioni socialiste e nelle assise del suo partito. Fu su quest’onda che GG approdò, in breve, alla politica. Ovviamente con i suoi talenti era un predestinato, passando dall’alta consulenza presso il Ministero del lavoro – con Brodolini prima e Donat Cattin poi – al ruolo di parlamentare e soprattutto a quello di ministro, avendo come suo Presidente del Consiglio la bella figura di C.A. Ciampi.
Giugni tra statuto e concertazione
Qui si innesta la fase che vede GG rubricato come “padre dello Statuto dei lavoratori”: una definizione che, a dire il vero, gli è stata sempre un poco stretta, mentre avrebbe maggiormente gradito essere ricordato – pro futuro – come stimolatore della revisione del processo del lavoro, anzi come diceva lui, usando una terminologia propria del socialismo democratico (al quale apparteneva toto corde ac tota mente), alla “riforma della giustizia del lavoro”. E questo sforzo lo aveva dedicato alla memoria di suo padre che aveva passato “gli ultimi anni della sua vita a rodersi la bile, selvaggiamente sfruttato dagli avvocati, in una interminabile causa contro il suo datore di lavoro”. (Così lo stesso GG nell’intervista di P. Ichino).
En passant cogliamo al volo la sobria sintesi definitoria dello Statuto che proviene dal suo auctor principalis: «Quando è stato interpretato correttamente, lo Statuto è servito ad agevolare l’assestamento delle relazioni contrattuali, soprattutto a livello di imprese e a stabilire il primato di esse come fonte regolativa dei rapporti» (ivi).
Reputo che GG ritenesse eccessivo ed ostensivo il linguaggio barocco secondo il quale lo Statuto avrebbe fatto entrare la Costituzione in fabbrica. Anche se è vero che le libertà sindacali sembravano figlie di un dio minore. Ne sono stato testimone io stesso: quando, da giovane assistente universitario, venni portato da Bruno Manghi e Pippo Morelli, alla fine degli anni ‘60, davanti alla Borletti di Milano per volantinaggio ma soprattutto per fare, fisicamente, massa critica, in un picchetto della FIM, così da riuscire a “traghettare” oltre i cancelli dell’azienda il sindacalista incaricato di fare un comizio volante che, dieci minuti dopo, veniva fatto sloggiare, con le cattive (e con l’imputazione di violazione di domicilio) dal servizio d’ordine interno o dalla polizia.
Fu proprio in situazioni come queste che la paratia padronale cedette quasi di colpo, aiutata certamente da una giurisprudenza innovativa (Pera l’avrebbe certamente chiamata creativa… e non per elogiarla) che si tradusse in una famosa sentenza del Tribunale di Milano che assolse il sindacalista (Cerbari) perché “il fatto non costituisce reato” [cfr. sentenza 30 ottobre 1973, pres. Passerini, est. Bruti Liberati, imp. Cerbari, in Il Foro Italiano, vol. 97, 1974, pp. 243/244–251/252]. Il mondo stava cambiando e, dopo lo Statuto ovviamente, la piena agibilità per il sindacato anche sui luoghi di lavoro era stata conquistata für ewig (?).
Nell’antologia curata da Sciarra le idee innovatrici di GG sono distribuite in diversi capitoletti. Ad es. in “Critica e rovesciamento dell’assetto contrattuale” (pp. 50-67) si dà conto della “capacità anticipatrice” della CISL che si pone, modernamente, nel solco del suo essere sindacato-associazione (con forte valenza volontaristica) molto attento alla contrattazione articolata e alla dimensione aziendale, attaccato come una cozza alla difesa del job e alla negoziazione su tutto: dal cottimo, alla misurazione della produttività, ai turni in mensa. Diversamente l’altra grande (anzi maggiore) organizzazione sindacale, la CGIL, si rappresentava ed agiva più come agente della e per la lotta di classe, che era stato da sempre il suo carattere distintivo, sentendosi essa la guida del “movimento operaio”.
Ovviamente Sciarra dà conto della tenace opera di negoziazione concertativa del “decennio di preparazione” (1983-1993) che, similmente al conte di Cavour, GG percorse dai tempi della notte di San Valentino – quando si consumò la fragorosa defezione della CGIL dal modello unitario e si andò allo scontro referendario – per arrivare al luogo al quale era predestinato: la guida del ministero del lavoro. Non senza aver subito l’infamia dei barbari delle BR che, almeno con lui si dimostrarono protervi ma incapaci (non fu così purtroppo per D’Antona, Tarantelli, Ruffilli e Biagi).
Con un accattivante mixage di autostima e di autoironia GG sa che per chi come lui era stato dotato di una natura a doppio potenziale: uno studioso prestato alla politica ma anche un politico con tutti i quarti di nobiltà dell’uomo di scienza, lì avrebbe dovuto arrivare. Ben sapendo, in anticipo (in ciò aiutato dalla sua precedente permanenza in Parlamento) che non è di per sé il valore delle idee che produce il consenso (e… la gloria) e che l’eterna ed immarcescibile politique politicienne del giorno per giorno si muove su una sua cronologia convulsa e rapsodica.
Mi pare significativo ricordare che le poche pagine (84-93) dedicate al tema “concertazione” nell’Antologia si aprono con una schietta e sobria proposizione dell’argomento, in tono volutamente semplice e diretto: «Scopo di questo saggio è di analizzare la consistenza e le prospettive di una politica di concertazione sociale, nella consapevolezza che tale politica non è la soluzione finale del problema istituzionale; è un metodo che opera per l’approssimazione».
Prendo a prestito ancora da Romagnoli l’immagine di GG che impersona quel capitano genovese che si butta nel vasto Oceano “pare buscar el Levante por el Ponente”. Gino avrebbe trovato il suo Oriente proprio ad Ovest, nel New Deal rooseveltiano e, come dottrina in Perlman e Commons, che erano riusciti a dar gambe e struttura al sogno di industrial democracy lanciato, all’inizio del ‘900, dai coniugi Webb. È vero, peraltro, che quel laburismo fabiano era troppo intriso dei flavours di Bloomsbury: era perciò stesso troppo distante dall’afrore prodotto dal sudore dei colletti blu e da coloro le cui mani erano callose, come di quelli che faticano nei campi e nelle officine.
In Italia non si sono prodotte le condizioni per la nascita di un partito laburista. La vicenda del PSI è emblematica al riguardo. Il massimo del riformismo – impersonato da Turati e Treves – produsse, per effetto di una fascinazione miope e malata proveniente dalla idealizzazione della rivoluzione dei soviet (“fare come in Russia!”), il diciannovismo estremista del biennio rosso, al quale fu contrapposto – dagli agrari, dagli industriali e da una borghesia gretta e impaurita che gettò a mare, con colpevole sciatteria, la libertà senza reagire – il rimedio atroce del fascismo. Il quale, a sua volta, cercò di blandire in qualcosa i ceti subalterni, anche approntando misure welfaristiche; e tra queste annoverava il modello corporativo e la palingenesi, solo parolaia, della Carta del Lavoro. E dunque: niente conflitto sociale; sciopero vietato; ma dopolavoro per i ferrovieri e colonie marine per i loro figli.
Valore del pluralismo istituzionale e sanità del conflitto sociale
La sanità del conflitto sociale – che è il modo di essere del pluralismo istituzionale – venne patrocinata in campo cattolico nel dopoguerra dalla corrente di Cronache sociali, guidata con lucida determinazione e passionale autorevolezza da Giuseppe Dossetti, con La Pira, Fanfani, Lazzati, Mortati, Moro, Amorth, Glisenti e – in campo sindacale – con Pastori e Romani. De Gasperi se ne accorse e, dal suo punto di vista, se ne allarmò fino a scriverne, nel 1952 riservatamente, a papa Pio XII: «Se Sua Santità benedicesse l’operazione Sturzo [che sposta l’asse della DC verso destra] allora non riuscirei a fermare una scissione a sinistra, ispirata da una sorta di laburismo cristiano…»
Dossetti e i suoi rifuggivano totalmente da una visione pubblicistica, prima ancora che statalista, nei rapporti tra il sindacato e la società politica. E questo, a mio avviso, torna a loro grande merito.
Chiudo questa riflessione – che non vorrebbe essere un fuor d’opera perché presto risulteranno evidenti le connessioni dottrinali, e direi addirittura spirituali, con GG – con una annotazione che mi ha colpito particolarmente per la sede (il Parlamento), il tono (schietto e diretto) ed il suo autore, Carlo Donat Cattin succeduto a Giacomo Brodolini quale ministro del lavoro, ed il tempo solenne della dichiarazione finale prima del voto della Camera sullo Statuto dei lavoratori: il 14 maggio 1970. Dunque quella era una occasione per così dire storica.
Osserva il ministro che la controvirata – a 180 gradi – impressa alla rotta della nave che puntava all’attuazione dell’art. 39, fu adottata «per una decisione presa, a livello politico, da un gruppo minoritario della democrazia cristiana, quello capeggiato dall’onorevole Dossetti, che in sostanza fece questa riflessione: il rapporto tra legge e sindacato non è un rapporto da vedere sotto una campana di vetro ma nella realtà storico-sociale, nella realtà politica e quindi in determinate fasi della vita politica del nostro paese; mettere una legge sopra i sindacati, sull’ordinamento sindacale – nel momento in cui questo giudizio veniva pronunciato, intorno al 1951, queste erano le condizioni e non credo che siano sostanzialmente mutate – vuol dire imbrigliare i sindacati nel sistema, nella struttura maggioritaria, nella struttura economica, e quindi integrarli limitandoli nella loro funzione indipendente volta, a seconda della libera, autonoma azione che essi vogliono svolgere, anche al cambiamento del sistema». Donat Cattin – il quale, da come ne parla, non sembra entusiasta della presa di posizione dosssettiana – commenta che, in tal modo si era andata determinando «una posizione sbilanciata nel senso opposto, e cioè totalmente privatistica: nessuna legge, nessun intervento, il sindacato considerato quasi come un libero agente… nell’ambito di una concezione americanistica del sindacato, quasi un garante, un elemento equilibratore del sistema stesso» (Atti della Camera dei Deputati, V legislatura, 14/05/1970, p. 17539-40).
Questo era l’ordito, questa era la trama grezza del tessuto del sistema sindacale et sociale et politico dell’Italia nei primi anni del secondo dopoguerra. C’era però bisogno di qualche artista che, facendo il ricamo, disegnasse le figure e gli sfondi paesaggistici, rendendo presentabile e bello l’insieme. A ciò soccorse proprio la theoria necessarissima di Giugni che – in quelle circostanze – riuscì a fondare, e a far accettare da dottrina, giurisprudenza e prassi, quel certo tipo di «ordinamento intersindacale dei rapporti collettivi nei suoi aspetti di autonomia originaria» che resta il suo lascito imprescindibile.
Sommaria conclusione
Perché, tuttavia, non appaia totalmente plaudente la mia recensione al libro di Sciarra, solleverò questo appunto. La figura e l’opera di GG, anche per le circostanze di tempo, luogo e azione che le hanno contraddistinte, meritano – a mio avviso – qualcosa di diverso e ulteriore rispetto alla pur valida silloge odierna. Davvero Giugni merita di entrare in una serie speciale di «Maestri del diritto» la quale, mescolando sapientemente ingredienti dottrinali, elementi bio ed autobiografici (che non mancano), fatti storici e contesto accademico-disciplinare (anche sulla scorta degli eccellenti contributi di Umberto Romagnoli) fornisca di lui quel ritratto a sbalzo, veridico e completo, che può essere anche oggi di grande utilità, soprattutto per i giovani che si incamminano sulla strada della ricerca lavoristica.