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1) Saper vedere ‘oltre’
Con la prima pandemia dell’era della globalizzazione e, ciò che più conta, di una globalizzazione dai molteplici profili patologici, il neoliberismo mostra i segni del suo epilogo: questo ritiene il professor Sapelli, che in questa sua –al momento- ultima opera analizza gli effetti immediati ed a breve termine di questa pandemia.
Molte affermazioni di Sapelli possono lasciare perplessi, ma siamo di fronte ad uno studioso che, con grande lungimiranza, sempre è stato in grado di vedere quello che, ancora, i più non vedono: è Sapelli, infatti, che ne L’inverno di Monti (edito anch’esso da Guerini e Associati) all’inizio del 2012, con una visione totalmente distonica rispetto al pensiero allora dominante, mise lucidamente in guardia nei confronti degli eventi negativi che erano, allora, in agguato.
Abbiamo avuto altra prova della visione ‘profetica’ di Sapelli lo scorso anno, quando (sempre con Guerini e Associati) ha pubblicato Nulla è come prima. Le piccole imprese nel decennio della grande trasformazione, ove ha analizzato l’effetto che i cicli recessivi dell'ultimo decennio hanno provocato sulla struttura imprenditoriale italiana -caratterizzata come è ben noto da un'alta presenza di piccole imprese- individuando le traiettorie dei mutamenti in essere e di quelli in prospettiva.
E’ assai verosimile che mutamenti ancor maggiori saranno l’eredità della situazione che stiamo faticosamente vivendo, e che sfide che apparivano incerte e non imminenti debbano essere affrontate con immediatezza in un mondo che, come con la consueta lucidità e capacità di guardare avanti Sapelli ci dice, certamente non sarà più lo stesso.

3) Il mondo in cui cade la pandemia
Oggi, anche coloro che credevano fermamente nel mercato, e continuano a credervi, scoprono che la delocalizzazione ha delle esternalità negative su molteplici aspetti della vita sociale: dal lavoro all’ambiente, alla qualità dei prodotti e dei processi di produzione e distribuzione.
Il tema dell’individuo è interrelato a quello del lavoro, e quest’ultimo è una funzione del sistema economico-politico nel quale si colloca: il capitalismo, ad avviso di Sapelli, se vuole sopravvivere deve cambiare sul piano del lavoro, investendo in tecnologia, che rappresenta la chiave di volta del lavoro e di ogni organizzazione.
Al contempo il ruolo dello Stato non potrà che essere sempre più forte, anche se rappresenta un’inversione di tendenza accantonare la demonizzazione di questa idea, nel mentre si valorizzano forme di allocazione dei diritti di proprietà quali il not for profit.
Sapelli osserva che la quarantena, limitando i contatti fisici, potrebbe portare ad una non effimera riflessione, grazie anche alle modalità di comunicazione on-line: è il momento appropriato per pensare al ruolo centrale del lavoro nell’oggettivazione della personalità.
Nella nostra civiltà giudaico-cristiana, da Tommaso d’Aquino alla critica di Marx nei confronti della concezione del lavoro di Hegel, il lavoro è strumento di realizzazione e di libertà dell’uomo o, viceversa, di alienazione ed asservimento.
Oggi il capitalismo, abbandonata la dimensione manifatturiera, si è finanziarizzato, è guidato dalla speculazione finanziaria, non più dall’industria: come osserva Sapelli, ciò consente ad un top manager di guadagnare in un anno quanto una famiglia imprenditoriale guadagnava prima in alcune generazioni.
Successivamente a quella industriale non si è verificata una rivoluzione simile all’attuale: la perdita di rilevanza del lavoro, l’arretramento delle condizioni di guadagno e di vita.
Il capitalismo finanziario ha trasformato tutti i presupposti della stessa forma politica costituzionale negli Stati di cultura codicistica napoleonica sotto l’impulso della centralizzazione capitalistica, come è il caso –ad avviso di Sapelli- dell’Unione europea che, per realizzarsi, ha abolito ogni forma di diritto costituzionale adeguato alla centralizzazione: né federale né confederale, ma funzionalistica, ha sostituito il diritto con i rapporti di forza esercitati attraverso la burocrazia europea.
Più che mai si impongono forme di controllo che, se non è più quello sindacale, deve essere comunitario: la tecnologia non garantisce nei confronti dell’incremento del plusvalore, il lavoro on-line può far sì che l’interconnessione apra la strada ad un plusvalore tendente all’infinito, come nel caso di smart working non disciplinato da orari.
Non a caso è stato disciplinato, per la prima volta in Francia, il ‘diritto alla disconnessione’ (Loi n. 2016-1088 dell’08.08.2016, che ha modificato l’art. 2242-8 del Code du Travail): le aziende con un numero di dipendenti superiore a 50 tramite accordi interni devono regolamentare il tempo ‘offline’ dei dipendenti stessi, ai quali non possano essere inviate e-mail, comunicazioni, messaggi o telefonate al di fuori dell’orario di lavoro.
Nell’Enciclica sociale del 2009 Caritas in veritate di Benedetto XVI, il lavoro è considerato il primo capitale da salvaguardare per valorizzare l'uomo, la persona, nella sua integrità, poiché l'uomo è il centro ed il fine dell’intera vita economico-sociale.
Anche in questa prospettiva è quindi necessario creare forme di allocazione dei diritti di proprietà diverse dalla proprietà capitalistica, quali il terzo settore e la rivalutazione della reale cooperazione, nelle sue originarie finalità mutualistiche.
La vera resurrezione consisterà nel ridare dignità al lavoro, se è possibile nell’ambito capitalistico, oppure in ogni altra forma compatibile con la PMI, ad esempio società con la partecipazione di lavoratori e managers, ed anche le eterogenee esperienze, per ora isolate, delle cosiddette fondazioni di impresa potrebbero dare accesso ad inediti modi di configurarsi del lavoro in azienda.

4) Governo e consenso
Affinché una norma sia rispettata deve essere, innanzitutto, compresa, ma chi ci governa –si chiede Sapelli limitando volutamente l’interrogativo alle vicende correlate all’attuale pandemia- comprende cosa sta accadendo, conosce i termini degli enormi problemi da affrontare?
La globalizzazione rende ancor più complesso il compito del legislatore, pur se deve rilevarsi una discrasia fra la globalizzazione finanziaria e la semi-globalizzazione manifatturiera.
Forse si sarebbe dovuta dedicare maggiore attenzione alle scelte operate in altri Paesi onde evitare di optare per il “restate a casa”, comando offensivo per chi lavora: chi ci governa non poteva farci lavorare protetti, si domanda Sapelli?
La vera emergenza della situazione pandemica, dai punti di vista culturale e intellettuale, è la responsabilità nelle mani di una classe politica non all’altezza della situazione.
Chi ha coniato l’infame parola d’ordine “restate a casa” ha provocato morte e povertà, quando si sarebbero dovute adottare scelte necessarie per lavorare in sicurezza.
Come non pensare alla distanza dalla visione dell’élite di Vilfredo Pareto, al concetto di classe governante di Gaetano Mosca, al rapporto fra l'élite di governo, vale a dire coloro che eccellono nell'arte del comando politico, e i governati?
Ad avviso di Sapelli proprio questo è il cuore della questione.
I partiti di governo oggi, non hanno radicamento né territoriale, né culturale, e neppure ideologico, come era per i ‘vecchi’ partiti.
Un governo deve essere credibile: potrebbe questa sconclusionata compagine seguire le indicazioni di Giulio Tremonti e Giovanni Bazoli circa un grande prestito pubblico nazionale, grazie al quale trovare le risorse necessarie per far fronte alle esigenze non dell’economia, ma della società italiana del dopo virus?
Il D.L. 28 aprile 1947 n. 338, al fine di finanziare le opere di ricostruzione dell'Italia dopo la guerra varò il prestito redimibile della ricostruzione, alla cui definizione ebbe ampia parte non soltanto il governatore della Banca d’Italia Domenico Mennichella, ma -particolare assai interessante- anche il segretario del PCI Palmiro Togliatti che, pur essendo già uscito dal governo insieme ai socialisti, con un celebre discorso del 1948, invitò gli operai a investire parte del loro salario nei titoli del prestito per la ricostruzione nazionale che il governo degasperiano aveva proposto alla nazione.
Esisteva allora, malgrado le aspre contrapposizioni ideologiche, una condivisione d’intenti fra maggioranza ed opposizione che consentiva di affrontare proficuamente i grandi problemi del Paese, oggi è ancora così?
L’approccio della Corea del Sud al superamento della crisi sanitaria provocata dal Covid-19 è stato, quantomeno in prima battuta, un successo: la crisi pandemica è stata affrontata con una strategia diversa da quella adottata negli altri Paesi, senza la chiusura generalizzata delle attività, ma con adeguate misure di prevenzione e contenimento della diffusione del contagio.
Ciò è stato possibile non soltanto per le minori preoccupazioni per la privacy dei cittadini e per l’enfasi confuciana sul rispetto dell'autorità, della stabilità sociale e del bene della nazione al di sopra dell'individualismo, ma anche e specialmente in ragione della delega da parte del parlamento di tutti i poteri economici, politici e militari ad un apposito comitato tecnico per la gestione dell’emergenza.
Nel nostro Paese il Consiglio supremo di difesa è l’organo previsto dall’art. 87 della Costituzione, presieduto dal Presidente della Repubblica ed istituito con la legge 28 luglio 1950, n. 624 (ora abrogata ed inserita, senza modifiche, nel Codice dell’Ordinamento Militare, d.lgs 15 marzo 2010, n. 66).
A questo organo, preposto all’esame dei problemi generali politici e tecnici attinenti la sicurezza e la difesa nazionale, Sapelli ritiene che avrebbero opportunamente dovuto essere conferiti i poteri necessari per affrontare l’emergenza, anziché ad una pletora di comitati pseudo scientifici che, a livello centrale e regionale, altro non sanno fare che contraddirsi miserevolmente.
Un accentramento del potere in mano a personaggi assolutamente privi di peculiari professionalità, lontanissimo –inutile sottolinearlo- dell’organo di emergenza coreano.
In Francia, ove gli studi sul tema della stratificazione sociale precorrono la Rivoluzione, si riflette sul distacco delle classi superiori da quelle inferiori, mentre noi conosciamo oggi il peculiare processo di chi sta sopra senza mai essere stato sotto, personaggi che erano nessuno, che non hanno alcuna idea del lavoro mai avendolo praticato, cui tocca di adottare decisioni determinanti in un momento di emergenza.
L’ascensore sociale non solo si è bloccato, ma questa fine della mobilitazione verso l’alto delle classi subalterne ha provocato l’aumento delle disuguaglianze e lo spostamento del reddito dal lavoro al capitale in forma prima mai vista su scala planetaria, ed insieme la fine di ogni comunicazione cognitiva tra le classi alte e le classi ultime e penultime della società.
Fra le grandi trasformazioni dell’ultimo trentennio le più rilevati sono state la diminuzione della dimensione media delle imprese, nonché la trasformazione del lavoro collettivo di fabbrica e di ufficio in lavoro individuale e di piccoli gruppi, quindi l’enorme discrasia tra poche imprese grandi e la miriade di imprese artigiane e familiari la cui ontologia economica e sociale è ancora pressoché sconosciuta.
Le classi alte che siedono al governo politico o a quello funzionale per via tecnocratica nulla sanno e vogliono sapere di questo universo economico e sociale.
È questa discrasia tra super-globalizzazione finanziaria e semi-globalizzazione manifatturiera che crea le crisi mondiali e si somma con la deflazione secolare indotta dalla politica economica europea fondata sul liberismo a bassa intensità di investimenti pubblici e alta restrizione dei mercati interni e del profitto capitalistico colpiti dalla deflazione.
Il coronavirus si è abbattuto come un maglio sulle catene produttive e commerciali mondiali generando insicurezza e blocchi delle interconnessioni.
In questo contesto le misure assunte dall’Italia sono in alcuni punti sconcertanti perché non considerano il fatto che si deve certo difendere la salute dei cittadini e combattere l’epidemia ma, al contempo, salvaguardare la parte essenziale dell’apparato produttivo senza il quale neppure le risorse per battere l’epidemia possono essere generate.
Il messaggio “restate a casa” è una rinunzia ad utilizzare tutte le possibilità e potenzialità tecnologiche che abbiamo per vincere il virus senza interrompere la macchina produttiva e distributiva della società.
Dopo aver riconosciuto tardi la gravità dell’epidemia ed aver agito seguendo, anziché prevenendo la malattia, si è fatto ricorso ad uno slogan veramente offensivo per coloro che lavorano e che sanno cosa sia l’Italia e su che cosa si fondi il suo patrimonio produttivo e culturale, frutto dell’attività interconnessa socialmente di milioni di persone che vivono gran parte del loro tempo di vita nei luoghi di lavoro.
Se al governo vi è un’accolita di soggetti assai diversi da una élite, sono inevitabili decisioni che in nessun altro Paese sono state considerate: non in Germania, ove le uniche chiusure sono state nel settore dell’auto per la mancanza di approvvigionamenti dall’Italia e dalla Spagna, non negli Stati uniti, ove Trump ha chiesto alla grande industria di produrre immediatamente i dispositivi respiratori resi necessari dall’emergenza.
Nel nostro Paese la chiusura delle PMI che non sono state messe in grado di fronteggiare l’emergenza avrà conseguenze ad altissimo costo.

5) La Cina
In questa pandemia un ruolo centrale è stato giocato dalla Cina, che –anche sulla scorta di affrettati giudizi- si è guadagnata il ruolo di Grande Untore.
Troppo spesso, ad avviso di Sapelli, si sottovaluta però la Cina, della quale troppo poco si sa, ad esempio, che fra il 1405 e il 1433 una flotta di 208 navi con ventottomila uomini, una potenza mai eguagliata nei secoli successivi neppure dagli spagnoli, dai portoghesi e dagli inglesi, effettuò sette spedizioni che portarono la Cina ad esplorare e colonizzare i Paesi prospicenti l'Oceano Indiano, l'Africa --orientale, il Golfo Persico, l'Egitto.
I cinesi, che erano allora l’unica vera potenza economica e militare mondiale, avevano già inventato la polvere da sparo, il sestante e la bussola, avevano una discreta conoscenza dell’Europa, ma non ne erano attratti sapendo che in gran parte si caratterizzava ancora per l'arretratezza del Medioevo, pertanto non si spinsero fino al Mediterraneo consapevoli delle scarse opportunità di scambi commerciali: se l’avessero fatto probabilmente avrebbero mutato il corso della storia.
Oggi la Cina è un sistema capitalistico di Stato dalla dimensione burocratica ed –ai nostri occhi- di scarsa democrazia, entrato nel WTO per la pressione delle grandi banche d’investimento inglesi, statunitensi e francesi: certamente la Cina andrebbe conosciuta di più, ma forse solo i Gesuiti per i loro stretti rapporti con la Cina sin dalla fine del XVI secolo sono realmente in grado di conoscerla e comprenderla.

6) L’Unione europea
Questa Unione europea mostra, impossibile nasconderlo, una lacuna sconcertante, la mancanza di una costituzione europea, questa Europa non è confederale, né federalista, neppure esiste una banca emittente centrale, la deflazione domina, e la sua economia è minata dall’esistenza di paradisi fiscali all’interno della stessa Unione, quali Olanda, Lussemburgo, Irlanda e Cipro.
Che dire, inoltre, del Meccanismo Europeo di Stabilità, sorta di ircocervo fra diritto commerciale e diritto dei trattati, tornato alla ribalta ad opera del virus.
I padri fondatori dell’Europa, afferma Sapelli, erano tutti democratico-cristiani che, nel periodo della guerra fredda, avevano di mira la pace, non l’unione: Euratom e Ceca dovevano esserne gli strumenti economici, una sorta di grandi imprese multinazionali europee, ma di quelle grandi idee nulla è rimasto, se non qualcosa nella politica agricola.
Al contempo il funzionalismo europeo altro non è se non la sottrazione di sovranità ai popoli senza che questi se ne accorgano, solo Olanda e Francia l’hanno ben compreso quando, nei due referendum fra maggio e giugno 2005, bocciarono la costituzione solennemente firmata a Roma nel 2004.
L’Unione Europea quando affronta problemi economici procede come una società di capitali, come è possibile dire che l’unica forma di economia è quella liberistica?
Le asimmetrie di potere sono troppo grandi in Europa, l’egemonia tedesca ne fa una sorta di IV Reich, l’opinione pubblica nulla ne sa, i nostri ministri sono rassegnati, senza più capacità di reagire, come accadde nel 1938-39 di fronte alle leggi razziali.
Non ci rendiamo conto che siamo di fronte ad una disgregazione socio-economica ormai alle porte, e ad un futuro di microconflittualità ma, attenzione, come ricorda la Bibbia, l’ira dei vinti è terribile.
Come si può in un simile scenario parlarsi di solidarietà fra Stati membri?
E’ necessaria l’utopia –conclude Sapelli- senza non si sfuggirà alla pandemia, è bene, quindi, ravvivarne il senso, e l’utopia più saggia è quella concreta, come insegnano Emmanuel Mounier ed Adriano Olivetti, è quella che ciascuno nella propria vita cerca di realizzare.

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