La bella monografia di Loredana Zappalà affronta la delicata questione che attiene alla rilevanza che deve essere attribuita alla imputazione soggettiva dell’inadempimento allorché si tratta di valutare la responsabilità contrattuale del lavoratore .
A tal fine, nel solco tracciato da una lunga tradizione di studi giuslavoristici, Z. compie uno sforzo «di ricerca delle proprie radici nel e di fuga dal diritto civile» . E ciò nel presupposto, di cui l’Autrice dà ragione nel corso del suo lavoro, che «il discorso sulla colpa non può non essere declinato diversamente quando il debitore cui si vuole imputare la responsabilità è il lavoratore» .
Ed infatti, attraverso un’approfondita analisi dei formanti storici delle diverse soluzioni che il diritto del lavoro ha nel tempo dato a quella delicata questione, Z. evidenzia come la riflessione giuslavoristica sul tema della colpa del lavoratore, pur essendo sempre rimasta «saldamente ancorata alle categorie civilistiche», abbia nei suoi sviluppi confermato la capacità del diritto del lavoro di «muoversi in una logica di adattamento dell’autonomia privata ai valori costituzionali» , i quali sono chiamati in causa anche dal «tema più profondo, sotteso all’intera riflessione lavoristica sul contratto di lavoro, vale a dire la rilevanza della persona contrattualmente obbligata allo svolgimento della prestazione dentro l’organizzazione d’impresa» .
In tale prospettiva, l’analisi di Z. induce ad affermare che anche per quanto attiene al tema della responsabilità del lavoratore per l’inadempimento delle obbligazioni che gli derivano dal rapporto di lavoro, l’interprete deve “prendere sul serio” la costitutiva implicazione della intera persona del lavoratore nello svolgimento del rapporto di lavoro subordinato, in modo da «tenere conto fino in fondo del debitore di lavoro, inteso quale persona e non solo come soggetto economico» .
Ed infatti, Z. mette anzitutto in luce come la dottrina giuslavoristica, pur avendo proceduto ad una «spersonalizzazione» del rapporto di lavoro subordinato che ha escluso la possibilità di un’autonoma rilevanza della lesione della fiducia non fondata sulla esistenza, oggettivamente verificabile, di un inadempimento, abbia al contempo e in larga parte avvertito l’esigenza di una personalizzazione del criterio di imputazione della responsabilità contrattuale del lavoratore subordinato, tale da evitare l’applicazione delle categorie civilistiche legate ad una concezione meramente oggettiva .
L’analisi condotta da Z. ha quindi il merito di evidenziare che al fine di proteggere la persona che lavora, e che è interamente coinvolta nell’adempimento di obblighi di collaborazione e di obbedienza i cui confini sono resi sempre più elastici dalla crescente esigenza di flessibilità delle imprese, non sembra possibile affidarsi esclusivamente al temperamento che la categoria della inesigibilità può introdurre nella applicazione della disciplina civilistica della responsabilità contrattuale.
Ed infatti, entrambi i termini della relazione che caratterizza il vincolo di subordinazione, la persona e l’organizzazione, rendono difficile il ricorso a tale categoria, perché «nella complessità della realtà aziendale, ciò che è esigibile dal prestatore solo con difficoltà potrebbe essere distinto da ciò che, invece, è inesigibile», tenendo conto del fatto che l’«immanenza della persona, che connota in senso tipico il lavoro subordinato, ha come conseguenza di attrarre, nell’area dell’oggetto del contratto, non solo l’attività lavorativa in sé considerata (le opere), ma il soggetto autore della medesima» .
Pertanto, l’analisi di Z. ha il merito di mettere in luce come la categoria della imputabilità subiettiva dell’inadempimento, che collega «il criterio di imputazione alla colpa del prestatore di lavoro» , possa rivelarsi più tutelante della categoria della inesigibilità, perché mentre quest’ultima ha a che fare con standard valutativi e schemi comportamentali generali e astratti , la prima ha a che fare con la concretezza della persona che lavora e che, come detto, è coinvolta «con tutto il suo essere» nell’adempimento degli obblighi che gli derivano dal rapporto di lavoro.
Ed infatti, il mutamento di paradigma impone di spostare il fulcro della indagine, la quale non deve più soltanto incentrarsi sulla riconducibilità della fattispecie concreta allo standard di condotta, anche in termini di esigibilità, generale e astratto, ma deve essere estesa alla valutazione, in concreto, del grado di partecipazione psicologica del lavoratore alla commissione della condotta , in particolare in termini «di consapevolezza, volontarietà e intenzionalità del comportamento posto in essere» .
In tal senso, quindi, Z. avverte come al fine di “prendere sul serio” la implicazione della persona nel rapporto di lavoro occorra valorizzare, anziché la categoria della inesigibilità, la «diversa categoria concettuale della imputabilità dell’inadempimento», la quale consente all’interprete di attribuire rilevanza ai «profili subiettivi dell’inadempimento medesimo e della responsabilità che più tengono conto del profilo personalistico che caratterizza l’obbligazione di lavoro» , e quindi anche alla categoria della colpa che, «a differenza della categoria della inesigibilità, mette – nel bene e nel male – al centro la persona che, con i suoi comportamenti volontari e intenzionali agisce come parte attiva del contratto di lavoro e, per ciò stesso, diviene subiettivamente imputabile di un inadempimento» .
In secondo luogo, l’analisi di Z. mette in luce come la crescente rilevanza che, nel tempo, il diritto del lavoro ha attribuito alla «categoria concettuale della imputabilità subiettiva dell’inadempimento» , con la connessa questione della «valutazione subiettiva della imputabilità della condotta» , è anche conseguenza di ciò che, soprattutto ad opera del formante giurisprudenziale , «la colpa ha assunto il ruolo di standard valutativo bidirezionale», utilizzato «sia in chiave di esimente» che «in chiave afflittiva» e, quindi, non soltanto «per escludere la responsabilità per inadempimento, ove il comportamento tenuto non sia imputabile a colpa o la condotta non sia intenzionale», ma anche, all’opposto, «per imputare la responsabilità anche per inadempimenti di scarsa importanza, laddove tuttavia la violazione colposa soprattutto del dovere di collaborazione, di obbedienza e di fedeltà entra in conflitto con l’interesse organizzativo del datore di lavoro per il contratto per il quale è stato stipulato» .
Pertanto, l’analisi di Z. ha il merito di ricordarci che il progressivo allontanamento delle categorie del diritto del lavoro dall’originaria matrice civilistica è conseguenza anche della maturata consapevolezza che il particolare conflitto di interessi che tipicamente caratterizza il rapporto di lavoro subordinato non ha eguali negli altri rapporti giuridici di contenuto patrimoniale, non soltanto per l’implicazione, alla quale sopra è già stato fatto cenno, della intera persona di uno dei contraenti nello svolgimento del rapporto ma anche per ciò che l’organizzazione di lavoro, che la stipulazione dei contratti di lavoro subordinato consente di realizzare, costituisce il “cuore” di qualsiasi organizzazione produttiva, la cui efficienza è quindi direttamente proporzionale all’efficienza di quella di lavoro .
Si comprende, dunque, che se la disciplina civilistica dell’inadempimento può mettere al centro l’esigenza di «ristabilire l’equilibrio contrattuale violato» e, quindi, relegare ai margini la «questione della imputabilità subiettiva dell’inadempimento» perché questo, in funzione di quell’equilibrio, può essere oggetto di una valutazione soltanto oggettiva, altrettanto non può fare il diritto del lavoro, perché proprio la soluzione di quella delicata questione può consentire di assicurare al prestatore di lavoro il necessario livello di tutela salvaguardando, allo stesso tempo, i legittimi interessi organizzativi del datore di lavoro , realizzando in tal modo un corretto bilanciamento dei principi costituzionali ricavabili dai primi due commi dell’art. 41 Cost.
Ed infatti, l’inserimento del lavoratore nella organizzazione predisposta dal datore di lavoro, consente di attribuire rilevanza all’interesse di quest’ultimo a poter confidare nella correttezza dei futuri adempimenti del primo, tenendo conto delle conseguenze negative che un eventuale inadempimento potrebbe determinare anche soltanto sul piano della efficienza di quella organizzazione. Ciò spiega la ragione per la quale il datore di lavoro, al fine di valutare l’esistenza dei presupposti per l’esercizio del suo potere disciplinare, possa avere interesse ad apprezzare la gravità dell’inadempimento, oltre che sul piano oggettivo, anche sul piano del profilo soggettivo della condotta del lavoratore e, in particolare, sul piano del maggiore o minore grado di partecipazione psicologica che la sorregge, e che pure può assumere particolare rilevanza in quella valutazione prospettica .
Allo stesso tempo, però, l’esigenza di salvaguardare, nel bilanciamento fra principi costituzionali, i valori della persona costitutivamente implicata nello svolgimento della prestazione lavorativa, spinge nella opposta direzione, perché richiede di tener conto, al fine di valutare la proporzionalità della sanzione disciplinare adottata, anche «della natura strettamente personale dell’obbligazione di lavoro, cui segue la valorizzazione dei profili soggettivi della responsabilità del prestatore di lavoro» , anche al fine di poter eventualmente mitigare, sulla base del «profilo della colpa, inteso in un senso eminentemente psicologico e soggettivo» , la valutazione di gravità dell’inadempimento che deriverebbe dall’apprezzamento del solo piano oggettivo.
Peraltro, tali considerazioni assumono particolare rilievo quando si tratta di valutare la legittimità del licenziamento disciplinare, rispetto alla quale entra in gioco, nella «delicata operazione di bilanciamento fra principi e valori costituzionali» , anche l’interesse alla conservazione del posto di lavoro, che assume rilevanza, in virtù dell’art. 4 Cost., anche per la maturata consapevolezza di come la sua tutela sia funzionale a «riequilibrare i rapporti delle parti all’interno del contratto di lavoro» .
Pertanto, se l’esigenza di tener conto della imputazione soggettiva della condotta si pone anche quando l’esercizio del potere disciplinare persegue semplicemente «lo scopo di “correggere” il comportamento di un lavoratore che rimane dentro l’azienda» , la stessa esigenza diviene più stringente quando la sanzione è quella espulsiva, perché il sacrificio dell’interesse alla conservazione del posto di lavoro può apparire giustificato «solo se il lavoratore sia almeno consapevole e abbia intenzionalmente scelto di tenere un comportamento notevolmente inadempiente» . In tal senso Z. avverte come proprio la valutazione dell’elemento soggettivo della condotta possa consentire un corretto bilanciamento che tenga conto anche della dignità del lavoratore, facendo volta per volta «propendere l’ago della bilancia per la giustificatezza del licenziamento (una mancanza accertata intenzionalmente gravissima), come anche in chiave esimente della responsabilità (una mancanza grave, che tuttavia rappresenta una dèfaillance isolata o comunque incolpevole nella prospettiva della regola di buona fede nell’esecuzione del contratto)» .
Soprattutto, però, l’analisi di Z. ha il merito di mettere in luce la significativa evoluzione che ha consentito al diritto del lavoro di attribuire rilevanza al grado di partecipazione psicologica del lavoratore alla condotta inadempiente, non già soltanto al fine di valutare la gravità della mancanza in funzione del giudizio di proporzionalità della sanzione ma, ancor prima, al fine di valutare la imputabilità subiettiva dell’inadempimento, intesa come «requisito minimo per la imputabilità del fatto» e, quindi, per l’esistenza stessa della responsabilità contrattuale . Evoluzione che, quindi, è particolarmente significativa perché coerente con l’esigenza, già sopra ricordata, di “prendere sul serio” la costitutiva implicazione della persona del lavoratore nel rapporto di lavoro anche per quanto attiene alla valutazione dei presupposti della sua responsabilità.
Del resto, tale prospettiva consente di risolvere anche la delicata questione posta agli interpreti dalla riforma, ad opera delle legge n. 92 del 2012, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Ed infatti, per effetto di quella riforma, il giudice che abbia accertato la mancanza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo posto a base del licenziamento disciplinare, è chiamato ad una ulteriore valutazione al fine di individuare il rimedio applicabile . In particolare, il giudice è chiamato a verificare se la mancanza di giustificazione del licenziamento sia conseguenza della «insussistenza del fatto contestato» , dovendo in tal caso trovare applicazione un rimedio di natura reale e non meramente indennitario.
Pertanto, sembra doversi condividere l’opinione secondo la quale il giudice deve dichiarare che il fatto contestato non sussiste anche nella ipotesi in cui non sia stata raggiunta la prova di quel grado minimo di partecipazione psicologica del lavoratore alla condotta contestata in assenza del quale l’inadempimento non può essergli soggettivamente imputato.
Sembra, cioè, doversi ritenere che ogni volta in cui il datore di lavoro contesti al lavoratore un inadempimento in vista del possibile esercizio del potere disciplinare, contesti anche necessariamente e, quindi, esplicitamente o implicitamente , la imputabilità soggettiva della mancanza contestata e che, quindi, tale imputabilità costituisca in ogni caso uno degli elementi dal cui accertamento dipende la possibilità di predicare la sussistenza del fatto contestato.
Tale conclusione, infatti, come avverte Z., appare giustificata anche nel bilanciamento fra principi costituzionali, perché il licenziamento intimato per un inadempimento «di cui il lavoratore non ha nemmeno colpa, o per un comportamento non intenzionale, è da considerare talmente lesivo della sua dignità da rendere necessaria una tutela reintegratoria» .
Pertanto, alla medesima conclusione deve giungersi anche in relazione alla disciplina contenuta nell’art. 3, secondo comma, del d.lgs. n. 23 del 2015, che richiede di verificare, ai fini dell’applicazione del rimedio di natura reale, la eventuale «insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore» . E ciò anche perché il grado di partecipazione psicologica costituisce, prima ancora che un elemento costitutivo dell’inadempimento contestato, un elemento della condotta sul piano materiale.
Le considerazioni che precedono non escludono, per quanto sopra detto, che il grado di partecipazione psicologica del lavoratore alla condotta possa assumere rilevanza anche in un momento diverso e successivo rispetto a quello dell’accertamento della sussistenza del fatto contestato, ovvero nel momento in cui il giudice, avendo accertato che il fatto contestato sussiste, è chiamato a valutare la proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla gravità dell’inadempimento, o sulla base delle eventuali tipizzazioni contenute nella contrattazione collettiva e che possono rilevare anche ai fini dell’applicazione del quarto comma dell’art. 18 , ovvero nell’ambito del giudizio che può condurre all’applicazione della sanzione indennitaria prevista dal quinto comma della medesima disposizione. Ciò in quanto, «una volta accertata la imputabilità subiettiva dell’inadempimento (e quindi anche la sua rilevanza disciplinare), la valutazione si riespande in termini di proporzionalità del grado della colpa o dell’intensità dell’elemento intenzionale» .
Infine, Z. avverte che la capacità che il diritto del lavoro ha storicamente dimostrato, di fungere da «laboratorio sperimentale per un adattamento della narrazione civilistica alla postmodernità» , consente di considerare l’elaborazione giuslavoristica in tema di colpa del lavoratore come destinata ad ulteriori future evoluzioni. Ed infatti, il compito che attende i giuslavoristi, di ripensare le categorie del diritto del lavoro per fare fronte alle «sfide derivanti dai mutamenti sociali del nuovo secolo (dall’industria 4.0 alla gestione algoritmica che caratterizza le forme più avanzate dell’economia digitalizzata)» , potrà essere assolto anche mediante «un nuovo bilanciamento degli interessi in gioco che ri-umanizzi l’obbligazione di lavoro, cui segue la necessaria rivalutazione in termini subiettivi dell’adempimento e l’attribuzione di una significativa rilevanza al criterio subiettivo della colpa nel giudizio sulla eventuale imputazione di responsabilità» .