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Fabrizio Amendola è un magistrato della Corte di Cassazione, aduso perciò ad un’analisi attenta ed approfondita di tutti i fattori che concorrono a costituire il sistema normativo, estensore di importanti sentenze della sezione lavoro , cui è addetto.
Il suo Covid-19 e responsabilità del datore di lavoro, uscito recentemente per i tipi della Cacucci Editore di Bari, nella collana “Biblioteca di cultura giuridica” , Serie Breviter et dilucide, diretta da Pietro Curzio, risponde a tale rigore scientifico. Vi aggiunge, però, libero dalla divisa, una leggerezza di tono quanto mai gradevole.
Il sottotitolo “ovvero delle illusioni percettive in tempo di pandemia” e la introduzione sulle illusioni cognitive costituiscono il là dello sviluppo tematico successivo.
Premessa la descrizione dello status quo ante, costituito dallo scheletro normativo (artt. 32 Cost., 2087 cod.civ., 10 e 11 t.u. 1124) e dalla robusta muscolatura costruitavi addosso dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, attraverso cui vive l’intero organismo, illustra analiticamente gli eventi suggestivi e normativi, di vario livello, succedutisi freneticamente nel corso del 2020, culminati negli artt. 42 legge 27/2020 e 29 bis legge 40/2020.
Amendola sostiene che l’art. 42, nella parte in cui qualifica la infezione da Covid-19 in occasione di lavoro come infortunio, è puramente confermativo dei principi di sistema. Non si può non essere d’accordo. Patrizio Rossi, in un bell’articolo comparso sulla Rivista Infortuni, compie un’accurata ricostruzione storica del percorso normativo e dottrinario che ha condotto nel nostro Paese alla qualificazione delle infezioni da agenti biologici come infortunio sul lavoro (come anche in Spagna) e non come malattia professionale (come avviene in Francia e Germania), in ragione del carattere violento dell’atto di penetrazione dell’agente lesivo.
Si può ricordare anche la giurisprudenza in tema di epatite virale del personale sanitario per la quale, in punto di prova, basta la plausibilità della infezione con l’ambiente lavorativo, giurisprudenza che costituisce la migliore piattaforma di giustificazione della scala presuntiva dell’aggravamento di rischio da Covid-19 elaborato dall’Inail con la circolare 13/2020, pure richiamata da Amendola, per fondare la tutela infortunistica di un rischio di per sé pandemico e quindi generico.
Importante l’affermazione, a pag. 67, “che ogni luogo dove lavorano più persone diventa, per ciò stesso, occasione di propagazione del virus, il che rende doverosa l’applicazione di misure di cautela”, con cui Amendola sembra accreditare la posizione di quegli studiosi che, in applicazione delle nozioni attuali di occasione di lavoro e di rischio ambientale, individuano l’aggravamento del rischio da Covid - 19 nella aggregazione sociale per ragioni lavorative, aggregazione interna con altri colleghi di lavoro, o aggregazione esterna con clienti e terzi.
Tornando alle illusioni cognitive, la prima è costituita dalla interpretazione che hanno dato alcune parti sociali dell’art. 42, come costitutiva di una indiscriminata responsabilità, anche penale, del datore di lavoro, quale conseguenza della qualificazione infortunistica.
La seconda è costituita dall’art. 29 bis legge 40/2020, inserito in sede di conversione del d.l. 23/2020, con cui il legislatore ha risposto, “come la sventurata monaca manzoniana”, alle sollecitazioni nel mondo imprenditoriale, del quale pur riconosce legittima l’aspirazione ad una codificazione delle regole cautelari che renda giuridicamente calcolabili, come predicava Max Weber, le conseguenze dell’attività di impresa.
Elenca, poi, diverse questioni problematiche.
La prima riguarda il rapporto dell’art. 29 bis con l’art. 2087 c.c., se la norma speciale riesca a surrogarsi totalmente alla disposizione codicistica neutralizzandone la naturale vis espansiva.
La seconda riguarda il rapporto tra l’apparato sanzionatorio di carattere amministrativo della legislazione dell’ emergenza (art. 4, comma 1, decreto-legge 19 del 2000, poi ribadita dall’art. 2, comma 1, decreto legge 33 del 2020), e l’apparato sanzionatorio contravvenzionale del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
La terza riguarda la necessità o meno di una nuova valutazione dei rischi.
Sulla prima questione Amendola adduce diversi argomenti per continuare a guardare al faro dell’art. 2087: il carattere elastico di gran parte delle prescrizioni dei protocolli, da cui deriva un innegabile spazio di discrezionalità applicativa; la pluralità dei livelli dei protocolli, in ambito nazionale, territoriale, nonché aziendale, cui i primi rinviano; con grande consapevolezza, vi aggiunge una certa inerzia giurisprudenziale che avversa l’applicazione di istituti giuridici con modalità inedite, quando sia possibile percorrere sentieri ermeneutici già lungamente sperimentati. E su questo punto ricorda la consolidata giurisprudenza di legittimità sul carattere dinamico dell’art. 2087, che già contempla le misure innominate. Ricorda l’esperienza, che si può considerare parallela, dei tentativi legislativi di contenere la responsabilità medica (d.l. 158/2012, conv. in l. 189/2012, e poi con l’art. 590-sexies c.p., introdotto dalla l. 124/2017), ridimensionati dalle Sezioni unite penali (sent. 21.12.2017 n. 8770).
Sulla seconda Amendola registra i due opposti orientamenti: quello secondo cui la disposizione speciale, per la quale il mancato rispetto delle misure di contenimento è punito con la sanzione amministrativa, escluderebbe l’applicabilità delle sanzioni penali stabilite dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81; e quella che considera la misura speciale inserita nel sistema sanzionatorio del testo unico. L’approccio sistemico di Amendola ci fa pensare che egli propenda per questo secondo orientamento, anche perché la norma speciale menziona già le sanzioni che esclude, e le limita a quelle previste dall’art. 650 c.p.
Sulla terza, viene in soccorso il recente studio di Pascucci e Delogu, i quali individuano nell’art. 15 del testo unico sicurezza, con il suo obbligo per il datore di eliminare il rischio, il punto di partenza di un percorso ricostruttivo che implica la necessità di una nuova valutazione dei rischi.
Tutto vano, allora? si chiede Amendola.
No, anche le illusioni cognitive possono avere una funzione.
Chiamato a districare “un delicato passaggio in cui si fronteggiavano, da una parte, clamori della piazza che reclamava scudi penali, e d’altro canto il timore di pregiudicare la tutela della salute dei lavoratori, il Governo ha optato per una formula di mediazione, in larga parte ricognitiva, ma comunque rassicurante, perché anche le illusioni cognitive procurate sanno esserlo”.
Ritiene positiva anche la spinta maieutica a contenere la logica semplificatoria del giudizio ex post, in cui poche o molte volte scivola la giurisprudenza, applicando ad eventi passati conoscenze scientifiche e rimedi tecnici successivamente emersi; anticipa, come esporrà più diffusamente nella parte dedicata alla responsabilità penale, che l’avvenuta osservanza dei protocolli condivisi potrebbe, nella fase preliminare delle indagini, giovare al datore rendendo diabolica la prova dell’addebito imputabile. Ricorda che anche l’Inail con la circolare del maggio 2020 aveva riconosciuto che la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da Covid - 19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’art.1, comma 14, del d.l. 16 maggio 2020 n. 33.
Conclude su questa parte che il giurista ha sempre il compito di trovare soluzioni che siano coerenti con il sistema ordinamentale su cui la sopravvenienza impatta, ed a questo fine principi già consolidati nell’ordinamento possono essere utili ad attenuare le preoccupazioni del mondo datoriale, specie quelli relativi allo stigma penale, con conseguenze a volte devastanti, quali il sequestro di impianti e la paralisi produttiva.
E da qui inizia più propriamente la pars costruens, basata sulla chiara esposizione dei principi tradizionali che governano la responsabilità penale e poi, separatamente, quella civile.
Per la responsabilità penale parte dai consolidati principi sull’accertamento della causalità penale enunciati dalla giurisprudenza, a partire dalla famosa sentenza Franzese (Sez. un. penali 33128 del 2002). E qui conviene seguire più fedelmente il testo di Amendola, per l’importanza del percorso tracciato e dei principi affermati. Sul pubblico ministero che voglia affermare la responsabilità penale del datore incomberà un compito arduo, lungo un itinerario accidentato. In primo luogo dovrà fornire una dimostrazione che la contaminazione sia avvenuta all’interno dell’ambiente di lavoro e non altrove; in considerazione dell’ampia diffusione ubiquitaria del virus, della sua elevata capacità di trasmissione, delle plurime occasioni di contagio durante l’ordinaria vita quotidiana in ambito familiare, la prova, che nella materia penale deve essere al di là di ogni ragionevole dubbio, potrebbe rivelarsi tutt’altro che facile e, nel caso di dubbio ragionevole, il datore risulterebbe indenne da responsabilità. Siamo mille miglia lontani dalla prova presuntiva sufficiente in ambito previdenziale.
Deve poi accertarsi che l’evento lesivo sia completamente riconducibile ad una condotta propria del soggetto garante del rischio, ricostruendo in modo rigoroso la concatenazione causale ed elidendo la possibilità di attribuire all’agente un fatto a lui non riferibile.
Solo a questo punto, una volta acclarata la sussistenza dei nessi causali naturalistici sopra esposti, si porrà la questione della colpa per violazione di norme cautelari a presidio della evitabilità dell’evento lesivo. Occorrerà accertare che l’evento derivi proprio dalla violazione della regola cautelare posta a carico del datore di lavoro, un nesso per nulla scontato, perché non ogni singolo episodio di mancato rispetto di una misura di sicurezza può tradursi automaticamente nella causa dell’infezione di quel determinato lavoratore poi ammalatosi.
Quanto alla individuazione della regola cautelare applicabile, Amendola insiste che dovrà evitarsi che lo standard dell’agente modello sia desunto ex post in virtù della completa conoscenza dei fatti; si dovrà cioè rifuggire da quella distorsione cognitiva che condiziona qualsiasi soggetto giudicante che sia chiamato a valutare la prevedibilità ed evitabilità dell’evento quando sia nota la sua verificazione.
In definitiva, con tali premesse, Amendola sostiene la estrema difficoltà di configurare una responsabilità penale del datore per il contagio da Covid-19, ed afferma che gli studi specialistici convergono su tale conclusione.
Passando al versante della responsabilità civile del datore, anche qui Amendola indica diversi fattori di sdrammatizzazione.
In primo luogo ricorda il consolidato principio secondo cui l’art. 2087 non configura una responsabilità oggettiva, ma nel contempo riconosce il rischio che questa affermazione si traduca in una declamazione di principio, a causa di una visione oltremodo severa e occhiuta in sede applicativa, e forse la stessa ossessiva ripetitività della premessa tralaticia tradisce e intende parare questa eventualità. Al riguardo Amendola ritiene ragionevole escludere la responsabilità civile ove il datore abbia fatto accurata applicazione delle misure indicate nei protocolli, adattate alle specificità aziendali, in quanto espressione delle migliori conoscenze scientifiche; aggiungiamo noi al momento della redazione dei protocolli, e salve ovviamente le misure protettive successivamente emerse, come il vaccino.
In secondo luogo grava sul lavoratore l’onere di provare i nessi causali, e cioè che il contagio è avvenuto sul luogo di lavoro e non altrove, come dato di partenza ineludibile di qualsiasi analisi di concatenazione causale, con tutto il carico di difficoltà probatoria correlato ad una malattia a diffusione virale presente in ogni dove.
C’è poi da considerare la regola dell’esonero, per cui la responsabilità civile sussiste solo in caso che il comportamento del datore, o meglio del garante della sicurezza, costituisca un reato perseguibile d’ufficio.
Infine l’ammontare del danno civilistico va ridotto, anche d’ufficio, per la quota-parte coperta dall’assicurazione obbligatoria, anche nel caso che non vi sia stato indennizzo dell’Inail (sent. 9166/2017). Ma questo argomento ci sembra francamente debole, perché sono rari i casi di responsabilità civile nei quali non vi sia indennizzo dell’Inail, e pertanto quello che il datore non paga al lavoratore lo deve rimborsare all’Inail con l’azione di regresso (Sez. un. 22.5.2018 n. 12566).
In conclusione, partito dalla critica delle illusioni cognitive, Amendola perviene ad una risposta decisa nell’ambito del quadro giuridico tradizionale, e questo risultato è tanto più rassicurante, provenendo da una fonte tanto autorevole. Per dirla con le sue parole, anche in ambito civilistico l’esatta visione del problema, all’interno di principi consolidati del sistema, costituisce il vaccino idoneo a creare gli anticorpi sufficienti a proporre soluzioni adeguate pure in condizioni di emergenza pandemica.
Il dibattito sui vari aspetti problematici, in campo giuridico, del coronavirus, all’inizio caratterizzato dalla prevalenza di accenti di grande perplessità, si sta orientando così, anche con il contributo di Amendola, verso risposte più positive e costruttive.
La recente ordinanza del Tribunale di Belluno che ha riconosciuto il diritto-dovere del datore di lavoro di allontanare gli infermieri che rifiutano il vaccino, ne è un primo risultato, ed è significativo che l’ordinanza colleghi l’onere del vaccino non alle mansioni specialistiche di infermiere, ma più in generale all’aggravamento del rischio originato dal fatto di essere “impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro”.
Si conferma così la insopprimibile funzione di interpretazione, integrazione e, talvolta, supplenza dei giudici.
I tempi di edizione non hanno consentito di assistere alla nascita del decreto legge 44/2021, che ha istituito l’obbligo di vaccinazione anti-covid per i sanitari, ma non abbiamo dubbi che Amendola, con il suo approccio equilibrato e costruttivo, lo avrebbe apprezzato, e magari collocato in un quadro sistematico più ampio.

 

 

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