Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa.
Nel presente scritto non si mira a compiere una completa e puntuale esegesi del recente d.lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, di riforma del lavoro sportivo , la massima parte delle cui disposizioni è oltretutto destinata ad entrare in vigore solo il 31 dicembre 2023 .
Piuttosto, l’obiettivo è di guardare, attraverso la lente dell’elemento causale, alle fasi dell’evoluzione del rapporto di lavoro sportivo, trasformatosi nel tempo da un vincolo di status ad una relazione contrattuale oggetto di una disciplina speciale.
In origine, la matrice ludico-ricreativa dell’attività sportiva aveva in effetti indotto, nel silenzio del legislatore, buona parte degli interpreti ad escludere in radice che il legame di affiliazione sportiva potesse assumere una natura contrattuale e, segnatamente, dare luogo ad un rapporto di lavoro (v. par. 2).
In un secondo momento, la l. n. 91/1981, sulla scia di alcuni importanti arresti della giurisprudenza e delle sollecitazioni della migliore dottrina, aveva introdotto una normativa ad hoc per gli sportivi professionisti, lasciando tuttavia i dilettanti, compresi coloro i quali praticavano l’attività sportiva dietro compenso (ma) nei settori non qualificati come professionistici dalle rispettive federazioni, sostanzialmente sprovvisti di tutela, fatta salva l’applicazione – non senza ostacoli, di carattere giuridico e soprattutto ambientale – del diritto del lavoro “generale” (v. par. 3).
A porre rimedio a tale squilibrio è da ultimo intervenuto proprio il d.lgs. n. 36/2021, che, nella logica universalistica già propria della c.d. “giurisprudenza Bosman” della Corte del Lussemburgo (v. par. 4), ha, innanzitutto, regolato la fattispecie trans-tipica del lavoratore sportivo, il cui carattere discretivo è lo scambio tra una prestazione sportiva (lato sensu) ed un corrispettivo.
Attorno a tale figura è stata articolata una disciplina a geometria variabile, variamente modulata a seconda della natura (subordinata, autonoma e/o etero-organizzata) e del contesto (professionistico o dilettantistico) ove l’attività sportiva è destinata a svolgersi (par. 5).
Al contempo, il legislatore del 2021 ha identificato una diversa figura, quella dell’amatore, caratterizzata dalla causa solidaristico-sociale della prestazione e destinataria di apposite regole di matrice protettiva e anti-fraudolenta (v. par. 6).
Come si avrà modo di evidenziare nelle conclusioni (v. par. 7), la tecnica da ultimo adottata nella regolazione del lavoro sportivo costituisce un importante esperimento per il diritto del lavoro tout court, vista l’innovativa scelta di prediligere una dimensione olistica nell’allocazione dei diritti e delle responsabilità delle parti, senza al contempo travolgere la tradizionale distinzione tra subordinazione ed autonomia e, in ambito sportivo, tra settori professionistici e dilettantistici.
2. Tra gioco e lavoro: l’affiliazione sportiva anteriormente alla l. n. 91/1981
Come già accennato, sino alla l. 91/1981 non era vi era alcuna normativa di matrice lavoristica che regolasse la relazione tra gli atleti (e le atlete) e i sodalizi sportivi.
Anzi, ad avviso di una parte della giurisprudenza, l’affermazione della personalità individuale, propria dell’attività sportiva, sarebbe penetrata nella causa di tale rapporto, quand’anche di natura onerosa. Da ciò sarebbe disceso che la prestazione sportiva non avrebbe potuto divenire oggetto di un contratto di lavoro . A sostegno di tale tesi, si era osservato come le parti del legame di affiliazione sportiva fossero primariamente orientate verso il risultato sportivo, di comune interesse, prima che verso lo scambio tra prestazioni corrispettive . Del resto, lo stesso obbligo di affiliazione alla federazione di appartenenza e, soprattutto, il celebre “vincolo” di affiliazione, che non consentiva all’atleta di sciogliere unilateralmente il legame sine die con il sodalizio sportivo, parevano tratti caratteristici di uno status piuttosto che di una libera relazione negoziale .
Tuttavia, con la trasformazione dello sport in un fenomeno di massa e con la rilevanza economica progressivamente dallo stesso assunta a partire dalla seconda metà del secolo scorso, l’idea di un’intrinseca contrapposizione tra homo faber e homo ludens non poteva non divenire oggetto di ripensamento .
Così, tra le prime voci espressesi a favore della riconducibilità del rapporto tra gli atleti e i sodalizi sportivi ad una relazione di natura negoziale, vi è stato chi ha parlato di un contratto innominato o di un contratto atipico di “ingaggio”, comunque rientrante nell’alveo del lavoro autonomo .
Eppure, come affermato dalla giurisprudenza prevalente , non vi erano valide ragioni per escludere che, laddove l’atleta fosse stato assoggettato ai poteri tipici di una collaborazione di carattere subordinato, il relativo rapporto (di lavoro) potesse – o, meglio, dovesse – essere riqualificato ex art. art. 2094 c.c. .
Rimaneva però il problema della disciplina applicabile, visto che le stesse pronunce che avevano accertato la subordinazione dell’atleta avevano incontrato delle difficoltà nel riconoscere a favore di quest’ultimo l’intero apparato protettivo del diritto del lavoro “classico” .
Il lavoro sportivo, evidentemente, necessitava di opportuni adeguamenti, tanto da rendere improprio, se non addirittura impossibile, il ricorso alla tecnica regolativa dell’assimilazione in toto al diritto del lavoro nell’impresa .
3. La l. n. 91/1981 e la summa divisio tra i professionisti e i dilettanti
Agli albori degli anni ’80, una pronuncia della Pretura di Milano, censurando il contrasto tra la disciplina del trasferimento dei giocatori dietro pagamento di un indennizzo (il c.d. calciomercato) e la normativa sul collocamento (l. 29 aprile 1949, n. 264), costringeva il legislatore a prendere con urgenza una posizione sulla natura delle attività oggetto di cessione .
Dopo avere in un primo tempo tamponato la “falla” attraverso il consueto richiamo all’autonomia del diritto sportivo ed alla conseguente inapplicabilità della disciplina generale sul lavoro subordinato (d.l. 14 luglio 1978, n. 367) e, segnatamente, del collocamento di manodopera (l. 4 agosto 1978, n. 430, di conversione del d.l. n. 367/1978), il Governo decideva di affrontare di petto la questione della qualificazione del rapporto di lavoro degli atleti, scegliendo di optare, all’art. 4 del d.d.l. n. 400 del 1978, per la riconduzione della prestazione entro l’alveo del lavoro autonomo ed in particolare della collaborazione coordinata e continuativa.
Tuttavia, nel corso della discussione parlamentare del disegno di legge governativo lo scenario mutava radicalmente e, per effetto degli emendamenti presentati alla Camera dei Deputati, emergeva all’opposto una chiara predilezione, poi accolta nel testo della l. 91/1981, per la riconduzione delle prestazioni al lavoro subordinato .
In realtà, la questione si presentava maggiormente articolata, visto che, come osservato in dottrina, la l. n. 91/1981 appariva sì divisa in due “mondi” , ma questi non andavano identificati, come nella tradizione del diritto del lavoro, nel lavoro subordinato e nel lavoro autonomo, bensì nel professionismo, cui il provvedimento normativo si rivolgeva, e nel dilettantismo, che viceversa restava al di fuori del cono d’ombra della riforma.
La l. n. 91/1981 aveva infatti riguardo al solo rapporto di lavoro degli sportivi professionisti, ossia di coloro – atleti, allenatori, direttori tecnico-sportivi e preparatori atletici – i quali fornivano la propria prestazione a favore dei sodalizi sportivi i) con carattere di continuità, ii) a titolo oneroso e, soprattutto, iii) nell’ambito dei settori sportivi qualificati dalle Federazioni come professionistici .
L’opzione di fondo a favore del lavoro dipendente, largamente tributaria della “matrice calcistica” della l. n. 91/1981 , emergeva chiaramente dalla presunzione di subordinazione operante a favore degli atleti (ovviamente, professionisti) , nonostante la legge stessa ammettesse, all’art. 3, la possibilità di qualificare la prestazione come autonoma i) laddove questa si svolgesse nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o per più incontri ravvicinati nel tempo, ovvero ii) nei casi in cui l’atleta non fosse convenzionalmente vincolato a prendere parte alle sedute di preparazione o allenamento, o, ancora, iii) qualora la prestazione dedotta in contratto, pur continuativa, non superasse la durata di otto ore settimanali, di cinque giorni ogni mese o di trenta all’anno di durata.
La conseguenza della riconduzione della prestazione lavorativa (subordinata) al professionismo sportivo era l’applicazione di una disciplina ampiamente derogatoria rispetto al diritto del lavoro nell’impresa (v. artt. 4, 5, 7, 8, 9 l. n. 91/1981) , in larga parte poi mutuata, come si vedrà infra, dal d.lgs. n. 36/2021.
Tuttavia, nel rimettere alle Federazioni, sia pure conformemente alle direttive del C.O.N.I. e degli organismi sportivi internazionali , la scelta di quali attività sportive rientrassero nel professionismo, la normativa del 1981 finiva per escludere dal proprio ambito protettivo le atlete e gli atleti c.d. “professionisti di fatto”, i quali, non inquadrabili come professionisti sulla scorta delle regole federali (perciò dilettanti ai sensi della l. n. 91/1981 ), svolgevano pur sempre una prestazione lavorativa a titolo oneroso e con le modalità proprie del lavoro subordinato (o autonomo) .
In altri termini, l’accesso alle tutele ex l. n. 91/1981 veniva condizionato da un fattore esterno ed astratto (la decisione della Federazione), in quanto tale privo di legami con la causa del rapporto di lavoro .
L’iniquità o irragionevolezza di tale soluzione, vagamente assimilabile al beneficio dell’ecclesiastico , non si percepiva tanto sul piano dell’intensità delle tutele in astratto invocabili, visto che lo sportivo dilettante (recte, “professionista di fatto”) avrebbe comunque potuto agire in giudizio per rivendicare la natura subordinata della prestazione ex art. 2094 c.c. ed avere così accesso ad un apparato protettivo che, per certi versi, poteva risultare anche più ampio di quello appannaggio dello sportivo professionista ex l. 91 n. 81/1981 .
Concretamente, però, la realtà appariva diversa.
Da un lato, alla luce delle clausole degli statuti delle federazioni , avanzare le proprie pretese innanzi alla giustizia ordinaria significava entrare in rotta di collisione con le regole dell’ordinamento sportivo e, soprattutto, “rompere” con un ambiente da sempre incline ad “abitudini e compromessi” .
Dall’altro lato, non risultava agevole comprendere, in assenza di un contratto-tipo o di un settore merceologico in qualche modo affine, quali diritti spettassero al “professionista di fatto” il cui rapporto fosse stato riqualificato come subordinato in sede giurisdizionale. Al contrario, restando tra i dilettanti, si poteva spesso contare sui – fiscalmente assai convenienti – “premi” e “rimborsi” che venivano garantiti dagli “accordi economici” ammessi dalle stesse federazioni le quali (solo in apparenza, paradossalmente) negavano che tra l’atleta e la società sportiva potesse intercorrere un rapporto di lavoro .
4. La “breccia-Bosman” e la sua eco nella l. delega n. 86/2019 di riforma dello sport.
A latere del dibattito interno circa la scarsa ragionevolezza della dicotomia professionisti-dilettanti accolta nella l. n. 91/1981, a mettere (definitivamente) in crisi tale dualismo – oltre che, in apicibus, l’idea della sostanziale impenetrabilità dell’ordinamento sportivo – è stata indubbiamente la Corte di Giustizia dell’Unione Europea , attraverso una serie di decisioni la più nota delle quale è sicuramente quella resa nel caso Bosman .
Secondo la Corte del Lussemburgo, la nozione europea di lavoratore (sportivo e non) non può ammettere che un elemento esterno al rapporto condizioni l’accesso alle guarentigie – tra cui la libertà di circolazione – rientranti nel cono d’ombra del diritto europeo : ciò che conta è unicamente che vi sia uno scambio tra una prestazione suscettibile di valutazione economica ed un compenso .
Ciò impone di focalizzarsi, almeno rispetto ai diritti garantiti a livello Ue, sugli elementi interni al contratto (i.e. sulla causa) e non già su quelli esterni ad esso, tra i quali, appunto, la decisione della Federazione sportiva in punto di inquadramento professionistico o dilettantistico dell’attività in questione.
Se si legge con attenzione la parte dedicata ai principi e criteri direttivi della legge delega n. 86/2019, con cui il Governo è stato chiamato ad operare una riforma del lavoro sportivo in Italia , emerge chiaramente come la riforma italiana abbia inteso porsi sulla scia del giudice Europeo , decidendo di avere riguardo, ai fini dell’allocazione dei diritti secondo la normativa – non più non solo Ue, bensì anche – interna, proprio alla causa del rapporto di lavoro.
Tale obiettivo sarebbe stato perseguito, come si legge tra i principi e i criteri direttivi del futuro intervento del legislatore delegato elencati all’art. 5 della l. n. 86/2019, mediante “l’individuazione della figura del lavoratore sportivo”, destinatario, “indipendentemente dalla natura dilettantistica o professionistica dell’attività sportiva svolta”, di una specifica disciplina , che avrebbe dovuto tenere conto delle peculiarità della prestazione sportiva, come pure dell’ordinamento sportivo in generale .
5. La figura trans-tipica del lavoratore sportivo ex art. 25 d.lgs. n. 36/2021
Coerentemente con le indicazioni contenute nella legge delega, il “pilastro” del Titolo V del d.lgs. n. 36/2021 è la figura del lavoratore sportivo, nel cui alveo, ai sensi dell’art. 25 del decreto in parola, rientrano l’atleta, l’allenatore, l’istruttore, il Direttore Tecnico, il Direttore Sportivo, il Preparatore Atletico e il Direttore di gara , che, senza distinzione di genere e indipendentemente dal settore (professionistico o dilettantistico), eserciti un’attività sportiva verso un corrispettivo, al di fuori delle prestazioni amatoriali .
È bene sin da subito mettere in chiaro che il lavoratore sportivo è una figura trans-tipica e non un tipo contrattuale in senso stretto.
Come statuito al comma 2 dell’art. 25 d.lgs. n. 36/2021, infatti, l’attività di lavoro sportivo può costituire oggetto, ricorrendone i presupposti, di un rapporto di lavoro subordinato (anche a causa mista: v. l’apprendistato ed il relativo regime speciale ex art. 30 d.lgs. n. 36/2021), di un rapporto di lavoro autonomo (anche nella forma delle co.co.co. e fatta comunque salva l’applicazione dell’art. 2 d.lgs. n. 81/2021 ), nonché di una prestazione occasionale ex art. 54-bis d.l. n. 50/2017 (comma 4) .
Non è un caso che, essendo la fattispecie trans-tipica, la disciplina del lavoro sportivo si presenti articolata secondo una geometria variabile : ad una disciplina comune , si affiancano le numerose disposizioni che prevedono una tutela differenziata tra i professionisti e i dilettanti , nonché tra gli autonomi e i subordinati .
Proprio al rapporto di lavoro subordinato sportivo è dedicato il successivo art. 26 del d.lgs. n. 36/2021, che, da un lato, contempla, attraverso una tecnica normativa “per sottrazione” , l’inapplicabilità a tale figura di numerose disposizioni statutarie e della normativa in materia di licenziamento (individuale e collettivo) , dall’altro lato, introduce alcune deroghe rispetto alla disciplina generale in materia di contratto a tempo determinato , di limiti convenzionali nell’accesso alla giurisdizione statuale e di patti di non concorrenza .
Sotto questo aspetto, la novità rispetto alla l. 91/1981 non risiede tanto nella disciplina in sé, quanto nella relativa estensione ai subordinati non professionisti .
Ciò, secondo una parte della dottrina, porrebbe dei dubbi rispetto alla sostenibilità e all’equilibrio finanziario, i quali rientravano tra gli obiettivi della legge delega .
Si potrebbe tuttavia replicare che, giusto l’insegnamento della Corte del Lussemburgo, laddove l’atleta ed il sodalizio sportivo si impegnino a scambiare una prestazione lavorativa in cambio di un compenso, quest’ultima perde i caratteri ideali, solidaristici e, in ultima analisi, amatoriali , i quali soli ne possono giustificare, così come in ogni altro settore di attività, il mancato assoggettamento alle regole del mercato .
Oltretutto, il d.lgs. n. 36/2021 tiene conto della peculiarità dei settori professionistici, visto che isola, all’art. 27, la figura – o “sotto-tipo” – dello sportivo professionista. Quest’ultimo diviene così il destinatario di una regolamentazione ad hoc, la quale ricalca, con gli opportuni adeguamenti, le soluzioni già adottate dalla L. n. 91/1981, in punto di presunzione di subordinazione del lavoro prestato dagli atleti come attività principale, ovvero prevalente, e continuativa , di vincoli di forma e di contenuto del contratto di lavoro.
6. Lo sportivo amatore ex art. 29 d.lgs. n. 36/2021
Come già rilevato in apertura, la distinzione fondamentale nell’architettura del d.lgs. n. 36/2021 non è (più) tra i professionisti e i dilettanti, bensì tra i lavoratori sportivi ex art. 25 e gli amatori ex art. 29.
Quest’ultima disposizione consente alle società e alle associazioni sportive dilettantistiche, alle Federazioni Sportive Nazionali, alle Discipline Sportive Associate e agli Enti di Promozione Sportiva riconosciuti dal CONI di avvalersi, nello svolgimento delle proprie attività istituzionali, di amatori, i quali mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità, comprensive dello svolgimento diretto dell'attività sportiva, nonché della formazione, della didattica e della preparazione degli atleti, per promuovere lo sport, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ma esclusivamente per finalità amatoriali.
È evidentemente che è sul piano della causa che si fonda la distinzione tra la figura del lavoratore sportivo, il quale svolge una prestazione lavorativa (sportiva) in cambio di un compenso, e quella dell’amatore, che, non diversamente dal volontario ex art. 17, comma 2, d.lgs. 117/2017 (Codice del Terzo Settore) , presta la propria attività per finalità ideali o solidaristiche .
Proprio a garanzia della genuinità di tali scopi , viene fissato il divieto di “retribuire” le prestazioni sportiva amatoriali, pur essendo ammessi “premi e compensi occasionali, in relazione ai risultati ottenuti nelle competizioni sportive, nonché indennità di trasferta e rimborsi” .
Tali erogazioni dovranno però essere contenute nel limite annuo di 10 mila euro , il cui superamento prevede la sanzione espressa della riconduzione delle prestazioni nell’alveo del lavoro sportivo e della relativa disciplina, anche fiscale.
A tale proposito, si è osservato in dottrina che l’importo annuo indicato sia espressivo della volontà politica di fissare il confine tra lo sportivo e l’amatore mediante il ricorso ad un parametro di tipo quantitativo . A rigore, tuttavia, non parrebbe possibile escludere, vista la centralità dell’elemento causale nell’individuazione della figura del lavoratore sportivo, che una prestazione resa in via continuativa e – non per scopi ideali, bensì – in cambio di un compenso rientri, quand’anche “sotto-soglia”, nel lavoro sportivo ex art. 25 d.lgs. n. 36/2021. D’altro canto, se è vero che, coerentemente con la dimensione olistica abbracciata dalla riforma del lavoro sportivo, anche gli amatori risultano destinatari di alcune tutele, tra cui l’assicurazione obbligatoria per i danni a terzi e per gli infortuni , le stesse risultano di portata indubbiamente – ed ovviamente – inferiore rispetto alle guarentigie riconosciute a favore dei lavoratori sportivi. Proprio per questo, vista la pressoché inevitabile convivenza di lavoratori sportivi e di amatori nelle società dilettantistiche (per di più, in una proporzione non predeterminata dal legislatore) , sarà vitale, al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni in esame, scongiurare, attraverso la cernita del requisito quantitativo (soglia reddituale annua) e pure qualitativo (profilo causale), il ricorso alle prestazioni amatoriali in ambito sportivo per scopi fraudolenti o, comunque, contrari allo spirito lavoristico della riforma.
7. Conclusioni
In definitiva, è possibile affermare che la l. n. 86/2019 e, soprattutto, il d.lgs. n. 36/2021 hanno segnato la definitiva entrata del lavoro sportivo all’interno della “casa” del diritto del lavoro ed il suo affrancamento dal polo originario di attrazione del lavoro sportivo .
Ciò peraltro non dovrebbe stupire, visto che, come scriveva Matteo Dell’Olio a commento della l. n. 91/1981, la “casa del diritto del lavoro…è [sempre più] ampia”, tanto che la sfida sarebbe piuttosto trovare “un posto adeguato” affinché il lavoratore sportivo “non venga schiacciato dalle mura della stessa casa, né le faccia esplodere” .
Se è vero che, attraverso l’individuazione della figura trans-tipica del lavoratore sportivo, si è usciti dallo schema binario (professionisti vs. dilettanti) su cui si fondava la l. n. 91/1981, è altresì vero che la disciplina contenuta negli art. 25 e ss. del d.lgs. 36/2021 ricalca in più punti la regolazione precedente, che, del resto, la legge delega n. 86/2019 si poneva l’obiettivo di “razionalizzare” e non di travolgere.
D’altro canto, la marcata specialità del lavoro sportivo difficilmente avrebbe consentito l’estensione dell’intero apparato protettivo del lavoro nell’impresa, come l’esperienza precedente all’entrata in vigore della l. 91/1981 aveva ampiamente dimostrato.
Al contempo, non è affatto escluso che l’entrata in vigore del Titolo V del d.lgs. n. 36/2021, dedicato appunto al lavoro sportivo, provocherà un incremento del contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro sportivo ed è probabilmente per questa ragione che il legislatore delegato ha deciso di “scommettere” sul ruolo deflattivo dell’istituto della certificazione dei contratti di lavoro, che potrà avvalersi degli indici individuati dalla contrattazione collettiva ai sensi del comma 3 dell’art. 25 d.lgs. n. 36/2021. Tale questione, così come quella, speculare, concernente il genuino ricorso al volontario in ambito sportivo (si allude, naturalmente, alla figura dello sportivo amatore ex art. 29 d.lgs. n. 36/2021), si porrà, tuttavia, non prima del 31 dicembre 2023.
L’avvenuto completamento dell’iter della riforma del lavoro sportivo consente però di formulare comunque una chiosa finale di taglio trasversale. Agli occhi di chi scrive, infatti, l’intervento del legislatore del 2021 assume, sul piano della tecnica regolativa, un’importanza che trascende il “campo sportivo”, potendo rappresentare un ulteriore, significativo passo nel percorso di superamento della tradizionale costruzione polarizzata delle tutele lavoristiche, a favore di una disciplina a geometria variabile di matrice universalistica, la quale non è escluso che costituisca la cifra del diritto del lavoro del prossimo futuro.