1. Premessa.
Desidero non sottrarre spazio ai relatori di questo bell’incontro, che peraltro si tiene nella cornice splendida di quest’aula sul Canal Grande di Venezia. Dunque, introduco i lavori limitandomi a poche considerazioni, un poco più ampie solo per i due interventi della prima sessione, in quanto provengono dalla mia stessa sede bolognese del progetto di ricerca che finanzia queste due giornate. Invece, per le sessioni seconda, terza e quarta, i sei relatori sono affidati alle sapienti cure rispettivamente dei discussant Prof. V.Maio, V.Nuzzo e C.Spinelli, oltrechè del prof. Perulli che presiederà alle conclusioni dell’evento.
Colgo l’occasione in premessa per spendere qualche parola di presentazione del progetto. Questo incontro segna il raggiungimento della metà del progetto stesso, ossia il primo biennio (benché i Prin abbiano durata triennale, è noto che il bando ministeriale prevede un quarto anno di c.d. disseminazione dei risultati durante il quale può completarsi la pubblicazione dei contributi da parte dei partecipanti al progetto stesso). Tengo a ringraziare per i loro contributi i membri delle 4 unità di ricerca del progetto, ossia le sedi di Bologna, Napoli Federico II, Udine, oltreché Venezia che ci ospita oggi. Merita ricordare che partecipano anche Colleghi di università ulteriori, come il bando Prin permette: ad esempio l’unità di ricerca bolognese include la prof.ssa Francesca Marinelli dell’Università statale di Milano che peraltro coordinerà la mattinata di domani.
Nel complesso gli interventi e le relazioni presentati in diversi eventi da parte di partecipanti al Prin sono stati una decina nel primo anno, e sono già oltre una ventina durante questo secondo anno. Ancor più numerose sono le pubblicazioni targate Prin edite durante questo secondo anno, anche contando solo quelle in open access. A proposito delle opportunità ma anche delle difficoltà derivanti dall’obbligo di rispettare il requisito ministeriale dell’open access per le pubblicazioni nell’ambito dei prin, il sottoscritto è già intervenuto in altra sede, ossia il seminario bolognese cosiddetto di Bertinoro del mese scorso, quindi non serve qui ripetersi. Nondimeno merita sottolineare che la fondamentale funzione dei Prin di incoraggiare la ricerca da parte delle giovani generazioni di studiosi rischia talora di essere ostacolata dalla necessità di rispettare il requisito dell’open access, perlomeno in un contesto come quello attuale dell’area giuridica, nel quale molte delle riviste più accreditate non sono open access.
In sintesi, la clausola del bando ministeriale dei Prin lascia i membri dei progetti e i loro coordinatori pressoché in solitudine nell’affrontare un dialogo non sempre facile con gli editori commerciali, i quali in proposito hanno le loro ragioni. Difatti, le impostazioni più rigide presenti in taluna normativa sopranazionale sull’open access esautorano completamente l’editore dalla possibilità di riservare al proprio sito web l’accesso aperto dei singoli contributi, sicché non solo l’opera è accessibile da chiunque, ma anche lo è su qualunque sito che parallelamente (in concorrenza) all’editore voglia creare archivi, anche con scopo di lucro. Inoltre, le accezioni più oltranziste dell’open access impediscono all’autore anche l’inserimento del benché minimo vincolo tecnico ai file degli articoli e delle monografie messi in condivisione: financo il blocco della funzione “copia-incolla” del file pdf. Sarebbe inoltre utile interrogarsi su quali siano le conseguenze, in termini di diritto d’autore (ad esempio per le eventuali traduzioni) delle licenze d’uso più aperturiste, che molte università incoraggiano gli autori ad adottare all’atto dell’archiviazione dei repository delle anagrafi della ricerca d’ateneo.
A proposito del titolo del progetto, chiarisco che l’espressione “Dis/connessione” va intesa come riferita al rischio di distacco tra lavoro e diritti nell’era digitale in generale. Ossia il progetto non è ovviamente limitato al solo tema della “disconnessione” al termine dell’orario lavorativo, fermo restando che anche quest’ultimo tema è rilevante ai fini del progetto stesso. Tant’è che qualcuno dei membri del progetto se ne sta occupando, anche dal punto di vista comparato.
Stante la novità del complessivo fronte di ricerca che fu proposto al Ministero nel 2017, ossia l’impatto delle tecnologie digitali in ambito giuslavoristico, questo è un progetto ad ampio spettro, che vuole lasciare alle unità ed ai singoli membri ampio margine nella individuazione delle personali linee di indagine. Il progetto non propone un lavoro di squadra per un carotaggio completo di un singolo aspetto della vasta macro-area di studio proposta. La scelta di focalizzare plurimi temi dell’area d’indagine scelti soprattutto dai singoli partecipanti nasce anche dal fatto che è un Prin di dimensione piccola, come numero delle risorse umane e soprattutto come finanziamento. L’intero nostro progetto ha dimensione equivalente a una singola unità degli altri progetti di maggiori dimensioni risultati vincenti nella tornata Prin 2017 e nella più recente tornata la cui graduatoria ministeriale è stata resa nota alla fine dello scorso anno.
Nella allocazione delle risorse, come Prin stiamo dando massima attenzione a finanziare il reclutamento di giovani ricercatori, anche perché è un parametro importante secondo i criteri ministeriali non solo di valutazione ex ante dei progetti, ma pure ex post delle relazioni annuali e finali di rendicontazione scientifica. Finanziare posti da Rtdb non è possibile e, inoltre, finanziare Rtda è sostanzialmente impossibile, giacché un solo posto costerebbe come l’intero nostro progetto. Quindi stiamo puntando sul finanziamento di assegni di ricerca, soprattutto nell’unità bolognese che ha la responsabilità di coordinamento, nella quale verranno banditi complessivamente tre assegni, grazie anche al fatto che l’Università di Bologna offre un cospicuo premio di cofinanziamento ai progetti che portano risorse dall’esterno dell’Ateneo.
Ma veniamo ora ai temi di queste due giornate veneziane, che sono organizzate su 4 sessioni caratterizzate su base non tematica bensì geografica, in quanto si intende così offrire qualche suggestione relativa alle ricerche che stanno venendo portate avanti appunto nelle 4 unità.
2. Spunti sulla responsabilità extracontrattuale per danni a terzi, in particolare nei sinistri stradali dei riders.
La prima in lista oggi è l’Unità bolognese, che ha una connotazione interdisciplinare, all’interno dell’area giuridica, tanto che il primo dei due assegni di ricerca bolognesi che è stato bandito, lo scorso anno, riguarda il tema civilistico del “Rischio e responsabilità civile nell’articolazione dei modelli di lavoro dipendente della rivoluzione digitale, tra criteri di imputazione e costo sociale dell’illecito”. Di ciò tratta oggi la dott.ssa Elena Guardigli, dando conto di un suo approfondito contributo, sotto la supervisione del tutor prof. Marco Martino, collega di diritto privato nel Dipartimento bolognese medesimo. Il tema è di ampia portata teorica e, al contempo, di grande attualità.
Difatti l’applicazione della responsabilità ex art. 2049 c.c. dei padroni e committenti porta a conseguenze non di rado insoddisfacenti, in parecchi ambiti lavoristici. Come si dà conto nel contributo, per alcuni ambiti settoriali come la responsabilità medica il legislatore è da poco intervenuto. Orbene, tra gli ambiti problematici va sicuramente annoverato il lavoro dei riders, trattandosi di attività che si svolge mediante circolazione stradale, quindi ad altissimo rischio non solo per i lavoratori stessi, ma pure per i terzi eventualmente danneggiati. In merito alle questioni infortunistiche, in chiave tanto prevenzionistica quanto assicurativo-previdenziale, è intervenuto il legislatore prima e l’Inail poi, anche per quanto riguarda le tariffe dei premi. La questione che invece qui interessa è la tutela dei terzi danneggiati dal sinistro stradale, i quali non hanno un previo rapporto contrattuale né con il lavoratore né con l’imprenditore gestore della piattaforma. Sicché non si applica la responsabilità per fatto degli ausiliari stabilita dall’art. 1228 c.c.
Nondimeno è evidente che i terzi devono ritenersi legittimati a rivolgere l’azione di danno anche nei confronti del gestore della piattaforma. Il punto può dirsi scontato, non solo per le fattispecie riconducibili alla subordinazione lavoristica, ma anche nel caso di vero e proprio lavoro autonomo regolato come tale, data l’evoluzione storica del canone delle responsabilità extracontrattuali a carico dell’imprenditore, da decenni consolidata ormai nel senso di una responsabilità non solo per colpa reale o presunta, ma pure oggettiva per mero rischio d’impresa. Questa è la lettura ormai consolidata dell’art. 2049 c.c.
Come l’Autrice sottolinea, la vera questione, urgente, attiene al diritto di regresso esercitabile dal gestore della piattaforma a carico del rider, stante la responsabilità solidale del lavoratore e della piattaforma. Come già evidenziato in dottrina (Biasi M., Appunti sulla responsabilità vicaria delle piattaforme della On-Demand Economy, in ADL, 2019, spec. 59), il riparto della responsabilità tra questi due co-obbligati è questione non solo delicata, ma che meriterebbe un intervento legislativo, eventualmente mediante un meccanismo assicurativo obbligatorio. Sarebbe sufficiente una qualche clausola legale di limitazione del regresso entro un certo massimale, perlomeno nei casi in cui la responsabilità del rider non sia per accertata colpa grave.
L’opportunità de iure condendo di imporre sulla piattaforma una responsabilità (non meramente vicaria salvo regresso bensì) una responsabilità definitiva dovrebbe essere considerata dal legislatore, per il contesto della circolazione stradale: non solo per la sua grande rischiosità, ma anche per il tipo di responsabilità extracontrattuale che il legislatore codicistico assegna al conducente di un veicolo senza guida di rotaie, biciclette comprese. Come noto l’art. 2054 c.c. presume responsabilità in quote eguali tra conducenti, oltreché una responsabilità piena del conducente sino a prova contraria rispetto ai pedoni. Nei sinistri che si possono verificare in orari serali o notturne, il problema della mancanza di testimoni è frequente, potendo portare a conseguenze talora inique. Né, comunque, dovrebbe lasciarsi a carico del rider l’incombenza di affrontare un contenzioso giudiziario, che, per importi non elevati, potrebbe non interessare nemmeno alla sua stessa compagnia assicurativa r.c. quand’anche il mezzo sia motorizzato quindi dotato d’assicurazione obbligatoria.
Ricordiamoci inoltre che, finché non venga approvato uno degli appositi ddl in discussione, la circolazione stradale delle biciclette non è sottoposta ad assicurazione obbligatoria per la r.c. La questione si collega all’obbligo di targa e casco, su cui in questo scorcio di legislatura la possibilità di consenso parlamentare appare incerta, perlomeno per le biciclette non elettriche, anche perché graverebbe di costi un metodo di mobilità che è il più ecologico, quindi viceversa da incentivare. Inoltre, per le biciclette, in caso di sinistro stradale, nemmeno risulta possibile compilare il modulo di constatazione amichevole; sicché la pratica pre-contenziosa segue la più complessa procedura risarcitoria ordinaria. Perlomeno nei casi in cui la bicicletta è strumento di lavoro, l’introduzione di un obbligo assicurativo sarebbe opportuna. Però il legislatore dovrebbe appunto coinvolgere nei costi di polizza il soggetto che beneficia maggiormente del valore aggiunto creato da questa attività lavorativa, ossia la piattaforma di delivery.
Tale esigenza è evidente al punto che alcune piattaforme offrono a prezzo convenzionato polizze assicurative ai propri rider: ciò è certo meglio di nulla. Tuttavia, questo problema merita una soluzione non di mera autonomia privata bensì legislativa. Se è vero, com’è vero, che il rating dei rider è basato anche sulla tempestività delle consegne, allora deve esistere un contrappeso disincentivante a carico della stessa piattaforma che sollecita siffatta celerità che non di rado può finir per essere ottenuta violando il Codice della strada. Resta fermo che il rider deve rimanere direttamente incentivato a rispettare il Codice della strada e, quindi, deve rimanere limitatamente responsabile per le violazioni. Appare pensabile stabilire un tetto monetario al regresso della piattaforma, salvo conclamati casi di colpa grave da codificare (es. abuso di alcol o sostante stupefacenti, etc.). Viceversa, appare da escludere il tentativo d’immaginare un elenco di violazioni “meno gravi” da ritenere rientranti nell’ordinaria alea quotidiana del rider: qualunque violazione stradale può avere conseguenze gravi, ed anzi evidentemente le ha avute se s’è creato contenzioso.
Un ragionamento de iure condendo potrebbe essere fatto anche con riguardo a un’eventuale introduzione del beneficio dell’escussione preventiva della piattaforma, senza permettere al terzo danneggiato di attivare immediata azione diretta contro il rider. Siffatto accorgimento normativo potrebbe risultare un vero stimolo alla fattiva assunzione di responsabilità prevenzionistica delle piattaforme, le quali certamente possono ottenere molto, dosando sapientemente l’algoritmo in termini di incentivi e disincentivi.
Di certo suggestivo è anche il richiamo, proposto dalla Autrice, alla novellazione dell’art. 2086 c.c. operata dal Codice della crisi, in base alla quale l’imprenditore è tenuto a predisporre un assetto organizzativo adeguato alla natura ed alle dimensioni della sua impresa. Su questa nuova norma sta appuntandosi l’attenzione di parecchi interpreti, con riguardo ad una pluralità di possibili tipologie di responsabilità datoriale e manageriale. Il futuro ci dirà se la giurisprudenza vorrà cogliere questa poliedrica gamma di stimoli.
3. Il contratto di espansione, riformato ed ora rinnovato.
Il secondo assegno di ricerca, bandito dall’Unità bolognese del Prin, concerne ancor più direttamente il s.s.d. lavoristico. Il dott. Leonardo Battista propone una riflessione in tema di gestione delle risorse umane nelle trasformazioni dei processi produttivi, in particolare causate dall’impatto della digitalizzazione. Nel paper l’attenzione viene rivolta non solo al tema della formazione professionale, ma anche a quello delle eccedenze di personale; però non in termini di puro e semplice licenziamento, ossia nello scritto non viene affrontata la tradizionale questione del licenziamento cosiddetto tecnologico, né quella meno tradizionale del licenziamento cosiddetto a scopo di profitto, che comunque assume rilevanza nella prospettiva della digitalizzazione delle aziende. L’attenzione dell’Autore viene invece concentrata sulla recente riscrittura della disciplina legislativa del “Contratto di espansione”, di cui all’art. 41 del d.lgs. n. 148/2015. Questo istituto è stato introdotto dall’art. 26-quater, comma 1, D.L. 30 aprile 2019, n. 34, ma è stato riscritto dall’art. 1, comma 349, l. 30 dicembre 2020, n. 178, nonché ritoccato ulteriormente dall’art. 39, del decreto “sostegni bis” 25 maggio 2021, n. 73, e, da ultimo, dall’art. 1, comma 215, L. 30 dicembre 2021, n. 234, dalla legge di bilancio pubblicata due settimane fa, che ha prorogato questo istituto per il biennio 2022-2023, apportando alcune modifiche.
Il “Contratto di espansione” è un istituto complesso e polifunzionale, giacché è inteso ad agevolare la riqualificazione delle risorse umane esistenti nell’impresa interessata e, al contempo, i nuovi ingressi in azienda e la gestione concertata degli esuberi. Come esplicitato dal legislatore, questo strumento è finalizzato soprattutto ai processi di digitalizzazione anzi più in generale di “sviluppo tecnologico dell’attività”, con un approccio innovativo in merito alla sinergia tra disciplina del rapporto di lavoro e disciplina previdenziale, intesa come pensioni e al contempo come trattamento di disoccupazione.
Volendo qui soffermarmi sui profili pensionistici dell’istituto, il riferimento normativo principale risiede nel comma 5 bis del predetto art. 41, comma che permette il prepensionamento dei lavoratori “che si trovino a non più di sessanta mesi dalla prima decorrenza utile della pensione di vecchiaia, che abbiano maturato il requisito minimo contributivo, o della pensione anticipata”. Tale prepensionamento può essere previsto nell’ambito di accordi collettivi. Nel biennio 2022-2023, a seguito dell’art. 1, comma 215 della nuovissima L. di bilancio n. 234/2021, la soglia dimensionale aziendale per accedere a tale istituto è stata ridotta da 100 a 50 dipendenti, anche calcolati complessivamente nelle ipotesi di aggregazione stabile di imprese con un'unica finalità produttiva o di servizi (la soglia di 100 dipendenti a sua volta derivava dalla riduzione operata dal D.L. c.d. “sostegni bis” n. 73/2021, in quanto antecedentemente era 250 addetti). Conseguentemente, la legge di bilancio ha rifinanziato sostanziosamente il comma 7 dell’art. 41, ossia la finalità di riduzione d’orario lavorativo e cig, che può essere perseguita mediante questo istituto: per il corrente anno il budget disponibile passa da 102 milioni a 256,6 milioni. Per gli anni successivi la parabola contabile è ulteriormente crescente, e non di poco: 469 milioni di euro per l'anno 2023 e 317,1 milioni di euro per l'anno 2024. Il predetto comma 5 bis dell’art. 41 del d.lgs. n. 148/2015 prevede, inoltre, una disciplina ulteriormente agevolata per le imprese con più di 1.000 dipendenti le quali si impegnino ad effettuare almeno 1 assunzione per ogni 3 lavoratori. In tal caso v’è un prolungamento dello sgravio per ulteriori 12 mesi, per un importo calcolato sulla base dell'ultima mensilità di spettanza teorica della prestazione NASpI al lavoratore. Anche su tale agevolazione il legislatore dimostra di confidare molto per il futuro prossimo, in quanto la recentissima legge di bilancio ha rifinanziato anche questo comma in maniera sostanziosa, stabilendo che per i contratti di espansione stipulati dal 1° gennaio 2022 questo benefìcio è riconosciuto nel limite di spesa di 80,4 milioni di euro per l’anno 2022, 219,6 milioni di euro per l'anno 2023, 264,2 milioni di euro per il 2024, 173,6 milioni di euro per l'anno 2025 e 48,4 milioni di euro per l'anno 2026.
Alla luce di tale rafforzamento normativo e finanziario dell’istituto, la domanda che sorge è se il legislatore creda davvero nella riqualificazione delle risorse umane nei processi di digitalizzazione, oppure quest’ultima sia solo l’ennesima occasione per nulla più che prepensionamenti. A ben vedere, nella pluralità di sotto-fattispecie racchiuse nell’istituto disciplinato dall’art. 41 de d.lgs. n. 148/2015, solo per pochi casi vige l’obbligo di un impegno datoriale ad un numero di nuove assunzioni predefinito per legge. Un tale obbligo assunzionale esiste solo per l’ipotesi relativa alle più grandi imprese stabilita dalla seconda parte del comma 5 bis, di turn over con almeno 1 nuovo assunto ogni 3 prepensionati. Quindi, in generale, il numero nuovi assunti è rimandato ai rapporti di forza che si esprimeranno al tavolo governativo, da parte dei sindacati ma anche dalla posizione che sul punto il Ministero del lavoro vorrà assumere di volta in volta. In sostanza, il contratto d’espansione non è, di per sé, uno strumento che dimostra che il legislatore creda nell’accompagnare l’innovazione tecnologica con adeguata riqualificazione delle risorse umane aziendali, né tantomeno con nuove assunzioni in “espansione”. Piuttosto, appare uno strumento col quale il legislatore auspica che sia il Governo, in particolare il Ministero del lavoro, a voler credere in ciò, nelle singole vicende aziendali negoziate. Altrimenti si tratterà di meri prepensionamenti, oltreché di riduzioni d’orario coperte da questa speciale cig.
Problematico appare anche il fatto che l’art. 41 non prevede alcuna clausola d’incompatibilità con l’attività lavorativa né di incumulabilità con reddito da lavoro. Questa carenza normativa appare foriera di scriteriate iniquità nei casi in cui le imprese “rottameranno” risorse umane (talora anche meno che sessantenni) in grado però di esprimere ancora un potenziale nel mercato del lavoro. Benché probabilmente non saranno casi frequenti, nella disciplina del contratto d’espansione questo pare lo squilibrio normativo che merita più urgente emendamento da parte del legislatore.
4. Crowdfunding e informazione nella governance societaria; nuove tecnologie e privacy del lavoratore nel quadro civilistico comparato.
Passando alla sezione seconda di questo pomeriggio, mi limito ad introdurre gli interessantissimi interventi delle Colleghe dell’Università di Udine, che si occupano di due profili interdisciplinari dell’unità di ricerca friulana.
Il saggio della prof.ssa Miotto approfondisce alcune implicazioni della disintermediazione tecnologica, da un punto di vista di diritto commerciale, con riguardo ai diritti di informazione dei soci finanziatori delle piccole e medie imprese mediante crowdfunding. Le potenzialità di tale istituto come strumento per l’emancipazione dal prestito bancario sono emerse di recente. Nondimeno iniziano ad essere sperimentate anche nell’ordinamento italiano, in base al quale possono essere emesse categorie di quote senza diritto di voto o con voto limitato. Il contributo della Collega Miotto affronta la questione se, alla luce di detta innovazione, sia ammesso ridurre le prerogative d’informazione di una parte della compagine sociale. Viene argomentata l’idea che le facoltà di controllo di ogni socio va ritenuta inderogabile nella misura in cui sia funzionale a verificare (non già il merito delle scelte bensì) la legalità della gestione, giungendosi alla conclusione per cui nella s.r.l. l’imprenditorialità dei soci può essere affievolita (rispetto a quella “forte” prefigurata dalla disciplina legale), ma non possa venire eliminata. Quindi, nella s.r.l. ciascun socio deve pur sempre avere la prerogativa individuale di effettuare un controllo di legalità sulla gestione, che gli conferisce un potere di negoziazione continua indipendente dal voto. La sua posizione è irriducibile a quella di mero investitore.
Orbene, in ambito lavoristico, il rilievo incomprimibile dei diritti d’informazione nelle relazioni pluri-individuali, ed anzi collettive, è tema tradizionale e di importanza perfino crescente: senza arrischiarmi in un ruolo di discussant che non mi compete, mi limito ad osservare che, da un lato, il diritto del lavoro può forse insegnare al diritto commerciale qualcosa in tema di inderogabilità delle regole legali dettate per finalità d’interesse collettivo e, financo, d’interesse diffuso. Ma, dall’altro lato, la prassi lavoristico-sindacale potrebbe forse cogliere dalle migliori esperienze aziendali l’importanza appunto delle tecnologie digitali nella facile divulgazione di informazioni tra tutti gli stakeholder. Anche tra gli studiosi di relazioni industriali, comunque, il tema dell’uso della tecnologia nelle relazioni collettive è già sul tavolo, anche perché si stanno facendo strada le prime sperimentazioni pratiche.
Con la quarta relazione di questo pomeriggio, la Collega Federica Giovanella si concentra sul diritto alla riservatezza del lavoratore, prendendo in considerazione ordinamenti giuridici diversi: non solo quello italiano nel contesto europeo, ma anche quelli statunitense e quello canadese. La sua analisi muove da alcune importanti decisioni di alte Corti nazionali, nonché della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, riguardanti la sorveglianza del lavoratore mediante tecnologie più o meno nuove, concentrandosi sul concetto di “ragionevole aspettativa di privacy” (reasonable expectation of privacy) come espediente comparativo. L’aspettativa di privacy è nozione di per sé sconosciuta all’ordinamento italiano, ma è invece condivisa sia dagli ordinamenti nordamericani, sia dalla CorteEDU. Non si tratta di una nozione confinata al contesto lavorativo, bensì sviluppata originariamente al di fuori di tale contesto: anche qui si vede l’importanza della interdisciplinarità della ricerca giuridica in questi ambiti. L’intervento della Collega si concentra sui parametri che le corti prendono in considerazione per definire la giusta aspettativa di riservatezza che il lavoratore può nutrire nel caso concreto: policy aziendali, informative fornite al dipendente, clausole del contratto di lavoro.
Dall’analisi emerge nitidamente come la assai diversa sensibilità dei differenti ordinamenti giuridici rispetto al concetto di riservatezza finisce per collocare il lavoratore in una posizione di maggiore o minore forza nei confronti del datore di lavoro anche da altri punti di vista. Orbene, possiamo certamente riconoscere che l’ordinamento italiano si pone come baluardo tra i più solidi, grazie non solo al recente quadro regolamentare europeo dato dal GDPR, ma anche alla tradizionale disciplina nazionale dello Statuto dei lavoratori. Quest’ultima, anche a seguito della manutenzione subita nel 2015 che ha fatto assai discutere, continua a dimostrare grande vitalità, tanto in giurisprudenza quanto nella prassi dell’Autorità garante per la riservatezza.
5. La qualificazione dei rapporti lavorativi: subordinazione, autonomia, esigenze di tutela nel management algoritmico
La terza sessione ospita due relazioni provenienti dall’unità di ricerca dell’Unità di ricerca della Università Ca’ Foscari di Venezia, coordinata dal Collega Maurizio Falsone, il quale si concentra sul tema della subordinazione, tema su cui gli stimoli dottrinali sono abbondantissimi, a proposito dei rider. Nondimeno questo era un tema imprescindibile da affrontare per il nostro Prin. Il paper si concentra sul rilievo, nella qualificazione del rapporto, della libertà del rider di accettare di lavorare. Al proposito appare esservi una divaricazione delle opinioni, tra coloro che concentrano l’attenzione sulla fase genetica del rapporto, tendendo alla qualificazione di autonomia, e coloro che si focalizzano sulla fase funzionale, che tendono alla riconduzione alla subordinazione: invero, quest’ultima impostazione appare più coerente con il quadro complessivo ed i valori fondanti della materia.
Questa appare l’impostazione anche del relatore, che sottolinea come la costruzione algoritmica della piattaforma sicuramente mette in condizione il suo gestore di avere un potere d’influenza molto stringente, quand’anche non si dimostri effettivamente esercitato in concreto. Deve essere ritenuto forte indizio di subordinazione il solo fatto che il gestore della piattaforma sia costantemente nella condizione di (implicitamente minacciare di) esercitare i propri poteri d’indicazione sulle modalità “consigliate” di svolgimento della prestazione lavorativa pur asseritamente autonoma. Peraltro anche la proposta di direttiva europea sul lavoro mediante piattaforma, appena presentata dalla Commissione europea, appare ispirata da un approccio analogo, grazie ad una sorta di presunzione di subordinazione basata su una pluralità di indici, alcuni dei quali sganciati infatti dalla configurazione contrattualizzata del rapporto bensì concentrati sul concreto atteggiarsi dell’equilibrio di potere nello svolgimento del rapporto.
Inoltre, il Collega invita a spostare l’attenzione degli interpreti dall’oggetto alla causa del contratto di lavoro dei riders, che, a ben vedere, consiste nella ripetitività e nella ricorrenza delle prestazioni del riders, che è interesse tanto della piattaforma quanto del lavoratore stesso. Ciò probabilmente permette una ricostruzione unitaria della pluralità di singole prestazioni parcellizzate, a dispetto del fatto che, stando al nomen iuris contrattualmente concordato, sarebbero separate e quindi autonome. Anche questo punto appare da condividere.
Il secondo paper veneziano è presentato dal dott. Giovanni Gaudio, che è stato il primo assegnista reclutato dal Prin tra tutte le quattro unità, sicché sta lavorando da tempo a un delicato tema di frontiera interdisciplinare, ossia la tutela processuale e l’onere della prova in tema di management algoritmico del rapporto di lavoro, ai fini non solo del riconoscimento della subordinazione, ma anche di eventuali discriminazioni tra lavoratori.
Vengono prese in considerazione una pluralità di esperienze giurisprudenziali comparate, ragionando con una sorta di “esperimenti mentali” su quale sarebbe stato l’esito di siffatti procedimenti qualora si fossero svolti davanti a giudici italiani: ne emerge un quadro che, da un lato, appare rassicurante sulla capacità dell’assetto italiano di difendere i valori tradizionali anche di fronte alle nuove sfide digitali; e dall’altro lato, il dott. Gaudio indica grandi potenzialità della normativa processuale, qualora la giurisprudenza volesse fare un reale uso dei poteri che il processo del lavoro concede anche d’ufficio, nonché ai poteri d’indagine che altre fonti, come il Gdpr e il nostrano testo unico in tema di privacy, riconoscono all’interessato per la tutela effettiva delle proprie posizioni giuridiche soggettive, mediante coercizione giudiziaria alla disclosure dell’algoritmo datoriale, anche sul piano d’urgenza ed inibitorio. Trattasi di una prospettiva d’indagine assai stimolante, ed anzi promettente ove un fattivo dialogo tra dottrina e giurisprudenza riesca ad essere attivato.
6. Il sindacato nella platform economy.
La quarta sessione si concentra sulle relazioni collettive, con due interventi di membri dell’unità di ricerca della Università Federico II di Napoli, coordinata dal Collega Pasquale Monda, della quale fa parte anche dott. Costantino Cordella. Su piani diversi, entrambi gli interventi s’interrogano su quale ruolo il sindacato nella platform economy possa avere: ruolo in parte da mantenere e difendere, ma in altra gran parte da conquistare su versanti nuovi. È un quesito spinoso, per via della nota propensione in tale ambito economico a instaurare relazioni dirette tra piattaforma, utente e platform worker. Tende cioè a mancare la mediazione di soggetti collettivi, non solo nella fase d’instaurazione dei singoli rapporti lavorativi (fronte su cui i sindacati hanno ormai storicamente perso terreno), ma pure nella fase di svolgimento delle relazioni lavorative. Di certo anche il lavoro mediante piattaforma abbisogna di standard di trattamento economico-normativi. Altrimenti il rischio è che si torni all’antica impostazione che agli albori del diritto del lavoro vedeva l’imposizione unilaterale di molte delle regole lavoristiche. Viceversa, bisogna ritenere del tutto attuali i valori costituzionali che informano la materia lavoristica, a partire dal principio di eguaglianza sostanziale. Sicché, il ruolo del sindacato deve continuare a essere quello di fare del rapporto di lavoro un rapporto di “scambio” genuino, prevenendo mistificazioni pericolose, in agguato anche sul pianto meta-giuridico: come osserva il collega Monda, vi sono fattori anche psicologici che incidono, come la diffusa quanto fallace idea del lavoratore digitale quale “imprenditore di sé stesso”.
Il primo dei due interventi si concentra sulle interferenze tra diritto sindacale e diritto europeo della concorrenza, che considera i lavoratori autonomi quali operatori economici equiparabili a imprese. Il punto di riferimento nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo in proposito è la sentenza FNV del 2014, che esclude dall’ambito di applicazione dell’art. 101 TFUE gli accordi collettivi relativi ai lavoratori autonomi, ma solo a condizione che siano veramente autonomi. Anche da questo punto di vista, ai fini del dibattito europeo sulla nozione di “falso autonomo” impiegata dalla Corte per porre un limite al diritto europeo della concorrenza, non si potranno ora ignorare gli stimoli offerti dalla proposta di direttiva sul lavoro tramite piattaforma. Si deve condividere l’idea che l’area del lavoro falso autonomo, indipendente dalle qualificazioni nazionali, sia inclusa in quella della subordinazione: con tutte le conseguenze anche in termini d’applicabilità delle protezioni legali a beneficio della libertà sindacale, compreso l’art. 28 St.lav. come la più sensibile giurisprudenza di merito ha già riconosciuto.
Superato il dubbio sul se della contrattazione collettiva, è urgente affrontare il problema relativo a quale contrattazione, ossia il tema dei soggetti, che è un tema eminentemente di diritto non eurounitario bensì di diritto nazionale. È un tema emerso prepotentemente nel recente contenzioso che ha investito il discusso contratto collettivo riders stipulato da UGL, su cui il Tribunale di Bologna, argomentando anche da una indicazione del Ministero del lavoro, ha ritenuto il contratto collettivo privo di rappresentatività comparata, per via della presenza di un sindacato solo.
Alla stipulazione di questo contratto collettivo molto discusso, si è arrivati in connessione all’introduzione del Capo V-bis nel d.lgs. 81/2015 avvenuta nel 2019. Tale apparato normativo contiene infatti il forte meccanismo d’incoraggiamento alla contrattazione stabilito dall’art. 47, in base al quale i riders (non etero-organizzati) non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate, in difetto di appositi contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni nazionali comparativamente più rappresentative. In tal caso ai medesimi lavoratori va garantito un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Inoltre, per il lavoro svolto di notte, durante le festività o in condizioni meteorologiche sfavorevoli, a questi lavoratori deve essere garantita un'indennità almeno del dieci per cento, determinata con decreto del Ministro del lavoro qualora manchino detti contratti collettivi.
Sulle relazioni collettive nel settore del food delivery in Italia, appunto, si concentra il secondo intervento di questa sessione. Il dott. Cordella, analizzando l’eziologia di quell’accordo sindacale, sottolinea la distinzione tra l’assenza di maggiore rappresentatività comparata e invece l’assai impegnativa affermazione di un sindacato come di comodo. In ogni caso, deve prendersi atto che la giurisprudenza di merito che ha ravvisato in ormai molti casi l’esistenza di rapporti etero-organizzati: in tale prospettiva appare incongruo distinguere tra tutele individuali e tutele collettive, tanto legali quanto contrattuali. Anche i diritti sindacali devono estesi ai lavoratori etero-organizzati ed ai loro sindacati.
In sintesi, anche nel mondo nuovo del lavoro prestato mediante piattaforma e su piattaforma, le logiche lavoristiche tradizionali discendenti dal principio d’eguaglianza sostanziale devono ritenersi tuttora rilevanti: questa vuole essere non solo una constatazione di fatto, ma anche (e soprattutto) un giudizio di valore dal punto di vista deontico-giuridico.