TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Che sia finalmente arrivato il momento buono? Per anni abbiamo confidato in iniziative parlamentari e governative atte a frenare gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali che continuano a ferire il nostro Paese (inaccettabile il numero dei morti sul lavoro, come ha nuovamente sottolineato il Presidente della Repubblica) e a regolare più compiutamente il fenomeno delle esternalizzazioni (che ha più di una parentela con la sicurezza). E sarebbe ingeneroso non ammettere che alcune modifiche introdotte dalla Legge n. 215/2021, dal D.l. n. 19/2024 o dal Decreto Lavoro convertito nella Legge n. 85/2023 hanno segnato qualche passo in avanti.
Al momento, però, non si è ancora sviluppata quella riforma organica resa impellente dalla crisi che sta attualmente attraversando la sicurezza del lavoro nel nostro Paese e la legalità nel suo complesso, fosse anche solo in vista di una regolazione della concorrenza. È già un risultato rassicurante che l’auspicata revisione dell'impianto normativo sulla sicurezza non abbia contemplato quella depenalizzazione degli illeciti (anzi, negli appalti il penale è stato reintrodotto) inopinatamente auspicata da taluno, così come fa ben sperare l’allarme espresso per gli infortuni subiti ancora nei mesi scorsi da tirocinanti di 18 anni nell’esperienza scuola-lavoro, ora più presidiati. E naturalmente il promesso rafforzamento delle attività di vigilanza presuppone che le ASL non siano abbandonate nelle attuali scoraggianti condizioni di organico e di professionalità, e che resti ferma l’esigenza di rafforzare l’Ispettorato Nazionale del Lavoro sui più diversi fronti, a partire da quello drammatico attinente a un fenomeno,-il caporalato-, che ormai coinvolge e insidia le imprese operanti nei più diversi campi e territori attraverso il meccanismo di pseudo-appalti. Né si obietti che i controlli non avrebbero una capacità preventiva diretta, nel senso che non è pensabile una vigilanza che arrivi il giorno prima dell'infortunio e lo scongiuri. Evidente è che occorre, non già una inimmaginabile vigilanza del giorno prima, bensì la vigilanza sistematica e incisiva in grado di indurre all’effettiva osservanza delle norme scritte sulla carta.
Una vigilanza, se è possibile avanzare una critica, che deve attuarsi prima ancora che nell’ispezione old style, in un’attività di business intelligence in cui i vari Enti collaborino e condividano dati ed azioni; e sotto questo profilo l’abbandono di una centrale unica della vigilanza – fra pressioni esogene e resistenze endogene – rappresenta senz’altro un arretramento delle potenzialità che oggi la P.A. avrebbe di intercettazione di fenomeni illeciti e a rischio.
Così come si resta in attesa di un potenziamento della Legge sulla patente a punti, a cominciare dall’estensione del campo di applicazione dai cantieri temporanei o mobili agli appalti intra-aziendali e alla messa a punto di un sistema di verifica non solo documentale (come sembra invece essere sul punto di realizzarsi), secondo il monito che aveva già lanciato da tempo Cassazione penale (Sent. n. 15081/2010).

Ma non basta. Occorre rendersi conto della pressante esigenza d’introdurre nuove norme (nel TUSL come per quanto riguarda le esternalizzazioni) revisionando anche il sistema sanzionatorio in modo coerente e di vera deterrenza. Ma ancor più immaginando e favorendo (ci verrebbe da dire, obbligando) la costruzione di buone prassi che portino ad un accertamento preventivo e periodico delle condizioni di legalità e di tutela. Con un obiettivo primario tanto ineludibile quanto trascurato, se non addirittura generalmente ignorato, quello di chiudere i varchi lasciati aperti dalla mancata sistematicità normativa e di prassi, con una giurisprudenza oscillante, diventata purtroppo su più fronti meno severa rispetto al passato ma nello stesso tempo, per paradosso, eccessivamente punitiva su fenomeni marginali.

Sul fronte sicurezza, più questioni cruciali pesano negativamente sulla tutela dei lavoratori. Anzitutto, il dilemma del datore di lavoro. L’art. 2, comma 1, lettera b), D.lgs. n. 81/08 ci guida nell’individuazione del datore di lavoro. Ed è agevole desumerne un dato basilare: nelle aziende, nelle società per azioni così come nelle imprese pubbliche, il datore di lavoro si individua a prescindere dal possesso di competenze tecniche. E questo è ovviamente corretto sotto un certo profilo, così come la norma di chiusura dell’art. 299, per cui è destinatario degli obblighi di tutela (e quindi responsabile di fatto) chiunque organizzi e diriga il lavoro, anche senza delega o compito formale. Spetta pertanto al datore di lavoro, anche di fatto, l’obbligo indelegabile di valutazione dei rischi e dell’individuazione delle misure idonee a eliminare o contenere i rischi al massimo livello tecnologicamente possibile. Ma come fa il datore di lavoro, soggetto che non è necessariamente dotato di competenza tecnica, a conoscere la migliore evoluzione della scienza tecnica, e il massimo livello tecnologicamente possibile? E come fa il datore di lavoro a fare quel che gli dice di fare la Cassazione, e, cioè, a prevenire persino i rischi rari, ma non ignoti alla scienza tecnica? Eppure -insegna ancora in questi giorni la Cassazione- il datore di lavoro non può esimersi da responsabilità adducendo una propria incapacità tecnica, e -aggiunge Cass. 14 febbraio 2022, n. 5128- l’art. 28, D.lgs. n. 81 non fa nessuna distinzione fra le attività ordinariamente e quelle straordinariamente svolte dall'impresa. Non è solo un problema di competenza (perché in ogni caso il datore può farsi aiutare da professionisti e, in parte delegare i compiti, ma un problema di scarsa conoscenza – anche dei rischi – a cui consegue una spiccata insensibilità pratica sulla questione, con il rischio di sminuire la portata preventiva del DVR e dell’approntamento del Servizio di prevenzione, e, dunque, di minare basilari caposaldi della sicurezza stessa dei lavoratori. Il problema risulta particolarmente sensibile nelle PMI, dove l’imprenditore è un po’ il motore immobile delle decisioni aziendali e senza adeguata sensibilizzazione rischia di impattare sull’argomento sicurezza solo in termini di burocrazia e costi. E per giunta tarda ad arrivare quell’Accordo Stato-Regioni in materia di formazione dello stesso datore di lavoro promesso per il 30 giugno 2022 dall’art. 37, comma 7, D.lgs. n. 81/2008 così come modificato ad opera della L. n. 215/2021. Sempre che tra quanti stanno lavorando alla redazione di questo Accordo non prevalga la tentazione di considerare appagante una formazione formale e burocratica.
Nemmeno trascurabile è il dilemma dell’RSPP che sulla carta ha un ruolo meramente consultivo, e, dunque, una funzione di ausilio diretta a supportare e non a sostituire il datore di lavoro, e che, dunque, ha l'obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, nonché -si badi- all'occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori. Solo che, in assenza di un divieto esplicito nel TUSL, di fatto accade che un RSPP riceva e accetti, o comunque svolga, anche incarichi operativi in materia di sicurezza del lavoro. Si tratta di un evento malauguratamente non raro nella prassi che finisce per indebolire il ruolo consultivo dell’RSPP, caricato di controproducenti compiti operativi in aggiunta ai propri tipici compiti meramente consultivi, con conseguenti disfunzioni dovute allo snaturamento del SPP (e coinvolgimento penale del RSPP al di là della sua funzione primigenia: il modo migliore per farlo passare da un soggetto che stimola ad un soggetto che pensa anzitutto a difendersi le spalle).
Solo piccoli passi in avanti sembrano fatti ora rispetto ai medici competenti, legittimati a collaborare con il datore di lavoro non più nei soli casi espressamente e tassativamente previsti dall’art. 41, comma 1, D.lgs. n. 81/2008, ma, nelle prospettive di riforma (D.l. n. 48/23), anche ogniqualvolta questa collaborazione sia resa necessaria dall’esito della valutazione dei rischi; resta in ogni caso l’abnorme esposizione che una norma così vasta pone a carico di aziende e medico competente in tutte le nuove casistiche che vanno dalla discriminazione all’inclusione, dallo stress ai nuovi rischi collegabili a fenomeni come il burnout, l’eristress, il tecnostress, il mobbing, non tutti ancora sufficientemente codificati.
Aggiungeremmo il dilemma della formazione: se non è certificata e non se ne controlla la realizzazione, rischia di contribuire unicamente all’edificazione di un ulteriore piano di quella “casa di carta” che appare spesso oggi la modalità con cui si affronta la salute e la sicurezza sul lavoro.
E purtroppo anche la magistratura oscilla: su fronti delicati quali, ad esempio, quelli dei morti per tumore professionale e delle donne colpite da stalking occupazionale, continua a trovar conferma l’inquietante fenomeno delle “due Cassazioni”. Dal 2016 la Sezione Quarta, specializzata in materia di processi penali per infortuni sul lavoro e malattie professionali, per una ragione o per l’altra insiste nel prosciogliere, quando non assolvere, o annullare con rinvio la condanna. Il risultato è sconfortante. Basti pensare che, quest’anno, per tumori accaduti in imprese private o pubbliche, tribunali o corti d’appello hanno pronunciato sentenze di condanna che hanno suscitato l’entusiasmo delle comunità interessate: dalla Corte d’Assise di Novara alla Corte d’Assise di Venezia e alla Corte d’Assise di Napoli. Ma a fronte di tanto entusiasmo si prova turbamento a prefigurarsi l’esito finale di questi processi in Cassazione. E non bastano certo a far rivivere la giurisprudenza del passato le poche sentenze di segno diametralmente opposto pronunciate dalla Sezione Terza della Cassazione, chiamata a decidere nei casi in cui sia già intervenuta la Sezione Quarta in precedenti fasi processuali. Quella giurisprudenza secondo cui la colpa per le morti da amianto deve essere attribuita egualmente alle condotte omissive dei vari responsabili della gestione aziendale susseguitisi nel tempo, anche se per una parte soltanto del periodo di esposizione delle vittime, in quanto tali condotte riducono i tempi di latenza della malattia nel caso di patologie già insorte, oppure ne accelerano i tempi di insorgenza nel caso di patologie insorte successivamente.
Non meno patiscono le donne a causa di molestie e violenze anche sessuali sul posto di lavoro. Nel nostro Paese, la storia del reato di stalking occupazionale rimane molto diversa da quella vissuta in Francia, dove il reato di mobbing è espressamente previsto nell’art. 222-33-2 del codice penale che da venti anni punisce l’harcèlement moral, e, cioè, il fatto di molestare altri mediante condotte ripetute aventi per oggetto o per effetto una degradazione delle condizioni di lavoro atte a ledere i suoi diritti e la sua dignità, ad alterarne la salute fisica o mentale o a comprometterne il futuro professionale. In Italia, invece, la storia del reato di mobbing è una storia tutta giurisprudenziale che, a differenza di quella francese, non è alimentata da un’apposita, specifica norma, e, dunque, una storia che ha tentato con alterne fortune di scovare nel codice penale un reato in qualche modo adattabile: i maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) la Sezione Sesta, gli atti persecutori (art. 612-bis c.p.) la Sezione Quinta. Con questo risultato: che, a differenza della Sez. V, la Sez. VI limita le responsabilità alle aziende para-familiari, e quindi rende punibili le piccole (piccolissime) aziende, ma non le grandi aziende nell’ambito delle quali i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono ad essere più spersonalizzati.

Ma gli stessi fenomeni oscillatori e poco efficaci si rilevano anche sul fronte esternalizzazioni.
L’intera disciplina sanzionatoria è stata riportata dal D.l. n. 19/2024 nell’alveo del penale, ma con storture, incongruenze e distorsioni. Basti pensare, per fare qualche esempio, che l’ammenda è soggetta ad un (risibile) limite massimo che annulla qualsiasi effetto deterrente verso i fenomeni di più larga scala, oppure che nel tipizzare le norme di persecuzione dell’intermediazione illecita, il focalizzarsi sul solo trinomio appalto/distacco/somministrazione ha perso di vista tutte le fattispecie odierne (una su tutto: l’uso distorto dei contratti di rete) con cui oggi si realizza il commercio illecito di manodopera sotto vesti pseudo-legali.
Inoltre, nel rivisitare la norma sulla responsabilità solidale, il legislatore ha mancato un’ottima occasione per dar corso al “suggerimento” della Corte Costituzionale, che con sentenza (ormai non recentissima) n. 254 del 6 dicembre 2017 ha inteso, nell’ambito di una lettura costituzionalmente orientata, estesa la responsabilità solidale a “tutte le forme moderne di esternalizzazione”. Ma sul fronte giuridico le distinzioni di lana caprina, nel silenzio del legislatore sul punto, infiammano le sedi giudiziarie, con sentenze che a volte escludono e a volte includono la responsabilità solidale, sulla base di ragionamenti che, quandanche dottrinalmente condivisibili, restano comunque isolati e/o di difficile praticabilità.
Anche perché, sull’argomento specifico della responsabilità solidale (e su quello, nuovo, dell’utilizzo in appalti e subappalti dei contratti collettivi maggiormente rappresentativi) pesano grosse incertezze di fondo, anche rispetto all’effettività ed onerosità dei controlli da mettere in campo.

L’impressione, in ultima istanza è che il legislatore – su temi cruciali del mercato del lavoro, quali sono indubbiamente salute e sicurezza e tutela nelle esternalizzazioni - affidi a terzi (il committente, il magistrato, gli ispettori, i consulenti del lavoro, i tecnici, gli operatori, talvolta le parti sociali) il compito di togliere le castagne dal fuoco rispetto ad una legislazione tanto ipertrofica quanto incerta e di difficile effettività.
Con risultati evidenti: uno stato di cose che- sotto entrambi i fronti - non migliora (la conta degli infortuni, mortali e non, sarà anche in diminuzione ma rimane sempre altissima; episodi dal caporalato allo sfruttamento emergono con preoccupante frequenza), una norma repressiva che però sembra fatta apposta per colpire le violazioni di piccolo cabotaggio, una cultura della sicurezza e della legalità sempre relegate agli attori più sensibili del mercato del lavoro (fra i quali sicuramente anche i consulenti del lavoro) , ma che per quanto esposto hanno l’impressione di essere voci parlanti nel deserto, predicatori di una religione della legalità, della tutela e della sicurezza di cui le chiese sono drammaticamente sempre più vuote.

 

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