testo integrale con note e blbiografia
1. La questione del momento tra Giudici, Legislatore e Parti Sociali.
Le Riviste “Sintesi”, con numerosi articoli, e “Lavoro Diritti Europa”, con un numero antologico speciale, hanno recentemente dedicato molta attenzione a quello che – a buona ragione – può essere definito come «il tema più caldo» di questo autunno, vale a dire il salario minimo, che impone valutazioni di ordine politico ed economico, ma ovviamente anche di carattere giuridico e tecnico di non facile ed immediata soluzione .
La questione è di certo socialmente rilevante alla luce dei livelli retributivi particolarmente bassi in alcuni settori e trova una sua ulteriore ragione di “concreta” attualità nell’inflazione ancora consistente e nel mancato o ritardato rinnovo di numerosi contratti collettivi nazionali, fattori che rendono indubbiamente più urgente il tema salariale.
Di fronte al silenzio del legislatore – impegnato nel dibattito tra le diverse forze politiche in merito all’opportunità o meno di adottare una legge in materia – e nella prevalente inerzia delle organizzazioni sindacali e datoriali – per lo più contrarie alla ritenuta “invasione di campo” del Parlamento rispetto all’autonomia collettiva –, la Magistratura (civile in funzione di Giudice del Lavoro, penale ed amministrativa) è intervenuta a più riprese in merito a vicende che ruotavano attorno alla legittimità dei trattamenti retributivi riconosciuti dai contratti collettivi applicati da determinate imprese.
Solo per citare i casi più eclatanti e controversi, balzati all’attenzione dell’opinione pubblica, travalicando così il limitato ambito degli operatori del mercato del lavoro, negli ultimi mesi (rectius: negli ultimi giorni) si sono registrati: l’indagine della Procura Milanese su alcune società di vigilanza privata e servizi fiduciari e sui relativi trattamenti economici, che ha portato in alcuni casi al controllo giudiziario delle stesse; la sentenza del T.A.R. Lombardia del 4 settembre 2023, che ha annullato il verbale di disposizione dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Como-Lecco con cui era stata disposta la corresponsione ai lavoratori dipendenti di una di queste società delle differenze retributive rideterminate secondo le tabelle retributive previste da c.c.n.l. diverso da quello applicato dalla società medesima; le pronunce della Cassazione del 2 ottobre 2023 n. 27769 e 27771 che hanno chiaramente legittimato la determinazione da parte del Giudice di merito del giusto salario minimo costituzionale anche discostandosi, motivatamente ed ex officio, dal parametro di commisurazione costituito dalla retribuzione stabilita dalla contrattazione nazionale di categoria.
Non è evidentemente possibile, nel limitato spazio a disposizione per questo intervento, approfondire i singoli casi e mettere in luce le diverse tesi avanzate dai Giudici, che hanno in ogni caso suscitato un vivace dibattito.
In questa sede ci si deve limitare ad osservare – come un dato di fatto – la rinnovata centralità dell’intervento giudiziale nella definizione delle questioni salariali.
2. La supplenza giudiziaria … e la lezione di Giuseppe Pera: il problema è la crisi delle fonti del diritto del lavoro.
Chi scrive ha avuto modo di commentare – proprio sulle pagine di questa Rivista – alcune decisioni di merito e legittimità che possono essere ritenute le prime manifestazioni di questo nuovo indirizzo giurisprudenziale incline a mettere in discussione – nella definizione del salario minimo costituzionale – la presunzione di legittimità del parametro retributivo previsto dai c.c.n.l. stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi.
In quel commento esprimevo – e confermo in questa sede le valutazioni allora formulate – perplessità in merito a tale indirizzo giurisprudenziale, dal momento che il Giudice tende a sostituirsi quale autorità salariale al sindacato (rectius: al sindacato comparativamente più rappresentativo).
Nondimeno il consolidarsi di questa giurisprudenza sembra dimostrare il fallimento, almeno in alcuni settori ad alta intensità di lavoro, della contrattazione collettiva anche se sottoscritta dai sindacati comparativamente più rappresentativi.
In altri termini, forse un poco semplicistici ma concettualmente chiari, se la giurisprudenza esercita un ruolo di supplenza ed è chiamata ad intervenire (in modo più o meno condivisibile) in numerose occasioni, evidentemente i soggetti che sono naturalmente titolari del potere di determinazione dei salari – id est i sindacati dei lavoratori e le relative controparti, vale a dire le organizzazioni datoriali – non appaiono (a torto o a ragione) in grado di garantire una retribuzione conforme all’art. 36 della Costituzione.
A fronte di questa situazione, pare – almeno a chi scrive – fuori luogo puntare il dito sulla giurisprudenza, che semmai rappresenta il sintomo della malattia della contrattazione collettiva in alcuni settori, cioè la certificazione della difficoltà di alcuni c.c.n.l. nel garantire la tutela retributiva dei lavoratori e nel contempo esercitare la propria naturale funzione regolatrice e anticoncorrenziale secondo la storica e risalente valenza di “concordato di tariffa”. Al contempo, per loro natura, le decisioni giurisprudenziali possono costituire, nella migliore delle ipotesi, una soluzione parziale della malattia, inevitabilmente soggetta alla effettiva possibilità per i lavoratori di far valere in giudizio le proprie istanze retributive e alla variabilità degli orientamenti interpretativi ed applicativi.
Peraltro, la questione della opportunità o meno della supplenza giudiziaria è tutt’altro che nuova e rimanda in realtà ad un problema più ampio e rilevante, vale a dire la perdurante e mai risolta crisi delle fonti del diritto del lavoro.
Non saprei descrivere meglio questa situazione di estrema incertezza di quanto ha fatto, oltre sessant’anni fa, Giuseppe Pera, affermando, in modo a mio avviso ancora oggi assolutamente condivisibile: «sarebbe ingeneroso voler dimenticare in quale preciso contesto economico-sociale questa giurisprudenza si collochi, per cercare di comprendere, rispetto alla realtà sociale di fondo, quello che altrimenti appare fortemente discutibile in sede di ricostruzione logica del sistema. Questa giurisprudenza si è formata quando nel nostro Paese si è avuta una crisi nel sistema della regolamentazione uniforme delle condizioni di lavoro ed in questa crisi va collocata come un capitolo che in essa si risolve, con le sue premesse e con i suoi svolgimenti apparentemente incoerenti (…). A quanto si ricava da una veduta d’insieme, non si è trattato, per i nostri giudici, di affermare una pretenziosa rivolta della «giustizia» concreta secondo le esigenze del caso singolo contro la certezza del diritto, …, ma si è tentato in definitiva di assicurare un minimo di tutela nell’assenza di organiche sistemazioni a livello collettivo. Dietro le cifre, spesso miserrime, attorno alle quali si è discusso, c’era una realtà umana tale da angustiare ogni persona di civile convincimento; rispetto a queste realtà i giudici» si sono limitati «ad apportare un correttivo sostanzialmente equitativo. È da presumere che questa giurisprudenza, teoricamente discutibile, sarà in fatto superata ove giunga a soluzione la crisi delle fonti del diritto del lavoro. Quando questo avverrà, se avverrà, potremmo pensare alla giurisprudenza formatasi sull’art. 36/I Cost. come ad un capitolo della tormentata e contraddittoria vicenda attraverso la quale è passata la crisi» .
Alla luce di queste illuminanti osservazioni, se si ritiene come il sottoscritto che la supplenza giudiziaria non possa essere la soluzione stabile e definitiva della questione salariale, è necessario avanzare in modo assertivo e necessariamente sintetico una proposta alternativa per affrontare il tema più caldo di questo autunno.
3. La possibile soluzione è nel 36 o nel 39?
Ad avviso di chi scrive, la soluzione della questione salariale non è il salario minimo di fonte legale ex art. 36 Cost., misura peraltro soggetta alle diverse e spesso strumentali pulsioni politico-ideologiche e non priva di complesse problematiche tecniche, soprattutto se viene adottato uno specifico riferimento numerico-monetario .
Nondimeno è evidente che per le Parti Sociali non è sufficiente dire no all’intervento legislativo per risolvere il tema del salario minimo. In attesa delle determinazioni assunte nell’ambito del C.N.E.L. e degli eventuali successivi sviluppi, è bene allora ricordare – ancora con le parole di Pera – come «nell’inesistenza pressoché totale, a livello di normativa legislativa, del nostro diritto sindacale, tutti i passaggi logici del discorso sono controvertibili; perché di troppa o totale libertà, specie sul piano delle fonti, si può anche morire, cioè essere nell’incapacità di costruire in positivo» .
In ragione di queste premesse, le Parti Sociali – per non vedere mortificata, o quantomeno depotenziata, l’autonomia collettiva dall’intervento suppletivo del Legislatore o del Giudice – devono manifestare quel protagonismo che in tante fasi della storia repubblicana ha consentito alle stesse di uscire da situazioni di difficoltà, recuperando autorevolezza e centralità.
Basti pensare, per citare solo gli esempi più recenti ed emblematici, di azione sindacale propositiva ed efficace: all’introduzione delle r.s.u. per acquisire consenso anche dai non iscritti e conseguente rappresentatività di fronte alle difficoltà delle r.s.a.; alla contrattualizzazione del pubblico impiego ed alla previsione di una contrattazione collettiva del settore regolata da lineari strumenti di misurazione della rappresentatività sindacale; alla stipulazione degli accordi del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013 e, quindi, del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, in grado di ri-ordinare gli assetti contrattuali e rispondere alla spinta verso il decentramento contrattuale.
Il punto più avanzato di questa capacità di proposta e azione sindacale è stato – sia pure dal punto di vista più che altro programmatico – il c.d. Patto per la fabbrica del 28 febbraio-9 marzo 2018, con particolare riferimento al paragrafo 4 («Democrazia e misura della rappresentanza») dello stesso, laddove Confindustria, Cgil, Cisl e Uil affermano di ritenere che «l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi di lavoro costituisca un elemento qualificante del sistema di relazioni industriali e che le intese in materia di rappresentanza possano costituire, attraverso il loro recepimento, il presupposto per l’eventuale definizione di un quadro normativo in materia».
Il processo di recepimento legislativo delle intese collettive in materia di assetti contrattuali e rappresentanza si è successivamente arenato, ma riprendere quella via pare oggi la soluzione più convincente per regolare il mercato del lavoro anche dal punto di vista salariale e rafforzare al contempo l’autonomia collettiva, selezionando i soggetti stipulanti e dando, finalmente, efficacia generalizzata ai contratti collettivi.
Si tratta di un percorso certamente non semplice – né dal punto di vista politico, né da quello tecnico – di attuazione (più o meno diretta) dell’art. 39 seconda parte della Costituzione , ma tale scelta, se portata a compimento, consentirebbe anche di affrontare la problematica della proliferazione dei c.c.n.l., che consente la realizzazione del dumping contrattuale non solo dal punto di vista salariale, ma anche normativo.
In conclusione, di fronte all’emergere sempre più prepotente del “disordine contrattuale”, di cui le differenziazioni salariali sono solo la manifestazione più evidente, si deve finalmente giungere – soprattutto attraverso il contributo consapevole ed attivo delle Parti Sociali ed anche in virtù della mediazione del C.N.E.L. – a regolare per legge la contrattazione collettiva e l’efficacia erga omnes della stessa.