Testo integrale con note e bibliografia

1. L’inefficienza del sostegno senza regolazione.

Dal punto di vista della contrattazione collettiva e delle relazioni sindacali, la ripresa delle attività produttive dopo il lockdown ci lascia con gli stessi problemi di regolazione che avevamo prima di questo drammatico periodo. Ci lascia essenzialmente con quel problema di regolazione - la misurazione della rappresentatività sindacale - ben individuato dalle stesse parti sociali nel cosiddetto Patto per la fabbrica del 2018. Esso muove dal presupposto che è indispensabile, se si vuole veramente contrastare la proliferazione dei contratti collettivi “finalizzati esclusivamente a dare copertura a situazioni di dumping contrattuale”, conoscere l’effettivo livello di rappresentanza di entrambe le parti stipulanti un contratto collettivo nazionale di lavoro: dunque, non solo i sindacati dei lavoratori, per la misurazione della cui rappresentatività già provvedeva il testo unico del 2014, ma anche le associazioni datoriali. E, nello stesso Patto per la fabbrica, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil esprimono la valutazione che “l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi costituisce un elemento qualificante del sistema di relazioni industriali e che le intese in materia di rappresentanza possano costituire, attraverso il loro recepimento, il presupposto per l’eventuale definizione di un quadro normativo in materia”1.
Ed infatti le generose, e in taluni casi tormentate2, riforme degli anni ʼ10 di questo nuovo millennio (cd. Legge Fornero e, soprattutto, Jobs Act) hanno lasciato completamente fuori la materia dei rapporti collettivi, vale a dire della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva. Ci siamo fin qui cullati nel modello statutario, del sostegno senza regolazione, che poi ha contribuito allo sviluppo del sistema sindacale di fatto, una delle cifre del nostro diritto sindacale.
Ora, a parte il fatto che la norma cardine di questo modello - l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori - ha perso, dopo l’amputazione referendaria del 1995, il nucleo più significativo della sua anima promozionale e che vi sono evidenti problemi nell’attuale regolazione legislativa della RSA, solo occultati dalla tenuta della disciplina interconfederale delle RSU; a parte ciò, è ormai riconosciuto dai più - e lo si avverte anche nel Patto per la fabbrica - che il modello del sostegno senza regolazione non è più sufficiente. La frammentazione sindacale, anche datoriale, con la realizzazione di diversi ordini contrattuali, mette in crisi il sistema di relazioni industriali e, dunque, anche il virtuoso sistema del rinvio della legge ai contratti collettivi.

2. Un’agenda per il futuro: la questione della rappresentatività sindacale e della sua misurazione.

Sappiamo che, da un certo punto in poi, e specie nella fase del passaggio dal garantismo individuale a quello collettivo intorno agli anni ʼ80 del secolo scorso, il legislatore attua un’intensa compenetrazione tra fonte legale e fonte contrattuale, demandando ai contratti collettivi un vero e proprio compito co-regolativo. Il compito co-regolativo, tuttavia, come pure sappiamo, è affidato solo a sindacati qualificati, prima ai sindacati maggiormente rappresentativi, ora ai sindacati comparativamente più rappresentativi, formula giustamente definita da Giugni “escogitazione linguistica intelligente… ma che apre il problema più che risolverlo”3. Fra l’altro, il motivo del passaggio dalla primitiva formula (sindacato maggiormente rappresentativo) a quella odierna (sindacato comparativamente più rappresentativo) non è affatto limpido e non è mai stato conclusivamente individuato. Tant’è che il legislatore la usa sia come criterio di selezione ex post tra più contratti collettivi tutti astrattamente applicabili (al fine di individuare quello da applicare nel caso concreto) sia come criterio di legittimazione soggettiva delle diverse associazioni sindacali, e, dunque, per così dire ex ante. Ed in questo caso la formula non mi pare diversa da quella di sindacato maggiormente rappresentativo.
In ogni caso, l’accentuata frammentazione della contrattazione collettiva nazionale, essenzialmente a causa della frammentazione della rappresentanza non solo sindacale ma anche datoriale - sebbene non soltanto: si pensi al recente, discusso, contratto collettivo dei riders antonomi stipulato da Assodelivery e UGL-Riders - ha reso in molti casi controversa, se non addirittura inapplicabile, la nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo. Chi conosce, ad esempio, il contenzioso sui minimi retributivi nel settore delle cooperative l’ha potuto toccare con mano: se non ci si vuole appoggiare alla traballante costruzione del “fatto notorio”4 - per cui sarebbe fatto appunto notorio che i sindacati aderenti a Cgil, Cisl e Uil sono comparativamente più rappresentativi - i giudici, quand’anche vi fosse il consenso sui criteri della rappresentatività, non hanno gli strumenti in concreto per accertarne la ricorrenza ed effettuare la comparazione.
Ebbene, ritengo che la legge possa - e anzi debba - intervenire a stabilire le regole fondamentali sulla rappresentatività sindacale, compresa quella dei datori di lavoro, attribuendo ad una autorità amministrativa - naturalmente dopo averne fissato i criteri - il compito di certificare i dati sull’effettiva rappresentatività. E ciò è possibile perfino a prescindere dalla disciplina della contrattazione collettiva e dalla sempiterna questione della legge sindacale. E senza sopravvalutare il problema della individuazione dei “perimetri” (ovvero degli ambiti) in cui misurare la rappresentatività sulla base di una lettura troppo enfatica e paralizzante del principio di libertà sindacale, considerando, tra l’altro, che il 1° co. della disposizione costituzionale va letto insieme all’ultimo. Può darsi che dal censimento che il Patto per la fabbrica affida al Cnel emerga che le coincidenze oggettive tra i campi di applicazione dei contratti collettivi esistenti siano già numerose. Laddove queste coincidenze non vi siano, l’adozione di qualche meccanismo, del tipo commissione paritetica sulla contrattazione collettiva, non sconosciuta ad altri ordinamenti6, potrebbe essere d’aiuto.
Corroborano la particolare attenzione che dobbiamo a questo profilo la montante supplenza dell’autorità amministrativa e, dunque, il rischio che il diritto sindacale si costruisca, pezzo dopo pezzo, con le circolari ministeriali. Basti pensare alla recentissima circolare del Ministero del lavoro, 17 novembre 2020, sul controverso problema della selezione del contratto collettivo legittimato a definire la disciplina, ed in particolare il compenso, dei riders autonomi, nella quale, tra l’altro, si prende l’impegnativa posizione per cui “si deve ritenere che il criterio della maggiore rappresentatività comparata necessariamente si determini avuto riguardo alle parti firmatarie del contratto collettivo del più ampio settore, al cui interno, in ragione di particolari esigenze produttive ed organizzative, si avverte la necessità di prevedere discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo dei lavoratori”. Qui, come in altri casi meno clamorosi, l’intervento amministrativo non tocca solo i criteri per la determinazione della rappresentatività e, perfino, l’individuazione concreta dei sindacati “comparativamente più rappresentativi”7 , ma arriva ad incidere anche sull’ambito di riferimento per la misurazione della rappresentatività: in altre parole, sulla categoria, la cui autonoma definizione è ritenuta uno dei corollari, se non il principale corollario, del principio di libertà sindacale.
Allo stato coesistono, infatti, due contratti collettivi: uno per la logistica, con relativo protocollo sui riders autonomi, stipulato dalle associazioni sindacali e datoriali operanti nel settore, l’altro stipulato dalla neonata associazione delle imprese di delivery (Assodelivery) e dal neonato sindacato dei riders (aderente però ad UGL)8. A prescindere dalle valutazioni circa il loro contenuto9, si riproduce qui il classico conflitto giurisdizionale, la cui soluzione in via autoritativa, attraverso il criterio del contratto stipulato “nel più ampio settore”, ha evidenti ripercussioni sulla libertà sindacale.
Piuttosto che lasciare simili scelte all’autorità amministrativa, non è forse meglio, e proprio per chi ha più a cuore la libertà sindacale, legiferare attraverso un dibattito franco e trasparente, volto a contemperare gli interessi in gioco?

3. … la questione salariale e il salario minimo legale

 

Legato a questo tema, vi è sullo sfondo quello del salario minimo. Bisogna prendere atto che l’interruzione dell’integrazione sistemica dell’ordinamento statuale e di quello intersindacale ha reso problematica la determinazione dell’equa retribuzione ex articolo 36 Cost. Da tempo l’introduzione di un salario minimo fissato per legge è oggetto di un dibattito inspiegabilmente inconcludente che non ha consentito di varcare la soglia dell’an per passare a quella del quomodo, l’unico modo per pervenire a soluzioni razionali. Peraltro, rispetto all’ipotesi del salario minimo si possono comprendere assai più le cautele delle associazioni datoriali che non quelle delle associazioni sindacali dei lavoratori. Vorrà pure dire qualcosa se, nella quasi totalità dei paesi europei, vi sono meccanismi di determinazione legale dei salari, oggi incoraggiati dalle istituzioni europee.
La questione del rapporto tra determinazione legale del salario e contrattazione collettiva è vecchia quanto il diritto sindacale. Anche gli Webb l’hanno affrontata nel loro Industrial Democracy, giungendo alla conclusione che, lungi dall’ostacolare la contrattazione collettiva, il salario minimo risponde alle esigenze sia di garantire una tutela minimale a settori che il sindacato non è in grado di raggiungere, sia di fornire un sostegno generalizzato di base all’azione sindacale, sempre suscettibile di miglioramento.
Vi sono disegni di legge presentati in Parlamento che realizzano, tra l’altro, un’integrazione interessante tra fissazione legale del salario minimo, demandata in prima battuta ai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, e, appunto, misurazione e certificazione della rappresentatività sindacale; con la previsione, comunque, di un limite quantitativo - che, non lo nascondo, è difficile fissare, tenendo conto di tutte le variabili, in primis economiche - operante come pavimento per la contrattazione collettiva e come parametro per i settori non coperti dalla stessa. Tutto ciò darebbe una risposta, perfino tardiva, ai possibili inceppamenti del sistema di contrattazione collettiva.

4. Rappresentatività sindacale e contrattazione aziendale

Relativamente alla contrattazione collettiva aziendale, non vi è per definizione il problema della selezione tra due o più contratti collettivi astrattamente applicabili. Tuttavia, sappiamo che il legislatore, tutte le volte in cui attribuisce ai contratti aziendali il potere di derogare/integrare le norme di legge ovvero li assume come presupposto per la concessione di benefici a carico dello Stato, seleziona i soggetti sindacali legittimati alla stipulazione attraverso il riferimento al sindacato
- o, meglio, ai sindacati - comparativamente più rappresentativi a livello nazionale. Con una disposizione contenuta nel decreto legislativo n. 81 del 2015 (l’art. 51), e poi diventata ricorrente nella legislazione successiva, si attribuisce il potere di stipulare i contratti collettivi aziendali, naturalmente non quelli “liberi” ma quelli con funzione integrativa/derogatoria del precetto legale ovvero autorizzatoria, non solo “a associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” ma anche alle “loro” RSA a ovvero alla RSU15. Stupisce, dunque, che l’art. 14 del cosiddetto decreto agosto (d.l. n. 104 del 2020, conv. nella l. n. 126 del 2020), poi ripreso dall’art. 12 del d.l. n. 137 del 2020, nell’attribuire alla contrattazione aziendale il potere di disattivare il divieto di licenziamento attraverso accordi di incentivazione alla risoluzione consensuale del rapporto, si limiti a fare riferimento agli accordi stipulati “dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale”. Da qui si è tratto l’interrogativo, se non addirittura la conclusione, che RSA ed anche RSU sarebbero escluse dalla possibilità di stipulare autonomamente detto contratto. Per inciso, si può dubitare della correttezza della conclusione, potendosi ben ritenere che tocca all’autonomia sindacale individuare in concreto l’agente negoziale (le RSU sono riconosciute dalle maggiori confederazioni come il comune agente negoziale). Tanto più che l’organismo della RSU, operando a maggioranza dei componenti, consente di superare il problema dell’eventuale dissenso tra i sindacati. Analoga questione era sorta per la stipulazione dei contratti di solidarietà ex art 2, l. n. 863 del 1984, che ne demandava la stipulazione ai sindacati aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale: anche in quel caso, si dibatteva sulla struttura sindacale legittimata alla stipulazione del contratto di solidarietà proprio per la non menzione delle RSA. Ma pure in quel caso si era fatto correttamente notare come il legislatore ben avrebbe potuto aver utilizzato l’espressione “sindacati aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative” solo al fine di selezionare i soggetti astrattamente legittimati alla stipulazione, lasciando poi, del tutto opportunamente, all’autonomia sindacale di individuare in concreto l’agente negoziale.
Ma poi altri problemi sono stati sollevati: come sono identificati i sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale?; ed, appunto, è esercitabile e da chi un potere di veto? Si tratta esattamente dello stesso tipo di problema sollevato a proposito del richiamato art. 2 della l. n. 863 del 1984: e, a proposito di quella norma, si era evidenziato come dalla formulazione letterale non si ricavasse la necessità di una stipulazione unitaria, che avrebbe portato ad attribuire a ciascuna delle associazioni sindacali legittimate, magari scarsamente rappresentativa in azienda, un inammissibile potere di veto, con effetti potenzialmente paralizzanti la stessa contrattazione.

5. Conclusioni.

Mi rendo conto di avere concluso più segnalando problemi e prospettive che individuando precise soluzioni, ma proprio questo era l’intendimento del presente scritto. Dei problemi indicati dobbiamo avere contezza per attrezzarci a risolverli se vogliamo affrontare con gli strumenti adeguati la fase post Covid. A meno che, provvidamente, si riproducano le condizioni dell’unità di azione sindacale e datoriale, che hanno fatto ritenere superflua qualsiasi prospettiva regolativa. Ma, francamente, per una serie di fattori legati al mutamento, certo non temporaneo, del contesto economico e sociale non mi pare questa un’ipotesi realistica.

 

 

 

 

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