TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Retribuzione, direttiva UE e lavoro povero
1.1. La retribuzione costituisce un tema politico e giuridico che, in Italia più che in altri paesi, deve necessariamente essere declinato insieme a quello della contrattazione collettiva, al punto che spesso parlare della prima equivale a parlare anche dell’altra. Pertanto, trattare della questione salariale in Italia comporta necessariamente anche affrontare il tema della complicata struttura, giuridica e di relazioni industriali, della contrattazione collettiva nel nostro paese. La questione riguardante la struttura (e la retorica sulla struttura) della contrattazione collettiva in Italia non è, del resto, una questione recente. Infatti, la mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione ha prodotto effetti negativi su molti piani e, tra essi, l’assoluta mancanza di dati ufficiali e incontrovertibili sui contratti collettivi (nazionali e aziendali) vigenti e, soprattutto, sulla loro concreta applicazione; ciò ha inevitabilmente comportato interpretazioni dei dati a disposizione a volte anche profondamente diverse, quando non addirittura opposte.
La novità giuridica di questi ultimi anni è, però, costituita dall’approvazione della direttiva n. 2022/2041/UE, che ha modificato i termini della questione, nonostante sia diffusa la convinzione della scarsa efficacia concreta della Direttiva . Si tratterebbe secondo molti, cioè, di un atto giuridico con valore meramente politico che avrà un impatto quasi nullo sul nostro ordinamento : una sorta di norma di soft law travestita da hard law, approvata con l’ambizioso obiettivo di puntare «alla convergenza sociale verso l’alto e alla riduzione delle diseguaglianze retributive» (art. 1), che riserva una particolare attenzione ai gruppi a reddito medio-basso (considerando 6).
Proprio sotto questo punto di vista, invece, molta enfasi è stata data alla direttiva, considerata uno strumento atto a contrastare il generalizzato fenomeno dei working poor, ampiamente noto e sotto osservazione da parte dell’UE.
Nel nostro paese questa situazione, ovvero di quelle persone che pur lavorando si trovano in una condizione di povertà guadagnando meno del 60% del salario mediano nazionale, riguarderebbe ben oltre il 10% della forza lavoro. Tuttavia, la condizione sociale di chi ha un impiego eppure è costretto in una condizione di povertà costituisce un irrisolvibile ossimoro perché l’art. 36 della Costituzione, imponendo che la retribuzione garantisca un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, al netto delle sue connotazioni patriarcali nel quale era in primo piano il ruolo del male bread winner, intendeva che essa deve (almeno) liberare dai bisogni, oltre a permettere l’inserimento nella società in maniera dignitosa, appunto. E, invece, molto spesso attualmente l’obiettivo dell’esistenza libera e dignitosa costituzionalmente garantita per la famiglia non si riesce a raggiungere neppure con due salari.
1.2. Un elemento necessario, anche se non sufficiente, per poter garantire che le retribuzioni garantiscano un’esistenza libera e dignitosa è che vengano almeno aggiornate al costo della vita. Del resto, lo stesso art. 5, par. 5, della direttiva impone ai paesi che hanno un salario minimo fissato dalla legge di aggiornarlo almeno ogni due anni; tale disposizione non viene, invece, ripresa per i paesi, come l’Italia, nei quali il salario viene individuato esclusivamente per via contrattuale perché si presume che tale adeguamento avvenga naturalmente per opera dell’autonomia collettiva.
L’Italia sembra costituire un’eccezione a questa regola, in quanto la storia recente ha dimostrato come sia diventato un obiettivo “ideale” anche il mero recupero dell’erosione (pure parziale) dell’inflazione . Il problema dei ritardi cronici nei rinnovi contrattuali, che si attestano intorno alla drammatica media di oltre 3 anni e riguardano attualmente oltre 7 milioni di dipendenti , conferma l’impossibilità di considerare adeguati o sufficienti dei salari che non vengono adattati neppure all’aumento del costo della vita. Infatti, quasi il 60% dei contratti contenuti nel data-base Cnel risultano scaduti ma ciò non deve trarre in inganno perché non significa che essi non producano effetti, anche e soprattutto economici.
Peraltro, la deflazione prima e l’inflazione poi hanno colpito in maniera più forte il nostro paese rispetto ad altri, come i dati degli organismi internazionali più accreditati hanno confermato diverse volte , dando un quadro desolante della situazione salariale italiana attuale ma anche della sua evoluzione negli ultimi 15, in particolar modo se si compara con i fondamentali economici dei paesi vicini, come Francia, Germania e Spagna. Forse una delle ragioni che contribuisce a spiegare tale fenomeno è il fatto che il nostro sistema è ormai quasi del tutto privo di una rete di sostegno legale ai salari e alla contrattazione. Sostegno normativo ai salari non vuol dire, però, esclusivamente una norma di legge che fissi un salario minimo interprofessionale, bensì una complessa struttura normativa tesa a garantire tutela economica a chi lavora. Ad esempio, la sostanziale abolizione del reddito di cittadinanza portata a termine dal governo Meloni certamente non va nella direzione di sostegno ai salari, semmai in quella contraria perché porta molte lavoratrici e lavoratori a vedersi costretti ad accettare retribuzioni che possono essere in alcuni casi ben lontane dalla soglia della decenza.
2. La copertura della contrattazione collettiva
2.1. Conferma delle interpretazioni che tendono a svalutare il valore giuridico della direttiva deriverebbe dalla sostanziale mancanza di indicazioni precise da parte dell’UE riguardo alle modalità e ai criteri che devono utilizzare gli Stati membri per individuare la percentuale di copertura contrattuale che caratterizza i propri sistemi di relazioni industriali. La questione è particolarmente delicata nel nostro paese, al punto da diventare il centro del dibattito politico e sindacale non solo per la grave questione salariale nella quale ci troviamo ma anche a causa dell’insostenibile leggerezza delle regole dell’ordinamento intersindacale, in special modo della contrattazione collettiva. In questa complessa situazione, la direttiva sui salari minimi adeguati costituisce un’occasione unica per riflettere sul cuore del diritto sindacale alla luce degli obblighi che proprio essa impone
Il rapporto tra direttiva e copertura della contrattazione collettiva obbliga, infatti, a un approfondimento su come tale calcolo dovrà essere effettuato e su quali basi si giungerà ai dati che – ex art. 10 – dovranno essere inviati alla Commissione e su cui – ex art. 4, par. 2 – verrà valutato il rispetto della soglia dell’80% che esonera lo Stato dagli obblighi di adottare misure aggiuntive di promozione della contrattazione collettiva
L’Italia, infatti, sembra costituire – di nuovo – un’eccezione alla regola, indicata dalla stessa direttiva nel considerando n. 25, secondo cui salari fissati contrattualmente (con estensione sufficientemente generalizzata) darebbero vita a sistemi di relazioni industriali caratterizzati da retribuzioni minime elevate rispetto ai salari medi. Infatti, pur in assenza di dati ufficiali riguardo alla concreta copertura della contrattazione collettiva rispetto alla forza lavoro, ci sono stime che sembrerebbero essere tranquillizzanti perché posizionano il nostro paese al primo posto nell’UE, con percentuali che vanno dall’88 al 100%
È inevitabile, pertanto, domandarsi come possano essere conciliabili questi due dati – quello sull’alta copertura contrattuale e quello sui bassi salari – che sembrano contraddittori, anche secondo le indicazioni contenute nella direttiva. Bisogna, in primo luogo, prendere atto che è profondamente cambiato il sistema di relazioni industriali nel nostro paese e che le certezze di una volta devono essere messe in discussione, soprattutto a causa della presenza della cd. contrattazione pirata, realizzata da soggetti sindacali di dubbia rappresentatività , alla quale va imputata grossa parte della responsabilità dell’aumento del numero dei contratti stipulati negli ultimi anni.
Le stime ottimistiche sull’elevata copertura contrattuale del nostro sistema negoziale si basano fondamentalmente sulle comunicazioni Uniemens, che costituiscono l’unica fonte di informazioni sul tasso di copertura in quasi tutti i settori del lavoro privato del nostro Paese. L’elaborazione di questi dati da parte del Cnel è alla base di tutte quante le indagini – anche istituzionali – relative al tasso di copertura in Italia .
2.2. In realtà, però, c’è un aspetto giuridico che fa dubitare dell’affidabilità di queste analisi: si tratta di flussi informativi che riguardano la riscossione dei contributi previdenziali, ma non è scontato che quel ccnl sia lo stesso che viene applicato al rapporto per regolare le condizioni normative ed economiche di lavoro.
Infatti, nella scelta del contratto collettivo da usare per il calcolo dell’imponibile previdenziale il datore non è libero, essendo obbligato per legge al rispetto delle retribuzioni stabilite dal contratto collettivo della categoria di appartenenza stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative su base nazionale (art. 1 c. 1, d.l. n. 338/1989, conv. l. n. 389/1989, come interpretato dall’art. 2 c. 25, l. n. 549/1995) . Ciò implica che, per il calcolo dei contributi previdenziali da versare, il datore, in presenza di più ccnl per la propria categoria, non può comunque avvalersi di quello siglato dai soggetti meno rappresentativi; ma niente gli impedisce di applicarlo al rapporto di lavoro, scindendo pertanto la disciplina collettiva utilizzata a fini contributivi da quella applicata per determinare la retribuzione e gli altri diritti spettanti al lavoratore.
3. Efficacia e ruolo della giurisprudenza sull’art. 36 Cost.
3.1. L’altro elemento giuridico che viene spesso utilizzato per segnalare la buona tenuta del sistema della contrattazione collettiva italiana è la giurisprudenza sull’art. 36 Cost., ovvero ciò che le imprese sarebbero obbligate a garantire sul piano retributivo a tutti i propri dipendenti. In questo senso, si è sostenuto che in Italia vi è addirittura una copertura totale dei rapporti potenzialmente regolabili con contratto collettivo perché, proprio in virtù della nota consolidata lettura della previsione costituzionale, non vi è lavoratore la cui retribuzione possa essere inferiore a quella stabilita dalla fonte negoziale. Così l’Ocse e l’Amsterdam Institute for Advanced labour Studies, ad esempio, hanno stimato una copertura del 100% per il 2019 nel nostro Paese e lo stesso Cnel sottolinea che «un salario minimo già esiste ed è quello dei contratti collettivi che, diversamente da una legge sul salario minimo, tutela tutti i lavoratori di tutti i livelli e non solo i profili professionali più bassi» .
In realtà, però, la giurisprudenza sull’art. 36 Cost. non implica l’applicazione generalizzata del salario minimo previsto dai contratti collettivi, ma semplicemente utilizza quel riferimento come parametro per la determinazione da parte del giudice della retribuzione costituzionalmente dovuta; il che, peraltro, vuol dire che non si tratta di un’applicazione automatica – ma subordinata all’attivazione del lavoratore – del contratto collettivo.
Ciò implica, sul piano teorico, che il giudice non può essere considerato, neppure in prospettiva, autorità salariale. Infatti, i giudici non sono obbligati a usare il ccnl come parametro e hanno una discrezionalità da usare con la «massima prudenza» e con «adeguata e puntuale motivazione» qualora essi non dovessero risultare conformi ai criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione.
Del resto, è noto come molti contratti, incluso qualcuno tra quelli firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi, non sono più in grado di garantire un salario minimo in linea con il dettato costituzionale. L’esistenza di tante fonti di autonomia collettiva, oltre che di alcuni ccnl firmati dalle tre grandi confederazioni con retribuzioni inadeguate, ha determinato un disorientamento della giurisprudenza che spiega il recente rifiorire di pronunce in materia di salari.
Da molti è stato interpretato quest’orientamento anche come un avvertimento al legislatore a intervenire in maniera coerente per evitare una via giudiziale al salario giusto, che si sta determinando proprio a causa della sua indifferenza rispetto al tema .
In particolare, è stato molto discusso in dottrina il passaggio argomentativo in cui la Cassazione ha sostenuto che neppure un rinvio semplice alla contrattazione collettiva nell’individuazione del salario minimo garantirebbe le parti sociali dall’intrusione del giudice nella valutazione della conformità della retribuzione fissata dai ccnl rispetto all’art. 36 Cost. A parere di chi scrive, tale inciso non deve essere sopravvalutato e deve necessariamente essere interpretato rebus sic stantibus; infatti, questa posizione dei giudici di legittimità, che sottolinea il ruolo della giurisprudenza di garante ultimo dei diritti, potrebbe probabilmente modificarsi se il rinvio normativo fosse collegato a una verifica della rappresentatività dei soggetti firmatari dei contratti, che garantirebbe la costituzionalità della clausola salariale collegando gli artt. 36 e 39 Cost.
Così come nulla potrebbe dire probabilmente il giudice del lavoro se il legislatore individuasse una soglia minima oraria al di sotto della quale nessun lavoratore potrebbe essere pagato, purché tale soglia venisse adeguata periodicamente almeno al costo della vita, come impone anche la direttiva.
3.2. Conoscenza e conoscibilità del salario minimo a cui si ha diritto
La conclamata stagnazione delle retribuzioni nel nostro paese ha portato molti interpreti a mettere in discussione il ruolo della contrattazione collettiva nella fissazione dei salari e nel mantenimento del suo valore reale. Le difficoltà che l’autonomia collettiva incontra negli ultimi anni nello svolgimento di questo compito, che le è stato attribuito dopo l’abrogazione della scala mobile, sono evidenti e confermate anche dal Patto per la fabbrica che sottolineava infatti l’importanza dell’obiettivo di “contribuire a determinare le condizioni per migliorare il valore reale dei trattamenti economici e, nel contempo, favorire la crescita del valore aggiunto e dei risultati aziendali”.
D’altra parte, i ccnl devono necessariamente essere l’autorità salariale in via prioritaria in qualsiasi sistema normativo ma a maggior ragione nel nostro, considerata la struttura economica e di relazioni industriali del paese. Allo stesso tempo è, però, sempre più evidente la sensazione che essi possano non costituire più quella esclusiva per la già citata esistenza di contratti collettivi che non garantiscono un salario minimo in linea con il dettato costituzionale. È forte, cioè, la sensazione che in Italia sussista un problema di funzionamento (e di corretta rappresentazione) del sistema contrattuale non meno urgente di quello salariale e anzi a esso strettamente collegato.
Pertanto, pur non volendo farsi ingabbiare nella dicotomia salario minimo legale sì/no che sta tenendo in ostaggio il dibattito politico (e anche accademico), non si può negare che una soglia minima di retribuzione oraria (di 9 euro, ma perché non 10 o 11?) potrebbe avere effetti benefici su diversi piani perché costituirebbe non solo una soglia giuridica al di sotto della quale non si può scendere ma anche “psicologica”. Infatti, il sistema che garantisce il salario minimo attraverso il rinvio al ccnl derivante dal combinato disposto dell’art. 36 Cost. e dell’art. 2099 c.c. esiste da decenni, eppure, è evidente che le stesse lavoratrici e lavoratori non sempre percepiscono di avere questo diritto: cioè si fa fatica (e in molti casi neppure si sa) che nel settore merceologico nel quale si lavora esiste un minimo retributivo individuato da un qualsivoglia ccnl che dovrebbe costituire una garanzia per tutti. Un diritto sconosciuto (o difficilmente conoscibile) non è un diritto; perciò, l’esistenza di una soglia minima per chiunque facilmente riconoscibile renderebbe l’esercizio di questo diritto molto più concreto.
La questione non è solo pratica però, ma anche di principio, cioè riguarda il valore economico che si vuole riconoscere al lavoro in un paese che nel primo articolo della sua Costituzione afferma che si fonda sul lavoro, non sullo sfruttamento del lavoro, perché l’art. 36 non è un mero diritto di credito, ma un diritto sociale, la cui attuazione risulta imprescindibile per dare senso a tutto l’impianto della nostra Costituzione .