testo integrale con note e bibliografia
1. Il tema del convegno nazionale CSDN svoltosi a Torino a giugno 2024, “salario e dignità”, deve essere, qui, indagato nella prospettiva dei mezzi e dei risultati. La domanda che ha animato la terza sezione del Convegno è, infatti, centrata sul binomio legge – contrattazione collettiva. Ci si chiede, in buona sostanza, quale sia il giusto equilibrio che si debba raggiungere fra questi due strumenti per conseguire il risultato indicatoci dall’articolo 36 della Costituzione, cioè, avere nel nostro Paese “salari giusti”, cioè, proporzionati alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e, in ogni caso, sufficienti per garantire una esistenza libera e dignitosa. Questa riflessione è naturalmente alimentata dalla possibile introduzione, nel nostro ordinamento giuridico e in quello sindacale, di un salario minimo legale. In questa prospettiva le principali implicazioni da indagare sono due. La prima riguarda sicuramente il rapporto di contraddizione che il salario minimo legale avrebbe, o, potrebbe avere, con ciò che siamo soliti definire “salario giusto” cioè, la retribuzione proporzionata e sufficiente come definita dai principi costituzionali dell’articolo 36. La seconda riguarda, invece, gli effetti che l’introduzione di un salario minimo legale avrebbe, o potrebbe avere, sulla contrattazione collettiva, alla luce del ruolo e del fine che a quest’ultima vengono attribuiti dall’articolo 39 della Costituzione. Insomma, mentre, per il giurista si tratta essenzialmente di risolvere l’antinomia, forse più apparente che reale, che deriva dalla coesistenza di due differenti nozioni di retribuzione, quantomeno, nella prospettiva costituzionale della proporzionalità e sufficienza; per gli attori della contrattazione collettiva la questione del salario minimo, pone ben altro genere di questioni. Ad ogni modo, essere, pregiudizialmente, pro o contro il salario minimo fissato per legge, ha ben poco senso. Gli effetti sulla contrattazione collettiva, infatti, dipenderanno direttamente dai contenuti che si vorranno inserire nell’eventuale legge per un salario minimo in Italia. Questa approccio pare essere non solo quello più onesto intellettualmente ma anche quello più utile sia per il dibattito fra i giuristi che per le discussioni fra coloro che si occupano di relazioni industriali. Pare, dunque, logico ed opportuno rappresentare il tema della relazione fra contrattazione collettiva e legge, seguendo una traccia di ragionamento che potrebbe darsi questi obiettivi: illustrare, preliminarmente due aspetti di scenario che, a mio avviso, non possono essere ignorati; indicare, quindi, due sfide che debbono essere affrontate dalla contrattazione collettiva; infine, concludere indicando due nodi da sciogliere e due possibili vie d’uscita.
2. Due aspetti di scenario non possono essere ignorati, se si vuole dare una risposta pertinente alla domanda della terza sezione del convegno. Il primo aspetto riguarda lo stato di salute della contrattazione collettiva e il secondo riguarda, invece, il livello dei salari in Italia. Sullo stato di salute della contrattazione collettiva, si possono avere giudizi contrastanti così come si può essere più o meno ottimisti sul suo futuro. Alcuni dati, però, non possono essere irrilevanti ai fini del nostro giudizio che deve guardare al “fine ultimo” che la contrattazione collettiva, idealmente e costituzionalmente, deve perseguire: stipulare contratti collettivi (nazionali di categoria) con regolarità e con efficacia generalizzata, cioè, con validità erga omnes. Tutti sappiamo bene che questo “fine ultimo” non, è giuridicamente perseguibile, stante la mancata attuazione dell’articolo 39 della nostra Costituzione. Pochi considerano, però, con un sufficiente livello di preoccupazione, il progressivo affievolirsi del tentativo, messo in campo dal legislatore negli ultimi cinquant’anni, volto ad ottenere – seppur surrettiziamente – proprio quel “fine ultimo” indicato dalla Costituzione. Pare evidente, infatti che abbiano perso gran parte della loro efficacia le misure di premialità e le penalizzazioni, che varie leggi hanno introdotto per incoraggiare ed estendere il più possibile l’applicazione del contratto collettivo nazionale stipulato da organizzazioni comparativamente più rappresentative. Lo dimostra l’ingente numero di contratti collettivi di categoria depositati all’archivio contratti del CNEL, molti dei quali stipulati da organizzazioni di rappresentanza datoriali e sindacali inesistenti o quasi e, comunque, sconosciute ai più. A dicembre 2023 risultavano un totale di 1033 contratti collettivi nazionali di lavoro, di cui 971 nel settore privato. Un dato molto significativo che non può essere ignorato semplicemente obiettando che i 210 contratti collettivi stipulati da federazioni di Cgil Cisl Uil coprirebbero un totale di oltre 13 milioni di lavoratori, pari al 95% della forza lavoro del settore privato. Il fatto che il numero di questi contratti - con evidenti pattuizioni in dumping rispetto alla contrattazione nazionale di categoria dei sindacati comparativamente rappresentativi - cresca progressivamente in quantità deve, infatti, farci dubitare, da un lato, dell’efficacia degli interventi ad adiuvandum del legislatore, dall’altro, del sistema di vigilanza e dei controlli.
Per dare un giudizio sullo stato di salute della contrattazione collettiva non si può ignorare anche un secondo aspetto. Negli ultimi anni le relazioni industriali sono state inevitabilmente segnate dagli shock come la pandemia e la fiammata inflazionistica. In questa congiuntura difficile, la regolarità della contrattazione collettiva (e, di conseguenza, anche la dinamica retributiva che essa determina) ha mostrato andamenti alquanto differenziati tra settori. Nel settore dell’industria la situazione contrattuale è rimasta sempre abbastanza regolare. Ciò è dimostrato dai dati Istat, secondo cui nell’ultimo anno il tasso di copertura della contrattazione collettiva, ovvero la quota di lavoratori coperti da CCNL in vigore, è risultato sempre ben oltre il 90% (il dato più recente è relativo allo scorso giugno e indica una copertura pari al 93,2%). Negli ultimi 12 mesi, inoltre, l’attesa media per il rinnovo per i dipendenti con contratto scaduto è stata pari a meno di 5 mesi. Nel settore dei servizi privati, il tasso di copertura è oscillato attorno a quota 30% per gran parte dell’ultimo anno, risalendo al 70% solo da marzo scorso, dopo il rinnovo del CCNL del commercio scaduto nel 2019. Negli ultimi 12 mesi, l’attesa media per il rinnovo per i lavoratori di questo settore con il contratto scaduto è risultata pari a 38 mesi. Infine, nel settore pubblico il tasso di copertura continua a essere nullo, in virtù del forte ritardo con cui le tornate contrattuali si chiudono. Detto, in parole semplici, il rinnovo arriva quando il triennio di riferimento è già scaduto.
Alla luce di questi numeri, non si può essere completamente soddisfatti di come funziona “mediamente” la contrattazione collettiva in Italia. Le aritmie sono evidentissime, anche al netto di quanto accade nel pubblico impiego dove operano, certamente anche, logiche meta-sindacali. Ciò che sconcerta maggiormente, però, è l’atteggiamento di rassegnata indifferenza con cui si accettano le logiche conseguenze della pluralità di contratti collettivi nazionali di categoria all’interno del medesimo perimetro settoriale. Infatti, è del tutto fisiologico che la pluralità di contratti collettivi produca fenomeni di “dumping contrattuale”, in molti casi, anche di non poco momento. Sappiamo bene che l’ottimo è nemico del bene, come recita un detto popolare, ma la contrattazione collettiva esplica pienamente la sua funzione solo se trova efficacia generalizzata entro un determinato settore, in modo che sia applicata da tutti i datori di lavoro a tutti i lavoratori. Che l’ordinamento giuridico e quello sindacale si siano gradualmente rassegnati, a non perseguire l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi nazionali di lavoro auspicata dalla Costituzione, è comprensibile. Il fatto grave è che entrambi ritengano accettabile e sufficiente indicare un generico criterio di selezione della pluralità dei contratti, piuttosto, che impegnarsi per avere regole che consentano di individuare il CCNL, “da prendere a riferimento”, per imprese e lavoratori di un determinato settore. Accettare l’attuale labile punto di compromesso, - peraltro, nella crescente incertezza su chi sia effettivamente “comparativamente più rappresentativo” - mi pare un appiglio molto fragile destinato a favorire scenari anche peggiori di quelli attuali. Del resto, se il compromesso funzionasse, o quantomeno, producesse un equilibrio stabile, non ci sarebbe discussione sulla necessità di un salario minimo fissato per legge. Neppure la magistratura avrebbe avuto motivo di pronunziarsi, come avvenuto recentemente, nelle controversie relative al “salario giusto”, con sentenze che determinano una retribuzione, proporzionata e sufficiente, maggiore rispetto a quella fissata da un CCNL., si badi bene, stipulato da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Forse, anche nelle relazioni sindacali, la moneta cattiva finisce per mettere in difficoltà quella buona.
La seconda considerazione di scenario riguarda, invece, l’ottica con cui osserviamo e discutiamo della dinamica delle retribuzioni. Quando si dibatte della questione salariale in Italia si considerano sempre i valori medi delle retribuzioni, non si bada troppo al rapporto con la produttività e non si guarda mai l’andamento dei singoli settori. Tramite le elaborazioni svolte dal Centro Studi di Confindustria sulla base dei dati della contabilità nazionale di fonte Eurostat è, invece, possibile ripercorrere il trend della produttività del lavoro e dei salari orari negli ultimi venti anni. Se si guardassero questi dati con attenzione si vedrebbe che, nel settore dell'industria manifatturiera, negli ultimi vent'anni i salari orari reali sono cresciuti del 20%. La crescita dei salari è risultata identica a quella registrata nella manifattura francese, in quella tedesca e in quella spagnola. Quando si procede alla stessa analisi con riferimento alla produttività del lavoro, l’Italia mostra un andamento molto più debole rispetto a quello degli altri paesi. Rispetto al livello registrato nel 2000, nel 2021 la produttività nel settore industriale in Spagna ha fatto registrare una crescita complessiva del 57,5%; in Germania e Francia del 40% circa; in Italia di poco meno del 20%. Dati, piuttosto, interessanti. Se, invece, si osserva la media delle retribuzioni, mettendo insieme tutti i settori della nostra economia, pubblico e privato, negli ultimi vent'anni vediamo che il nostro Paese ha retribuzioni piatte e i livelli di produttività piatti. Nel sistema di rappresentanza di Confindustria si stipulano 56-57 contratti collettivi, per più di 5 milioni di persone, quasi tutti, ma non tutti nell’ambito dell’industria manifatturiera. Ne deriva, quindi, che l’affermazione secondo cui la questione salariale non sarebbe un problema solo di qualcuno ma di tutti avrebbe un suo fondamento ma andrebbe completata aggiungendo un “seppur con diversi livelli di correità”. La conclusione di questa prima parte del ragionamento sugli aspetti di scenario appare, dunque, piuttosto ovvia e scontata: bisogna fare attenzione nel definire problemi e soluzioni, perché il fenomeno della contrattazione collettiva non si riassume nella “media” dei suoi tratti caratteristici.
3. Il nostro ragionamento sulla contrattazione collettiva deve, dunque, tener conto delle aritmie e delle disomogeneità che le due situazioni di scenario sopra descritte rendono evidenti. Bisogna, infatti, considerare che si profilano due importanti sfide destinate a incrociare necessariamente i destini della contrattazione collettiva e, non essendovi omogeneità, gli esiti di queste sfide potrebbero presentarsi anche ben differenziati fra settori, insomma, risultare “a macchia di leopardo”. Per comprendere l’importanza di queste due sfide, bisogna, però, alzare lo sguardo dalla quotidianità e sforzarsi di vedere oltre la linea dell’orizzonte.
La prima sfida alla contrattazione collettiva la pongono le grandi transizioni in atto. La sfida si riassume nella domanda: chi accompagnerà imprese e lavoratori in questa fase di importanti transizioni? Le tecnologie digitali, la crescente diffusione dei principi di sostenibilità e responsabilità sociale stanno cambiando il mondo occidentale, la sua economia, le nostre società. Se la contrattazione collettiva non dovesse più funzionare adeguatamente e con buona regolarità, non sarà certo in grado di accompagnare le transizioni che interessano il mondo del lavoro. In questo caso, sarà inevitabile che qualcun altro finisca per assumersi questo compito. Già oggi vediamo i sintomi di questo malessere, osservando il dibattito in Parlamento e i pronunciamenti recenti della magistratura. Insomma, quell’equilibrio fra legge e contrattazione collettiva che, fino ad oggi, ha accompagnato il processo di sviluppo del nostro Paese, cambierà, necessariamente, a vantaggio della legge e, di conseguenza, della giurisprudenza. Come un pendolo che oscilla fra due estremi, si passerà dalla condizione ante Statuto dei lavoratori, quanto agli albori degli anni 70, tutto era regolato dalla contrattazione collettiva, ad una situazione progressivamente vicina all'estremo opposto, dove tutto, o quasi, sarà affidato al ruolo regolatore della legge. La contrattazione collettiva, infatti, ha diritti e piena legittimazione soltanto nella misura in cui si dimostra in grado di adempiere la funzione che gli è affidata dalla Costituzione. Questa adeguatezza – a mio avviso – si misura già oggi con riferimento alla capacità di accompagnare le transizioni che attraversano il mondo del lavoro. Questa è la prima sfida che le trasformazioni del lavoro portano alle relazioni sindacali, in primis, e alla contrattazione collettiva, in secundis. Confindustria è pienamente consapevole di questa situazione. Lo testimoniano chiaramente i contenuti degli accordi interconfederali che abbiamo voluto sottoscrivere nel 2009, nel 2011, soprattutto, il Testo Unico per la misura della rappresentanza del 2014 e, da ultimo, il Patto per la fabbrica del 2018. I contenuti di questi accordi – di cui si dirà meglio oltre – definiscono, infatti, le premesse affinché la contrattazione collettiva possa vincere questa sfida ma, solamente se si riuscirà a darne piena attuazione, sarà possibile ottenere il successo sperato.
La seconda sfida è anche più impegnativa per la contrattazione collettiva. Oggi, a valle delle elezioni per il nuovo Parlamento europeo, questa sfida appare ancora più evidente. È lecito chiedersi quale contributo saprà dare la contrattazione collettiva alla costruzione di una Europa costretta, da un lato, a competere nella globalizzazione e, dall’altro, impegnata a sostenere il proprio livello di benessere che si riflette nel suo modello di welfare state. Questa sfida ha la stessa natura sia in Italia che in Europa, seppur la scala dimensionale del problema sia differente. Senza crescita economica non ci sarà sviluppo e benessere per la società. Alle relazioni industriali e alla contrattazione collettiva, in Europa e in Italia, non si può certo chiedere di vincere da soli questa sfida, però, di considerarne l’importanza, questo, certamente, si. È del tutto evidente, infatti, che il destino del nostro Paese sia in un contenitore più grande, che è l'Europa. Il mantenimento dei livelli di benessere della nostra società è, dunque, strettamente legato alla capacità di quest'area del mondo di continuare ad essere la parte più ricca e più prospera del pianeta e non sarà affatto facile, considerando che stiamo invecchiando, che ci stiamo impoverendo, che gli altri crescono molto più di noi e, oltretutto, crescono quelle aree del mondo che hanno valori abbastanza diversi dai nostri. Basti considerare che dopo aver vissuto la stagione della Cina come fabbrica del mondo, oggi abbiamo davanti a noi la stagione dell'intelligenza artificiale che, per il 65%, è strutturalmente negli Stati Uniti. Preoccupa anche l’enorme e progressiva crescita di poche aziende, le Big Tech, che hanno generato, non solo, ingenti profitti ma, soprattutto, enormi aspettative in tutti i mercati, specie in quelli finanziari. Tutto ciò rende l’intera economia mondiale molto più interconnessa di quanto si sia portati a ritenere e molto più vulnerabile di quanto non fosse in passato. Per comprendere la dimensione del problema che abbiamo di fronte, basti osservare che Apple, Microsoft, Nvidia, Alphabet (cioè Google) Amazon, Mata (cioè Facebook) e Tesla valgono oltre 13 mila miliardi di dollari, un valore ben più elevato del prodotto lordo dell’intera area euro. Di fronte a questi fenomeni non è possibile rimanere indifferenti e, per quanto ci si possa sentire nell’impossibilità di vincere la sfida, almeno, ci si deve impegnare per non agevolare la fine di un modello di società che ha fatto del suo sistema di welfare un elemento identitario per l’intera società europea. Alla difesa di questa identità, anche le relazioni sindacali, debbono dare il proprio contributo, con intelligenza e grande buon senso. Serve costruire un nuovo modello di sviluppo che, mantenendo la sua spina dorsale manifatturiera, poggi su imprese solide e competitive capaci di realizzare profitti, generando quella ricchezza indispensabile ad alimentare il sistema di protezione sociale che chiamiamo welfare state. Questo modello di sviluppo - cosa che molti sottovalutano – non può ispirarsi certamente al modello di capitalismo che va per la maggiore oggi. Dovremmo ricordare che le nostre radici collocano la storia e le esperienze delle nostre relazioni industriali, dentro l'idea di un'economia di mercato nella quale le imprese generano ricchezza, non soltanto a beneficio dei soci e dei lavoratori ma, anche, per sostenere un sistema di welfare capace di rendere la società più giusta ed inclusiva. La seconda grande sfida alle relazioni sindacali e alla contrattazione collettiva sta proprio qui: ricercare il giusto equilibrio fra competitività del sistema produttivo, distribuzione della ricchezza e sostenibilità del welfare state. Una ricerca che – seppur possa sembrare paradossale - passa anche per la vita quotidiana delle relazioni sindacali e della contrattazione collettiva, anche, del nostro Paese.
Interrogarsi, come stiamo facendo oggi, sul futuro della contrattazione collettiva significa misurare la capacità di affrontare queste due sfide. Certo ve ne sono molte altre, una infinità di altre questioni importanti e che appassionano maggiormente i giuslavoristi, però, a mio avviso, questo è il vero campo di battaglia. Qui si misurerà la capacità “strumentale” della contrattazione collettiva, qui si vedrà l’esercizio della responsabilità del ruolo che anche la nostra carta costituzionale assegna alle relazioni sindacali. La piena legittimazione delle relazioni sindacali arriverà solo se queste si dimostreranno in grado di accompagnare imprese e lavoratori nelle transizioni green, digitali, occupazionali, nonché, di collaborare a dare equità e giustizia al nostro sistema di welfare. Queste due grandi sfide richiedono una capacità di manovra ad ampio raggio, un raggio di azione europeo e nazionale che è proprio del livello interconfederale delle relazioni sindacali. Non ho dubbi in proposito: tocca alle grandi confederazioni traghettare le nostre relazioni sindacali – troppo aritmiche ed eccessivamente appiattite sulla ciclicità dei rinnovi dei contratti collettivi nazionali – verso scenari di più ampio respiro e di interesse generale. Tocca, ancora una volta, al livello interconfederale tracciare le linee entro le quali muoversi e realizzare un quadro di riferimento articolato che possa essere coerentemente abitato dalla contrattazione di primo e di secondo livello.
4. A questo punto, se si condividesse la necessità di affrontare queste due impegnative sfide, sarebbe necessario determinare la volontà, pianificare la strategia e prepararsi con consapevolezza al compito. Prima di ogni altra valutazione sarebbe, però, necessario considerare almeno i principali ostacoli che vanificherebbero ogni sforzo. Bisognerebbe, anzitutto, domandarsi cosa possa impedire alle relazioni sindacali di affrontare e sciogliere questi due importanti nodi gordiani, o meglio ancora, cosa possa ostacolare la piena presa di coscienza della necessità di affrontarli. A mio avviso, la risposta alla domanda è semplice: gli ostacoli principali da superare sono due. Questa risposta semplice non è però, unanimemente condivisa. Anzi, alcuni attori delle relazioni sindacali non riconoscono come tali, i due ostacoli, mentre, altri, pur riconoscendoli come fattori di impedimento di alcuni processi evolutivi, non sembrano davvero intenzionati ad affrontarli.
Il primo ostacolo viene dal passato. Le relazioni sindacali sono nate e sono state essenzialmente contrattazione collettiva, la contrattazione collettiva si è costruita sui rapporti di forza e questi hanno alimentato l’identità delle parti in causa. Lo spiego, parafrasando il famoso principio di Descartes, con una battuta: “contratto, dunque esisto”. Così la contrattazione ha finito per diventare un dogma identitario, specie, naturalmente, per il sindacato e il successo nel momento negoziale, misurato in termini di risultati acquisiti, rafforza l’identità. Questa lettura antagonista della relazione sindacale mal si concilia con la situazione del mercato del lavoro di oggi che, a mio avviso, dovrebbe indurre a guardare alla contrattazione collettiva come ad uno strumento più che come a un dogma identitario. Per valorizzare questa natura “strumentale” Confindustria difende la contrattazione collettiva e il fatto che sia fra i pochi a farlo con convinzione può sembrare persino un po’ paradossale. Da sempre, infatti, Confindustria è impegnata a mettere regole nella contrattazione collettiva ma, a differenza del passato, le regole di questi ultimi accordi interconfederali non sono finalizzate a limitare la forza della controparte. Queste regole sono volte principalmente a far funzionare meglio lo strumento della contrattazione collettiva, che per Confindustria, resta un mezzo che potenzialmente può rivelarsi molto utile alla causa delle imprese e dei lavoratori. Il buon funzionamento del sistema della contrattazione collettiva è, infatti, un necessario corollario della regolazione che avviene per legge. Proprio questo è il punto. Una visione della contrattazione collettiva, che deriva dall’esasperazione del principio “cartesiano” secondo cui “contratto, dunque esisto”, finisce per avere due effetti negativi. Il primo: riduce la relazione sindacale alla mera contrattazione collettiva e questa limitazione delle potenzialità della relazione non è una buona cosa in assoluto. Anzi, alla lunga potrebbe impoverire reciprocamente gli attori delle relazioni sindacali e rendere la loro azione piuttosto sterile e autoreferenziale. Non è neppure una buona cosa, in termini relativi proprio perché allontana gli attori delle relazioni sindacali da quelle due sfide descritte sopra. Queste ultime non sono il terreno ideale per la contrattazione collettiva ma per una progettazione comune e condivisa, che pure può passare attraverso il momento negoziale, ma non può esaurirsi con questo. Non riconoscere la negatività di questa “riduzione” della relazione alla contrattazione o non volerla superare è, in ogni caso, un errore di lettura del contesto. Da un lato è sotto gli occhi di tutti che il conflitto capitale lavoro, con la globalizzazione, ha perso la sua centralità a tutto vantaggio del mercato, inteso come consumo e dall’altro, i temi del welfare e la bilateralità mostrano quante potenzialità e quanti benefici possano derivare da una relazione sindacale meno conflittuale e più cooperativa.
Il secondo ostacolo deriva dalla confusione che accompagna il dibattito su rappresentanza e contrattazione collettiva. Questo tema lo si evoca spesso ma non lo si affronta mai con il necessario rigore intellettuale. Si confonde, troppo spesso volutamente, la finalità dell’oggetto, cioè, della contrattazione collettiva, con l’interesse del soggetto, cioè, il desiderio dell’associazione di rappresentanza, datoriale o sindacale, di allargare i confini della propria rappresentanza. La situazione di grande disordine che oggi abbiamo davanti ai nostri occhi è il frutto avvelenato di questa confusione. Il contratto collettivo segue l’attività ed è destinato a regolare i rapporti di lavoro di imprese e lavoratori che operano in un determinato settore. La sua massima efficacia la raggiunge se, in ogni settore, vi è un solo contratto collettivo nazionale di lavoro e non tanti contratti collettivi, quante sono le associazioni datoriali o sindacali che dichiarano di avere una rappresentanza nel settore. Il panorama della contrattazione collettiva mostra, invece, con evidenza che anche le principali organizzazioni sindacali stipulano contratti collettivi, con diverse associazioni datoriali, pur sapendo che questi contratti dovranno trovare applicazione nel medesimo settore. Spesso accade, quindi, che un'associazione datoriale “ottenga” dai sindacati la possibilità di sottoscrivere il “proprio CCNL”, nonostante, quegli stessi sindacati abbiano già stipulato un accordo collettivo con altre associazioni datoriali per lo stesso settore di attività. Il guaio è che i contratti collettivi non hanno il medesimo contenuto e, seppur le differenze possano essere in taluni casi anche minime, la loro semplice coesistenza rappresenta una minaccia alla tenuta del sistema contrattuale. Questa pulsione ad avere il “proprio contratto collettivo” ha assunto dimensioni preoccupanti anche nel mondo della rappresentanza datoriale “comparativamente più rappresentativa” oltre che, naturalmente, nelle aree meno nobili dove si punta al dumping associativo. Peraltro, è assai raro che questa istanza trovi una sua legittimazione nelle trasformazioni del tessuto produttivo. Non si tratta infatti, di nuovi contratti per nuovi settori dell’economia ma, più frequentemente, si è in presenza di un’associazione datoriale, appartenente ad un vecchio settore merceologico che, volendo liberarsi da un vecchio CCNL o da un legame associativo, opera per avere un proprio nuovo contratto. Insomma, l’interesse dell’appartenenza associativa non può essere confuso e, peggio ancora, anteposto alla finalità del contratto collettivo nazionale. Pregiudicandone la funzione, in ultima analisi se ne compromette il destino. Questo è un peccato grave che, se si vuole preservare la funzione della contrattazione collettiva, bisogna riconoscere ed evitare. Si tratta di abitudini che vanno abbandonate, non soltanto perché sono di nocumento alla stessa contrattazione collettiva ma, soprattutto, perché in questo modo non si daranno nemmeno risposte ai nuovi bisogni che interrogano il welfare state. Non vi è dubbio, infatti, che alcuni bisogni traggono la massima possibilità di soddisfazione, da un approccio previdenziale e mutualistico di ampio respiro. Moltiplicando i contratti collettivi si moltiplica anche la bilateralità che questi producono rendendo sempre più difficile realizzare, ad esempio per l’assistenza sanitaria o la non autosufficienza, fondi bilaterali di dimensione adeguata. Per invertire la rotta serve coraggio e grande determinazione nel livello interconfederale.
5. Eccoci finalmente alle conclusioni. Descritte le condizioni di scenario, indicate le due importanti sfide, denunciati gli ostacoli che si frappongono alla soluzione dei problemi, è giunto il momento di discutere le possibili via di uscita. A mio avviso, abbiamo due possibilità, due possibili vie di uscita. Smettere di comportarci come Atene con gli abitanti di Melo, secondo il racconto che ce ne ha fatto Tucidide, invertire completamente la direzione di marcia per costruire un futuro diverso per le relazioni sindacali oppure, ignorare questa lezione, proseguire lungo il sentiero che abbiamo seguito sino ad oggi, lasciando che sia la corrente a trasportarci.
Per comprendere la necessità di invertire la rotta è utile riflettere su un fatto storico. Tucidide, nel raccontare le vicende della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), si sofferma sullo scontro fra Atene e gli abitanti dell’isola di Melo. Atene pone agli oligarchi di Melo una alternativa: sottomettersi, diventando alleata di Atene ovvero, essere distrutta e ridotta in schiavitù. Gli oligarchi di Melo propongono allora agli Ateniesi una terza via: “essere neutrali”, proposta che tuttavia, gli ambasciatori di Atene rifiutano. Tucidide racconta che gli oligarchi di Melo cercarono di convincere gli Ateniesi a desistere dal loro proposito invocando la necessità di agire “secondo giustizia”. Tucidide riporta la risposta finale degli Ateniesi che, dice coì: “nelle cose umane il giusto viene preferito per una eguale necessità” cioè, quando è un interesse comune, mentre “chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede”. Una sintesi geniale: si fanno le cose secondo giustizia quando è un interesse di tutte e due le parti, ma quando una delle parti è più forte dell'altra è inutile fare appello alla giustizia. Le relazioni sindacali pensano ancora che tutto, o quasi tutto, sia impostato sulla forza. Ma se si costruisce la relazione sindacale solo sulla contrattazione collettiva e quest’ultima solo sulla forza e nonostante ciò non si riesce a rinnovare i contratti collettivi per 6-8 anni – come avviene in diversi ambiti - non siamo forse nella situazione in cui conviene ad entrambe le parti fare le cose secondo giustizia? Ora, se si continua a pensare che le relazioni industriali siano essenzialmente contrattazione, la contrattazione sia essenzialmente forza e poi la forza non produce risultato, non sarà giunto il tempo di invertire la direzione di marcia o quantomeno, cambiare rotta? Del resto è logico che i rapporti di forza siano destinati a modificarsi nel tempo: l’economia si terziarizza e la terziarizzazione dell’economia ha effetti importanti sul tessuto economico e sociale, soprattutto, sulla sostenibilità del welfare. Il conflitto capitale lavoro lascia la centralità del palcoscenico ad altre questioni che hanno come protagonista il cittadino consumatore, come si accennava e la sostenibilità complessiva del nostro sistema di welfare, intanto, comincia a preoccupare. Forse aiuterebbe ripensare il modello delle relazioni sindacali, riflettendo sul fatto che il futuro sembrerebbe orientarsi verso l’intelligenza, ancorché artificiale, piuttosto che verso la legge del più forte. A me pare incredibile che non si riesca a mettere più intelligenza che forza nei compiti che ci sono affidati. Senza una chiara inversione di rotta, questo sistema si trascinerà, sarà trasportato dalla corrente inerziale delle nostre abitudini ma non sarà in grado di dare risposte alle domande che sollevano le due sfide che abbiamo davanti. È sufficiente osservare la struttura della nostra contrattazione collettiva, per rendersene conto. Già oggi si vedono settori dove la contrattazione collettiva fatica ad avere regolarità ed efficacia, la centralità verticale dei settori merceologici è messa in discussione dalle filiere e dai crescenti fenomeni di dumping contrattuale. Nemmeno la contrattazione di secondo livello si presenta come alternativa credibile, avendo diffusione e contenuti scarsamente omogenea sul territorio nazionale. Bisognerebbe uscire rapidamente dallo stereotipo del passato e guardare i bisogni; coltivare il desiderio di voler dare una risposta a questi bisogni e, quindi, costruire soluzioni. Insomma, come si dice, bisogno, sogno, l’utopia. Credere nella possibilità di costruire un futuro migliore per tutti, tenendo in conto, necessariamente, i grandi temi di cui si è discusso nel convegno di Torino che sono quelli della giustizia, dell’equità, del welfare, del sistema delle regole. Abbiamo di fronte una sfida che va ben al di là del singolo rinnovo contrattuale, una sfida che impone, soprattutto, alle grandi confederazioni sindacali, la responsabilità di guardare più lontano. Confindustria ha fatto una scelta precisa: tenere in buona salute il sistema della contrattazione collettiva, dentro regole di legittimità e democrazia a partire dalla misura della rappresentanza, un tema che Confindustria ha il merito di aver sollevato e affrontato per prima. Se oggi tutti parlano di misure della rappresentanza, è per merito dell’accordo interconfederale del 28 giugno del 2011 e, dopo due anni di trattativa, un secondo accordo interconfederale che hanno firmato tutti i sindacati italiani. Confindustria lo ha negoziato e sottoscritto il 10 gennaio 2014 con CGIL CISL e UIL, ma oggi è un Testo Unico che regola i rapporti fra Confindustria e oltre 200 organizzazioni sindacali. È un accordo con contenuti molto più ampi di quel che si è soliti raccontare. Gli ultimi accordi interconfederali sottoscritti da Confindustria contengono, infatti, le premesse per costruire un ordinamento intersindacale che, per funzionare, non dovrebbe avere necessariamente bisogno né del giudice, né del legislatore. In questo disegno il principio cardine è il rispetto delle regole è il convincimento che siamo ormai maturi per vivere in un contesto in cui “il giusto viene preferito per una eguale necessità”, per dirla con Tucidide. È un ordinamento che richiama gli attori delle relazioni sindacali alle proprie responsabilità, che fissa in modo partecipato e democratico le proprie regole e che impronta alla coerenza i comportamenti. Sono proprio questi ultimi a dover cambiare. La madre di tutti i guai che affliggono le relazioni sindacali non si deve cercare nel sistema delle regole ma nell’antica abitudine a disattenderle, sulla scorta di quel principio per cui “chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede”. Insomma, anche il supporto di una legge servirebbe a poco se prima non si chiarisce esattamente quale contrattazione collettiva vogliamo regolamentare. Il contratto collettivo per l’impresa è uno strumento che evita la concorrenza sleale, per il sindacato dovrebbe essere lo strumento per tutelare in modo omogeneo i diritti delle persone che lavorano in un determinato settore. Se queste funzioni vengono meno, la contrattazione collettiva non potrà certo accompagnare le transizioni in modo efficace. Al contempo, se le nostre relazioni sindacali non miglioreranno, non potranno certo affrontare la sfida che pone la questione della sostenibilità e dell’equità del nostro sistema di welfare. A me pare abbastanza ovvio, quindi, che si debba cambiare rotta e metter la testa a questi problemi se si vuole salvare la relazione e la capacità delle parti sociali di dare risposte ai grandi problemi del lavoro, dell’economia, della società.