testo integrale con note e bibliografia

In un momento storico caratterizzato da bassa crescita economica, in cui l'inflazione sta rientrando, ma i tassi d'interesse sono tuttora alti, la questione salariale è tornata al centro del dibattito pubblico e della riflessione economica.
Persiste una elevata incertezza sull’evoluzione delle tensioni geopolitiche e le prospettive di crescita rimangono moderate. Sia i servizi che l’industria sono ancora in difficoltà, benché vi siano segnali di miglioramento. Nel 2023, il PIL in Italia è cresciuto dello 0,9%, in decelerazione rispetto al 2022 (+4,0%), ma con un tasso superiore a quello dell’area euro. Secondo le stime della Banca d’Italia, i consumi sono stagnanti e gli investimenti si sono contratti. Il turismo da record ha sostenuto l’economia italiana nel 2023. Tuttavia, la ripresa dell’export rimane faticosa, mentre i consumi nell’Eurozona sono in fragile risalita. Il costo di gas e petrolio non è aumentato significativamente, ma rimane storicamente elevato.
Dal punto di vista salariale, permangono le conseguenze della forte inflazione. L’impoverimento delle retribuzioni italiane, già stagnanti da decenni, è stato tra i più gravi tra le economie avanzate. Negli ultimi anni, l’Italia, già caratterizzata da una lunga stagnazione dei salari reali prima dell’aumento dell’inflazione, ha vissuto una fase prolungata di alta inflazione (+17,3%, in termini cumulati, nel periodo 2021-2023). In questo periodo, la dinamica salariale non ha seguito quella dei prezzi. I salari sono stati infatti erosi da un’inflazione determinata principalmente dalla crescita dei profitti. Anche un ritorno a un tasso di inflazione del 2% non ha ripristinato il potere d’acquisto perso dai lavoratori in questi anni.
Secondo uno studio pubblicato dal Sindacato europeo nell'ultimo anno, tenuto conto dell'inflazione, i salari reali dei lavoratori europei sono diminuiti dello 0,7%. Nel corso del 2023, l'Italia è tra i Paesi europei con la maggior riduzione dei salari reali, -2,6%, mentre la Francia si attesta a - 0,6% e la Germania a -0.9%: in percentuale, una diminuzione di oltre quattro volte in più rispetto a quella subita dai lavoratori francesi e di quasi tre volte in più rispetto a quella dei lavoratori tedeschi. Solo Repubblica Ceca e Ungheria registrano percentuali peggiori. Le lavoratrici e i lavoratori italiani, dunque, non riescono ancora a recuperare la perdita di potere di acquisto causata dall'ondata inflazionistica, mentre i profitti di imprese e multinazionali sono cresciuti.
La persistenza di una “questione salariale”, nel nostro Paese, oltre a rimarcare un problema di equità redistributiva, solleva ingenti conseguenze sotto il profilo della domanda interna, quindi dei consumi. In assenza di politiche retributive davvero espansive, contrarie al destino di stagnazione cui sono condannati da quasi tre decenni i salari reali, e senza una rinnovata capacità di spesa, è impossibile che i consumi e il mercato interno possano contribuire a combattere la recessione che stiamo vivendo, e che le famiglie possano quindi tornare ai livelli di reddito precrisi e superarli. Questa stagnazione accompagna una parallela bassa produttività, che è aumentata solo dello 0,4% in media all’anno: un dato preoccupante, soprattutto se confrontato con la Germania, dove la produttività cresce dell’1,3%. La produttività non cresce, anche perché il costo del lavoro è altrettanto basso: ciò spinge le imprese a non investire, a non fare ricerca e innovazione e a non riorganizzarsi. La risposta imprenditoriale alle sfide tecnologiche e ambientali è stata debole, paradossalmente anche a causa di un ambiente interno particolarmente favorevole in cui le imprese hanno operato, sia in termini di costo del denaro e del lavoro (diretto e indiretto), sia grazie alle misure di decontribuzione e defiscalizzazione concesse dai governi per raggiungere determinati obiettivi di politica del lavoro. La quota degli investimenti privati si è ridotta, negli ultimi anni, di circa 2,5 punti percentuali; anche nel settore pubblico vi è stata una diminuzione degli investimenti, legata alle politiche di austerità che, in un Paese caratterizzato da una spesa corrente elevata, hanno imposto un continuo ridimensionamento della spesa in conto capitale. E non si può neanche ignorare come anche la politica abbia affrontato questi ultimi anni senza una vera e propria strategia di sviluppo, senza aver ridisegnato un modello sociale di politica industriale, senza aver rinnovato il nostro piano energetico, senza progetti di risanamento ambientale e del territorio, senza sapere ancora come colmare i divari tra Nord e Sud. Queste condizioni hanno poi accentuato le disuguaglianze nel nostro Paese: l’indice di Gini, che misura le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, pur diminuendo nel 2023 dal 31,9% al 31,7%, rimane tra i più marcati d’Europa. Le lavoratrici e i lavoratori più giovani e a bassa qualifica, le donne, i precari, sono stati, per esempio, i più colpiti dalla recessione economica. Le diseguaglianze minano la coesione sociale e ci rendono tutti più vulnerabili socialmente ed economicamente.

È in questo contesto non proprio felice che s’inserisce la Direttiva Europea sui salari minimi adeguati. A poco meno di due anni dalla sua presentazione ad opera della Commissione Europea, è stata approvata dal Consiglio il 4 ottobre 2022. L’obiettivo principale della Direttiva UE è, infatti, stabilire un quadro di riferimento per migliorare l’adeguatezza dei salari minimi legali e l’accesso effettivo dei lavoratori e delle lavoratrici alla tutela dei salari minimi, anche attraverso la Contrattazione Collettiva. La Direttiva promuove esplicitamente la Contrattazione Collettiva, riconoscendo che sistemi di contrattazione forti e inclusivi svolgono un ruolo importante nel garantire un’adeguata protezione salariale.
Come Uil, abbiamo appoggiato fin da subito la proposta della Direttiva, attraverso l’intermediazione della CES (Confederazione Europea dei Sindacati), al fine non solo di sostenere in primis l‘aumento dei salari in tutta Europa, ma anche per combattere il dumping salariale fra i Paesi membri, contrastare le delocalizzazioni selvagge, che negli ultimi decenni hanno consentito una destrutturazione del nostro sistema produttivo nonché dei servizi, e soprattutto per rafforzare la Contrattazione Collettiva, particolarmente laddove vi sia una copertura contrattuale al di sotto dell’80%.
Quindi, la Direttiva ci dovrà aiutare a mettere ordine nel nostro sistema contrattuale e rafforzare il ruolo del Contratto Collettivo Nazionale. La retribuzione costituisce un tema politico e giuridico che, in Italia più che in altri paesi, deve necessariamente essere declinato insieme a quello della contrattazione collettiva, al punto che spesso parlare della prima equivale a parlare anche dell’altra. Pertanto, trattare della questione salariale in Italia comporta necessariamente anche affrontare il tema della complicata struttura, giuridica e di relazioni industriali, della contrattazione collettiva nel nostro Paese.

Per la Uil i Contratti Collettivi Nazionali sottoscritti dai Sindacati maggiormente rappresentativi sono lo strumento essenziale per aumentare i salari nei diversi settori economici, nonché per migliorare le condizioni di lavoro e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, garantendo un'equa redistribuzione della ricchezza. I Ccnl rappresentano il riferimento giuridico, in attuazione dell’articolo 36 della Costituzione, per determinare la “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro” dei diversi settori economici. Aumentare i salari è l’elemento chiave della nostra azione sindacale, mirando al contempo a far ripartire il mercato interno, sul quale continua ad insistere oltre l’80% delle imprese italiane, e con esso la produzione e l’occupazione.
Il nostro sistema contrattuale, pur essendo uno dei migliori nel panorama europeo, presente delle problematiche non più eludibili. Dal punto di vista prettamente salariale, per esempio, l’IPCA depurata che non consente di tenere conto in sede di rinnovo del CCNL della dinamica dei beni energetici importati, non ha permesso aumenti salariali in grado di coprire l’inflazione reale. L’ISTAT ha previsto l’IPCA depurata al 4,7% per il 2022, ben al di sotto della crescita del livello generale dei prezzi (7,5%) osservata nei primi 9 mesi del 2022.
Gli ultimi rinnovi contrattuali hanno cercato una mediazione, rinnovato a percentuali alte. I chimici, per esempio, hanno rinnovato un incremento salariale del 9%; gli edili del 10%; il Ccnl “energia e petrolio” è stato rinnovato al 9%; il “gomma plastica” all’8%.
Un ulteriore problema è dato dai tempi sempre più lunghi di rinnovo dei CCNL. Sempre l’ISTAT ci informa che il tempo medio è aumentato a quasi 34 mesi di attesa. Ci sono casi specifici in cui la situazione è stata ancora più grave. Per esempio, il CCNL Vigilanza Privata e servizi di sicurezza che copre oltre 100.000 addetti è rimasto in attesa di rinnovo per sette anni. Il CCNL del Commercio Confcommercio, rinnovato a fine marzo 2024, era scaduto nel 2018 e copre quasi 3 milioni di lavoratori e lavoratrici. Stessa sorte nel settore turistico, in cui oltre la lunga scadenza, si registra la maggiore elusione contrattuale, soprattutto nei servizi di pulizia in appalto. Non si tratta solo di un problema di minimi tabellari, molte denunce riguardano le ore di supplementare e straordinario non registrate, gestione arbitraria di permessi e ferie, scarsa attenzione alla sicurezza, pressioni sulle lavoratrici in maternità.
È evidente come alcune regole che negli anni ci siamo dati attraverso la stipula degli Accordi Interconfederali siano venute meno.
Il modello contrattuale dell’Accordo del ’93, che modificò completamente gli assetti preesistenti, fu certamente una rivoluzione, perché si affidò al primo livello, quindi al rinnovo dei contratti nazionali, il recupero del potere d'acquisto dei salari; e alla contrattazione di secondo livello il recupero della produttività. Prima di questa data, non era quella appena descritta la modalità di rinnovo dei contratti.
Che cosa è successo, dunque, negli anni?
La contrattazione di secondo livello sicuramente non ha toccato quel livello di diffusione e pervasività che le Organizzazioni sindacali e datoriali, a partire dall’Accordo Interconfederale predetto, si sono poste come obiettivo. E questo è tra i problemi maggiori da risolvere. La contrattazione di secondo livello rappresenta uno dei fattori strategici per contribuire a realizzare una più equa politica redistributiva e migliorare le condizioni di lavoro. Non è un caso, infatti, che sosteniamo da tempo che il modello contrattuale italiano, in particolare, e le relazioni sindacali, in generale, debbano continuare a fondarsi sui due livelli contrattuali tra loro complementari. Il CCNL deve essere la primaria fonte normativa, il fulcro della disciplina dei rapporti di lavoro, nonché il centro regolatore delle politiche salariali per tutti i dipendenti occupati in quel determinato settore. Il secondo livello invece, deve offrire la possibilità del punto di equilibrio, potremmo dire “in loco”, tra i legittimi bisogni di chi lavora e le necessità delle imprese, realizzando una efficace organizzazione del lavoro, senza dimenticare l’importanza, anche sociale, di redistribuire la ricchezza prodotta in azienda attraverso la predisposizione di salari variabili legati a obiettivi.
Una riflessione necessaria per il futuro dovrà concentrarsi su un tema centrale: le parti sociali intendono davvero rispettare gli accordi convenuti e continuare a praticare la contrattazione di secondo livello? So che questa può sembrare una provocazione, ma è un dato di fatto che la produttività, che era stata delegata alla contrattazione di secondo livello e che avrebbe dovuto riguardare una vasta platea di lavoratori, non ha trovato un riscontro concreto nella realtà.

Gli Accordi Interconfederali successivi, dal 2009 in poi, hanno cercato, tra le altre cose, di combattere la deriva della flessibilità lavorativa in precarietà. Quando, infatti, oggi parliamo di lavoro povero, parliamo di lavoro malpagato, del cosiddetto part-time involontario, di lavoro nero, di contratti atipici, di false partite iva, di una flessibilità estremizzata. E si tratta di cifre che si aggirano intorno ai 3 milioni di persone, in termini di lavoro nero e lavoro sommerso. Stante questa premessa, ne discende che i temi vanno rimessi insieme e si deve ragionare su un sistema Paese che sicuramente, tra tanti sforzi, è ancora lontano dal voler dare risposte vere per un salario dignitoso. Quest’ultimo va necessariamente messo in relazione con un lavoro che deve essere altrettanto dignitoso: quindi non con un lavoro povero, ma con il rispetto della persona, nella sua complessità, del lavoro che svolge e del salario che percepisce.
Dopodiché, bisogna interrogarsi su cosa ciascun attore del sistema lavoro debba fare per migliorare le cose. Dal punto di vista sindacale, è necessario riorganizzare il sistema contrattuale, affrontando e risolvendo le problematiche che ne compromettono l’efficacia.
Dall'altra parte, seguendo le richieste emerse nel dibattito attuale, ci si interroga su cosa possa effettivamente fare la magistratura. Il suo compito sarebbe quello di sostenere i Sindacati, e quindi i lavoratori e le lavoratrici, sia nelle vertenze individuali che in quelle collettive.
La serie di sentenze della Cassazione e di merito sull’art. 36 Cost. da ottobre 2023, se da un lato sono meritevoli di aver posto fine a retribuzioni contrarie alla dignità delle persone, dall’altro segnalano un rischio che va scongiurato, ossia di lasciare l’ultima parola ai giudici sui minimi retributivi, a prescindere dalla soglia che potrà individuerà il Parlamento o quella che viene concordata per contratto dalle parti sociali.
La sentenza con cui la Cassazione (n. 27711/2023) ha stabilito che il salario di una guardia giurata da 650 euro è troppo basso per poter rispettare i principi di un giusto salario stabiliti dalla Costituzione, costringendo dunque l'azienda ad aumentarglielo, va preso sia come un avvertimento alla politica ad accelerare sull'introduzione di un salario minimo legale, ma anche come un monito a tutte le parti sociali, sindacali e datoriali, sulla necessità di adottare minimi retributivi adeguati e di rinnovare i CCNL. Il tema del salario minimo rappresenta una delle questioni centrali che, oltre alla revisione del modello contrattuale – questione che riguarda le parti sociali – dovremmo sostenere con una forte mobilitazione sindacale. La UIL, da parte sua, ha storicamente espresso perplessità rispetto ad una legge sul salario minimo, finché le proposte presentate non erano integrate in un contesto contrattuale reale. Tuttavia, l’ultima proposta avanzata dalle forze politiche di opposizione, si inserisce all'interno del sistema di contrattazione, valorizzando i contratti nazionali e quelli firmati dalle associazioni datoriali e sindacali più rappresentative. Viene inoltre previsto che i minimi tabellari possano essere aggiornati qualora non raggiungano la soglia minima di 9 euro, con tempi di applicazione ragionevoli. Questo approccio non ci sembra alterare né il sistema economico né quello sociale.

Vi sono ulteriori obiettivi futuri sui quali è necessario lavorare per superare questa stagnazione salariale ormai duratura: fare i conti con i cambiamenti digitali intervenuti nel mondo del lavoro e nei modelli organizzativi, allargando le tutele e i diritti, in particolare negli appalti, contrastando la precarietà e riconoscendo il valore del lavoro attraverso interventi sulla formazione e sull'inquadramento professionale. Occorre ripensare, insieme alle forze politiche, a un vero progetto di politica industriale che sia in grado di dare nuova linfa al nostro sistema produttivo e di renderlo competitivo non solo nell’oggi ma anche per i prossimi anni. La Uil ritiene sia fondamentale tornare ad investire risorse, pubbliche e private, nell’economia reale. Perché è lì che il lavoro si genera ed è, dunque, lì che la responsabilità anche sociale del Paese deve tornare a giocare un ruolo importante.

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