testo integrale con note e bibliografia

1) La vicenda del c.c.n.l. Servizi Fiduciari.

La vicenda specifica del c.c.n.l. Servizi fiduciari, che ha raggiunto l’apice della sua popolarità all’esito delle ormai famose sentenze della Corte di cassazione in tema di salario minimo costituzionale dell’ottobre 2023 , ha origini lontane e complesse.
Essa costituisce la cartina di tornasole di una problematica nuova, che in termini relativamente brevi ha avuto ampia diffusione interessando un numero sempre più elevato di contesti produttivi, e la cui dimensione, non più trascurabile, ha costretto anche gli interpreti più riluttanti a prendere atto dell’esistenza di forme di povertà “nonostante” il lavoro e “nonostante” la contrattazione.
Il fenomeno del cd. lavoro povero può essere analizzato da diversi punti di vista, politico, legislativo, sociale, sindacale, giurisprudenziale; la prospettiva scelta per questo contributo è quella della contrattazione collettiva.
Individuare ed analizzare le ragioni che sono all’origine di un fenomeno è necessario; solo partendo dalle cause è possibile mettere in campo efficaci meccanismi alternativi che consentano, se non di eliminare, quanto meno di ridurre e contrastare il problema dell’inadeguatezza costituzionale di salari che si collocano drammaticamente ben al di sotto del minimo necessario a garantire l’endiadi “Salario e dignità”.
Secondo i dati forniti dal recente rapporto annuale dell’ISTAT per l’anno 2024, tra il 2013 e il 2023 il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde in Italia è diminuito del 4,5 per cento mentre nelle altre maggiori economie dell’UE è cresciuto a tassi compresi tra l’1,1 per cento della Francia e il 5,7 per cento della Germania; nel 2022 la quota di occupati a rischio di povertà in Italia è all’11,5 per cento, mentre la media UE è dell’8,5 per cento del totale.
I settori produttivi maggiormente interessati sono tendenzialmente quelli dei servizi fiduciari, di portierato, di pulizia, di facchinaggio, la logistica, l’agroalimentare, il tessile, ove dilaga il fenomeno dell’organizzazione del lavoro in cooperative, indistintamente spurie o reali, in appalti e subappalti più o meno leciti, a cui va aggiunto l’universo incontrollato del lavoro organizzato da piattaforme digitali.
Rispetto a questa deriva, la nota pronuncia della Cassazione sul salario minimo costituzionale rappresenta un punto di non ritorno, esiste un prima ed esiste un dopo.
Partiamo dal prima.
Il c.c.n.l. Servizi fiduciari è una sezione del c.c.n.l. Vigilanza privata e servizi fiduciari ed è un contratto sottoscritto anche da organizzazioni sindacali confederali dotate di certa rappresentatività sul piano nazionale, eppure è divenuto protagonista di un nutrito contenzioso avente ad oggetto domande di adeguamento salariale previa denuncia di violazione dei canoni della proporzionalità e sufficienza ex art. 36 Cost.
La sezione Servizi Fiduciari nasce dall’esigenza, condivisa dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, di predisporre una disciplina di settore per le attività riconducibili alla vigilanza non armata in relazione alle quali fino a quel momento venivano utilizzati contratti collettivi di ambito applicativo più ampio.
Quello dei servizi di cd. portierato, per i quali cioè non è necessario il servizio armato delle guardie giurate, è un settore che negli ultimi anni ha registrato un notevole aumento della fetta di mercato ma anche un sensibile crollo dei livelli retributivi; le aziende che vi operano forniscono servizi caratterizzati da mansioni standard, ripetitive e poco qualificate e non hanno tendenzialmente margini di negoziazione con le imprese committenti se non in termini di numero di persone e di tariffa oraria, la concorrenza nel mercato non è regolata dalla qualità del servizio offerto, ma dalla tariffa applicata nel rapporto ora-lavoratore, in esso prevale l’esternalizzazione del servizio, la frequenza del cambio appalto, l’utilizzo di contratti flessibili, il lavoro occasionale e di breve durata.
Il c.c.n.l. Servizi fiduciari nasce già indebolito dal fatto di doversi inserire in un sistema di concorrenza al ribasso, basato solo ed esclusivamente sul costo del lavoro, e sconta da subito la necessità di offrirsi come alternativa appetibile rispetto alla contrattazione applicata in precedenza nel settore proponendo salari di ingresso sensibilmente inferiori.
La contropartita offerta dal contratto alle decurtazioni retributive in termini di miglioramenti nei trattamenti accessori o normativi risulta meramente apparente, anche la prospettiva di un veloce adeguamento in sede di rinnovo contrattuale resta per tanti anni un’illusione.
Il risultato della contrattazione è avvilente; il contenzioso che ne è derivato si è concentrato inizialmente in importanti città del Nord, Milano, Torino e Firenze.
I ricorrenti denunciano di percepire una paga inferiore di circa un terzo rispetto a quella prevista da tutti i c.c.n.l. similari ed usualmente applicati nello specifico settore sino ad allora, e soprattutto di percepire una retribuzione per un contratto a tempo pieno di 40 ore settimanali inferiore al tasso-soglia di povertà assoluta stimato dall’ISTAT.
La retribuzione erogata di € 12.090 lordi annui, pari a 13 mensilità di € 930 lordi mensili, è inferiore del 27,03% rispetto a quella del c.c.n.l. Multiservizi che è pari ad € 16.569; del 23,66% rispetto a quella prevista dal c.c.n.l. Proprietari di fabbricati che è pari ad € 15.836,73; del 36,23% da quella di cui al c.c.n.l. Terziario che è pari a € 18.959,64.
Dopo alterne vicende nelle fasi di merito , ed il coinvolgimento del giudice amministrativo, il contenzioso ha avuto in Cassazione un esito favorevole ai lavoratori.
Delle sei pronunce, tre, depositate il 2 ottobre 2023, hanno cassato con rinvio le decisioni delle Corti di appello di Torino e Milano, di riforma di sentenze di primo grado che avevano ritenuto le retribuzioni censurate non conformi all’art. 36 Cost.; altre tre, depositate il 10 ottobre 2023, hanno rigettato i ricorsi presentati contro pronunce della Corte d’appello di Milano che avevano, invece, accolto le istanze dei ricorrenti a favore del c.c.n.l. CCNL Multiservizi.
I principi affermati dalla Suprema Corte sono noti a tutti; il clamore conseguito a queste pronunce è la prova dell’importanza dei principi in esse affermati e della loro portata innovativa; sul tema si susseguono da mesi convegni, dibattiti, tante pubblicazioni, raccolte di saggi ed interi numeri di riviste scientifiche.
Passando al dopo, oltre che sul contenzioso specifico gli effetti delle sentenze sono stati deflagranti determinando una sorta di reazione a catena.
Decidendo nel giudizio di rinvio di una delle sentenze della Corte di cassazione, la Corte di appello di Torino, in diversa composizione, ha riconosciuto al ricorrente le differenze retributive tra il c.c.n.l. Servizi Fiduciari e quello dei Proprietari di fabbricati.
Esito favorevole sempre presso la Corte di appello di Torino ha avuto anche il contenzioso relativo ad un contratto analogo il c.c.n.l. SAFI, personale dipendente di imprese pubbliche e private esercenti Servizi Ausiliari Fiduciari e Integrati ; in questo caso le differenze sono state riconosciute rispetto al c.c.n.l. Multiservizi.
La Corte di appello di Milano, 3 gennaio 2024, n. 960, ha invece applicato i principi affermati dalla Suprema Corte per adeguare la retribuzione corrisposta ad un dipendente di ITA, ex Alitalia, con mansioni di capo cabina; questa volta il contratto contestato è il c.c.n.l. trasporto aereo Parte Specifica Vettori.
Il Tar Lombardia, sentenza n. 2830 del 28 novembre 2023, ha ritenuto legittima l’esclusione dal bando di gara dell’appalto per l’affidamento del servizio di accoglienza dei visitatori nelle sedi museali del Comune di Milano di un’azienda che applicava ai suoi dipendenti il c.c.n.l. Servizi Fiduciari sul presupposto dell’inadeguatezza ex art. 36 del trattamento complessivo e della retribuzione che sarebbe stato riconosciuto al personale impiegato nel servizio.
Interessante anche la sentenza del Tribunale di Napoli, 7 marzo 2024 n. 1751, che ha respinto un ricorso avverso una diffida accertativa ritenendo legittimo l’intervento dall’Ispettorato del lavoro sull’inquadramento contrattuale dei lavoratori anche in applicazione dei principi richiamati dalle recenti decisioni di legittimità.
Sul fronte sindacale si segnala, infine, che dopo il faticoso rinnovo del maggio del 2023, intervenuto quasi dieci anni dopo la prima sottoscrizione, all’esito dello scossone subito nelle aule giudiziarie si è addivenuti all’accordo integrativo del c.c.n.l. Servizi fiduciari, siglato il 16 febbraio 2024, che ha riconosciuto un aumento del trattamento contrattuale stimato in misura del 30% e che ha portato la paga oraria a circa 8 euro, per poi arrivare, per il 2026, a 9 euro circa per ogni ora di lavoro.

2) Un altro settore a rischio: la filiera agroalimentare.

Esistono altri contratti collettivi con analoghe criticità? Sicuramente.
Oltre ai settori già investiti dal contenzioso giudiziale come altro contesto critico viene segnalato ad esempio quello agroalimentare, tipico bacino di lavoro povero caratterizzato da una estrema polverizzazione del tessuto economico, con tanti piccoli produttori fagocitati dalla grande distribuzione e dalle multinazionali che dominano il mercato, dalla stagionalità e varietà delle colture e dei territori, dalla presenza di manodopera prevalentemente avventizia ed irregolare, dalla piaga del “caporalato”, e dove l’eccessiva proliferazione di c.c.n.l. insistenti sulla stessa platea di imprese e lavoratori accentua la proliferazione di salari diversi per lavoratori della stessa regione e nelle diverse fasi della filiera.
Mentre nella fase della produzione agricola prevale il c.c.n.l. Agricoltura, corrispondente all’attività, quando si passa a quella industriale della produzione/trasformazione del prodotto il massiccio utilizzo delle esternalizzazioni funzionali ad un contenimento dei costi consente l’applicazione di c.c.n.l. diversi da quello per i dipendenti dell’industria alimentare, che sarebbe quello applicabile per categoria, a favore in alcuni casi della riemersione del c.c.n.l. Agricoltura, in altri casi dell’utilizzo di quello degli Alimentaristi artigiani ed in altri ancora addirittura del c.c.n.l. Multiservizi, del tutto estraneo al contesto produttivo, che, in questo caso, a differenza di quanto avviene per i Servizi Fiduciari, ove opera come termine di confronto positivo, diviene il principale strumento per scaricare sui lavoratori tutto il peso della iniquità della filiera dominata da grandi gruppi monopolisti della trasformazione industriale e della distribuzione commerciale del prodotto.

3) Il mutamento del contesto sindacale, economico e sociale.

Le cause di tali dinamiche salariali al ribasso le segnala sinteticamente la stessa Cassazione nelle sentenze innanzi citate:
- frammentazione della rappresentanza e presenza di associazioni collettive (sindacali e datoriali) di dubbia rappresentatività;
- frantumazione degli ambiti della contrattazione, dei settori e delle categorie;
- proliferazione del numero di contratti, di cui solo un quinto stipulato dai sindacati più rappresentativi;
- pratiche di dumping salariale;
- disparità di retribuzione nelle stesse aziende e a parità di lavoro;
- ritardo abituale dei rinnovi dei contratti collettivi;
- ripresa dell’inflazione;
- moltiplicazione dei modelli contrattuali;
- mutamento delle organizzazioni aziendali ormai tarate su esternalizzazione, decentramento, accentuata frammentazione del ciclo produttivo.
Tutte condizioni che favoriscono l’indebolimento delle tutele e delle garanzie per i lavoratori.
La Corte di cassazione, dopo aver ribadito, all’esito di un’ampia ricostruzione dei precedenti, che anche la retribuzione fissata dalla contrattazione collettiva, seppure sottoscritta da organizzazioni sindacali rappresentative, non si sottrae alla verifica di conformità a Costituzione, e che pertanto non può negarsi al lavoratore il “diritto di uscire” dalla contrattazione di categoria se questa si pone in contrasto con i canoni costituzionali di proporzionalità e sufficienza di cui all’art. 36 Cost., rivitalizza questi principi calandoli nel mutato contesto sindacale, economico e sociale che ha descritto.
Ed è proprio in questa operazione verità che va individuata la portata innovativa di queste pronunce che per il resto si fondano su un bagaglio giurisprudenziale consolidato da tempo.

4) Le ragioni delle tensioni nelle dinamiche salariali.

Le ragioni del fenomeno del “working poor” possono essere ricondotte a due direttrici di massima: quella soggettiva, segnata dalla crisi del sistema di relazioni sindacali, e quella oggettiva, tracciata da un lato dalla progressiva marginalizzazione del modello tradizionale del lavoro subordinato a tempo indeterminato e dall’altro dal superamento del modello organizzativo classico dell’impresa unica che gestisce in autonomia l’intero ciclo dell’attività produttiva.

4.1) La crisi del sistema italiano di relazioni industriali.

Il sistema italiano di relazioni industriali è in crisi da tempo.
Dall’esterno, il lavoro nero è un’emergenza costante, specie in particolari settori produttivi, come l’agricoltura e l’edilizia, ove il fenomeno è amplificato dallo sfruttamento degli immigrati irregolari, e in determinati contesti territoriali ove l’economia sommersa costituisce un perverso ammortizzatore sociale.
La diffusione di forme negoziali cd. flessibili che sfuggono per natura alla copertura della contrattazione collettiva (ad es. tirocinanti, partite iva, co.co.co, falsi lavoratori autonomi, lavoratori occasionali, freelance, lavoratori digitali), è incentivata dalla più recente legislazione.
All’esito delle riforme del 2012 e del 2015, che hanno individuato nell’arretramento di tutela un incentivo all’incremento dell’occupazione, anche il sistema rimediale della forma di lavoro più tutelato - il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dipendenze delle imprese sopra-soglia - è innegabilmente meno protettivo e favorevole e questo indebolisce la forza contrattuale delle organizzazioni sindacali che tali lavoratori rappresentano.
All’interno del panorama sindacale la mancata attuazione dell’art. 39 Cost trascina con sé da un lato la questione della definizione della categoria e dei cosiddetti perimetri contrattuali, che rende incerto l’ambito di applicazione di ogni contratto collettivo, e dall’altro la difficoltà di una misurazione adeguata della rappresentanza sindacale e datoriale che delegittima e penalizza le organizzazioni più rappresentative in ogni contesto, sia territoriale che settoriale.
Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.
L’assenza di una preventiva individuazione delle categorie omogenee, sia per la via legislativa che per quella pattizia, e quindi di una chiara delimitazione dell’ambito di applicazione dei contratti, consente che le categorie contrattuali siano ritagliate discrezionalmente da parte dei soggetti sindacali stipulanti sulla base di una selezione opportunistica e non fattuale ed ostacola la corretta misurazione della rappresentatività.
La frammentazione della rappresentanza sindacale, che ha un trend di crescita costante, ha portato alla proliferazione dei contratti collettivi nazionali di categoria (se ne contano ormai quasi 1000).
A parte la patologia dei contratti cd. pirata, stipulati da parte di organizzazioni sindacali o datoriali scarsamente o per nulla rappresentative (si pensi al caso del c.c.n.l. Rider Ugl-Assodelivery sottoscritto nel settembre 2020 ove la carenza di rappresentatività dell’associazione sindacale dei lavoratori è stata accertata in diverse sedi giudiziarie), la crisi coinvolge anche la fisiologia del sistema a causa di un pluralismo competitivo che accomuna le associazioni sindacali sia dei lavoratori che dei datori di lavoro.
Sul fronte datoriale si propongono sempre nuove associazioni che a volte si limitano ad aspirare alla partecipazione alle trattative per il rinnovo dei contratti tradizionali, ma frequentemente ambiscono a creare un nuovo sistema contrattuale parallelo a quello già esistente di cui ritagliano un ambito più circoscritto o ne delimitano uno più ampio.
Criticità si segnalano all’interno della stessa contrattazione confederale, gestita dalle associazioni sindacali storiche tradizionalmente maggiormente rappresentative, per effetto dell’implementazione di contratti collettivi nazionali con un campo di applicazione di carattere trasversale e onnicomprensivo (come appunto il c.c.n.l. multiservizi e il c.c.n.l. servizi fiduciari e vigilanza), esageratamente esteso (i cd contratti omnibus), sottoscritti al fine di contrastare la diffusione di contratti più settoriali, nell’illusione di ampliare la copertura contrattuale, ma che di fatto, determinando una sovrapposizione di attività limitrofe ma non omogenee, alimentano una sorta di concorrenza salariale al ribasso tra contratti.
Questo disordine contrattuale favorisce il cd. dumping contrattuale, che si realizza offrendo la possibilità al datore di lavoro di scegliere in autonomia il c.c.n.l. da applicare sulla sola base della sua economicità, e quindi di ridurre gli oneri economici del costo del lavoro al di sotto dello standard costituzionale pur avvalendosi della contrattazione collettiva, con un risparmio che non deriva soltanto dalla parte economica ma anche dalla parte normativa, che generalmente è appiattita sulle previsioni minime della legge o si colloca borderline, se non addirittura sotto.
Non è un caso che il bacino del lavoro povero è lo stesso in cui il contenimento dei costi si traduce in un risparmio di spesa sulle misure a tutela delle condizioni di lavoro e quindi sulla prevenzione dei rischi e sulla sicurezza, con le terribili conseguenze in termini di infortuni sul lavoro che la cronaca giornalmente ci riporta.
Ad essere maggiormente penalizzato è certamente il sindacato dei lavoratori, in quanto la mancanza di unità si ripercuote negativamente sull’efficacia dell’azione di promozione e di protezione degli interessi dei suoi rappresentati; la disgregazione della rappresentatività ne indebolisce la forza contrattuale e quindi la capacità di portare avanti con successo le proprie rivendicazioni salariali e non.
Con la frammentazione il contratto collettivo perde la sua funzione anticoncorrenziale, quella cioè di sottrarre il costo del lavoro dalla concorrenza del mercato; lo shopping contrattuale favorisce senza dubbio i datori di lavoro più spregiudicati, ma paradossalmente costringe anche i datori di lavoro più virtuosi ad attingere a contratti collettivi più “convenienti” per mantenere la propria competitività sul mercato.
Come testimonia la vicenda del c.c.n.l. Servizi fiduciari, la concorrenza tra le imprese non si gioca più sulla qualità del prodotto o del servizio offerto, ma si va a scaricare sul costo complessivo del fattore lavoro.
A causa di questa deriva la contrattazione collettiva, costretta ad affannarsi per mantenere su livelli di sufficienza i salari e le condizioni di lavoro su standard minimali, è del tutto distolta dalla possibilità di avere un ruolo più performante di stimolo all’innovazione tecnologica e dei processi produttivi, laddove la garanzia di un costo del lavoro inderogabile potrebbe spingere le imprese ad essere competitive sulla qualità espellendo dal mercato le imprese meno affidabili e parassitarie, che sopravvivono solo grazie allo sfruttamento della forza lavoro i cui costi sociali si ripercuotono sull’intera collettività.
Le ricadute negative della difficoltà di individuare il cosiddetto contratto collettivo “leader” sono ulteriormente amplificate dal fatto che tali contratti, poiché si presumono sottoscritti da soggetti “qualificati”, costituiscono il punto di riferimento di numerosi rinvii legali all’autonomia collettiva.
Molteplici sono infatti le normative legali che prendono in considerazione il contratto collettivo siglato da sindacati comparativamente più rappresentativi: si veda l’art. 1, comma 1, del d.l. 9 ottobre 1989 n. 338, convertito in legge 7 dicembre 1989 n. 389 in tema di minimale contributivo; l’art. 7, comma 4, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 28 febbraio 2008, n. 31, in materia di lavoro nelle cooperative; l’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 117/2017 per gli enti del Terzo settore; l’art. 203, comma 1, del d.l. n. 34 del 2020 per il settore del trasporto aereo; gli artt. 11 e 119 del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, contenente il nuovo Codice dei contratti pubblici; in tema di appalti privati l’art. 29 del d.l. 2 marzo 2024 n. 19, come modificato dalla legge di conversione 29 aprile 2024 n. 56, che ha inserito il comma 1-bis nell’art. 29 del d.lgs. 10 settembre 2003 n. 276.
Da non sottovalutare quale causa di inefficienza del sistema contrattuale la dilatazione dei tempi di rinnovo che contribuisce al mancato adeguamento del valore della retribuzione agli aumenti del costo della vita, con una incidenza potenziata dall’attuale ripresa dell’inflazione.

4.2) I nuovi paradigmi organizzativi.

Le ragioni oggettive sono riconducibili ai mutamenti che hanno interessato in maniera sempre più incisiva il mondo del lavoro e che hanno avuto un inevitabile impatto sull’efficacia dell’intervento tradizionale della contrattazione collettiva come strumento di risoluzione dei conflitti e di controllo delle dinamiche salariali.
Limitata l’analisi agli assetti organizzativi, è documentato che i settori maggiormente afflitti da problematiche salariali sono quelli in cui prevale la segmentazione dell’attività produttiva attraverso catene di appalti e subappalti o anche l’uso e l’abuso di forme di lavoro somministrato (oltre al settore della vigilanza non armata si ripropongono la logistica, l’edilizia, il tessile, l’abbigliamento, l’agroalimentare).
Spesso le imprese satellite sono organizzate in forma cooperativa e scontano in partenza un deficit di tutela: è nota la presenza di false cooperative che, in aperta contraddizione con lo spirito mutualistico che le dovrebbe caratterizzare, operano come mere appaltatrici di manodopera, senza rispettare i diritti minimi dei soci-lavoratori, commettendo violazioni in ambito penale, tributario e contributivo; nella catena degli appalti proliferano vere e proprie società «cartiere», datori di lavoro «fantasma», che schermano i datori di lavoro effettivi con esclusive finalità fraudolente.
La frammentazione del ciclo produttivo dell’impresa da un lato indebolisce l’azione sindacale, che per essere efficace ha bisogno di unità e compattezza tra i lavoratori, e dall’altro è finalizzata ad ottenere un risparmio di costi, a partire da quello della manodopera, obiettivo che spinge le imprese satellite a farsi concorrenza sui salari.
Le esternalizzazioni e i processi di disintegrazione verticale rappresentano oggi un modello organizzativo che consente più facilmente di aggirare i vincoli in materia di gestione del personale a cui le aziende sono sottoposte per i dipendenti interni.
Il meccanismo è noto: il ricorso all’appalto e al subappalto ( e analogamente per la somministrazione) non è giustificato da ragioni produttive, come avviene ad esempio per gli appalti che hanno ad oggetto attività altamente specializzate o estranee all’oggetto sociale o al ciclo produttivo dell’appaltante, ma è tendenzialmente uno strumento per abbattere il costo del lavoro dell’impresa leader, tramite l’esternalizzazione di fasi del processo produttivo - caratterizzate da attività ad alta intensità di lavoro (“labour intensive”), scarsamente qualificate, connotate dalla continuità di ore lavorative in attività ripetitive - ad imprese satellite che applicano ai loro dipendenti una regolazione meno protettiva rispetto a quella destinata ai lavoratori dipendenti della committente, e che possono permettersi di offrire servizi a prezzi competitivi proprio perché corrispondono trattamenti economici inadeguati sulla base di contratti collettivi meno favorevoli rispetto a quelli vigenti presso l’impresa leader.
Il risultato è altrettanto noto: il risparmio dell’impresa committente in termini di costi e responsabilità si scarica come l’IVA sul lavoratore dell’ultima impresa della filiera, che costituisce l’anello più debole della catena, e qui il tema del lavoro povero si interseca e si sovrappone a quello della disparità di trattamento.
In passato la legge 23 ottobre 1960, n. 1369, che riconosceva all’art. 3 un principio di parità di trattamento tra i dipendenti dell’appaltatore e quelli della committente, costituiva un solido argine a queste dinamiche salariali al ribasso.
L’abrogazione di questa norma, strumentale alla liberazione del mercato dai vincoli retributivi, ha lasciato dietro di sé vistose disparità di trattamento tra lavoratori interni e lavoratori esternalizzati che spesso si trovano a svolgere fianco a fianco attività omogenee.
Dopo vent’anni si è capito che era necessario trovare meccanismi alternativi.
Negli appalti pubblici oggi opera una tutela sufficientemente completa in quanto significative norme antidumping sono contenute nel d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36 , (cosiddetto nuovo «Codice dei contratti pubblici»), adottato in attuazione dell’art. 1, legge 21 giugno 2022, n. 78, al fine di contrastare dinamiche di concorrenza al ribasso del costo del lavoro prestato nelle filiere produttive e nelle catene degli appalti.
L’art. 11 del d.lgs. n. 36 del 2023 al comma 1 sancisce che «al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente» e al comma 2 aggiunge che «nei bandi e negli inviti le stazioni appaltanti e gli enti concedenti indicano il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell'appalto o nella concessione, in conformità al comma 1».
Nel settore degli appalti pubblici vige poi il principio di parità di trattamento tra i lavoratori impiegati lungo la filiera degli appalti e dei subappalti.
Questa soluzione era stata adottata già nel 2021, con un’apposita novella del precedente codice, ed è confermata dall’art. 119, comma 12, del d.lgs. n. 36 del 2023 secondo cui «il subappaltatore, per le prestazioni affidate in subappalto, deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti nel contratto di appalto e riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale. Il subappaltatore è tenuto ad applicare i medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro del contraente principale, qualora le attività oggetto di subappalto coincidano con quelle caratterizzanti l’oggetto dell’appalto oppure riguardino le lavorazioni relative alle categorie prevalenti e siano incluse nell’oggetto sociale del contraente principale».
Dal momento che il «contraente principale» è un appaltatore di una pubblica amministrazione, ed è già tenuto, in forza dell’art. 11, comma 1, ad applicare lo specifico contratto collettivo indicato nel bando di appalto da parte della stazione appaltante, in questo settore la tutela salariale è ampia, residuando solo la questione più generale dell’eventuale inadeguatezza del trattamento retributivo previsto da c.c.n.l. sottoscritti da associazioni maggiormente rappresentative su cui si è pronunciata la Corte di cassazione.
Negli appalti privati una significativa inversione di rotta si è avuta con il già citato comma 1-bis dell’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2023 di recente introduzione.
La nuova disposizione afferma che «al personale impiegato nell’appalto di opere e servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto».
Nella versione originaria del decreto mancava il riferimento agli agenti negoziali comparativamente più rappresentativi e si faceva riferimento solo al contratto collettivo «maggiormente applicato nel settore e per la zona» e ciò aveva dato luogo a molte critiche che per fortuna sono state superate in sede di conversione.
Anche se l’obiettivo della disposizione è chiaramente quello di garantire che ai lavoratori impiegati in appalti e subappalti siano applicati contratti collettivi coerenti con le attività appaltate e/o subappaltate ai fine di assicurare agli stessi dei trattamenti economici dignitosi, vi è però una significativa differenza sul piano delle tutele rispetto alla parità di trattamento prevista invece nella catena degli appalti pubblici.
Qui opera, infatti, solo il rinvio a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva qualificata dalla maggiore rappresentatività comparata degli agenti negoziali sulla falsariga di altri interventi legislativi precedenti che in specifici ambiti settoriali hanno introdotto una sorta di “salario minimo legale” (di cui sopra).
Il contributo in senso perequativo di questa norma è indubbio ma non risolutivo.
In primo luogo, con maggiore incidenza che nel pubblico ove almeno opera il filtro dell’indicazione della stazione appaltante, permane il problema dei c.c.n.l. sottoscritti da associazioni maggiormente rappresentative che prevedono trattamenti retributivi inadeguati rispetto agli standard di proporzionalità e sufficienza di cui all’art. 36 Cost.
In secondo luogo, rileva la difficolta di individuare il c.c.n.l. di settore, riconducibile alla proliferazione di contratti applicabili trasversalmente in perimetri contrattuali che si sovrappongono perché non ritagliati per categorie omogenee ed in cui al datore di lavoro è consentito un vero shopping per individuare quello più conveniente.
Alla patologia si aggiunge poi la fisiologia di una diversificazione legittimata dalle diverse caratteristiche delle imprese della filiera (ad esempio industriale o artigiana, grandi, piccole o medie imprese, forma cooperativa, ecc.).
Premesso che in assenza dell’erga omnes i c.c.n.l. si applicano solo “inter volentes”, se il c.c.n.l. è di settore e la diversità è giustificata, non è certamente invocabile l’art. 3, che si applica solo in presenza di situazioni omogenee laddove nel rapporto di lavoro subordinato privato non opera, di regola, il principio di parità del trattamento retributivo, e la tutela ancora una volta non potrà che passare tramite l’art. 36 Cost., come avviene secondo gli insegnamenti delle Sezioni Unite del 1997 ogni qual volta il datore di lavoro non applica il contratto corrispondente all’attività.
Quindi la tutela non è direttamente comparativa ma il c.c.n.l. applicato ai dipendenti della committente dovrebbe operare solo come parametro indicativo di inadeguatezza rispetto a quello applicato, sia sotto il profilo della sufficienza che della proporzionalità.
Sulla sufficienza è intervenuta la giurisprudenza sul salario minimo costituzionale, mentre la verifica sulla proporzionalità è tuttora limitata dall’orientamento giurisprudenziale ormai tralatizio del c.d. minimo costituzionale che forse meriterebbe di essere rivisto, o quanto meno adeguato al mutato quadro delle dinamiche salariali.

5) Conclusioni

La complessità del fenomeno del “lavoro povero” e delle ragioni che ne hanno determinato la diffusione imporrebbe una vera e propria bonifica del mercato del lavoro dalla povertà che annichilisce a priori la dignità dei lavoratori.
È evidente che in questo quadro la contrattazione collettiva lasciata sola può ben poco, richiedendosi invece interventi normativi di sostegno su tutti i possibili fronti.
Allo stato non resta che constatare che la debolezza e la crisi del sistema di relazioni sindacali e la parcellizzazione verticale delle organizzazioni imprenditoriali hanno agevolato pratiche di sfruttamento del lavoro e fornito, grazie alla proliferazione di contratti sotto la soglia dell’art. 36 Cost., una ulteriore arma per aggirare quelle regole indispensabili, tra cui rientra il diritto alla giusta retribuzione, per rendere il diritto al lavoro un «fondamentale diritto di libertà della persona umana».

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.