Testo integrale con note e bibliografia

In Italia c’è un grande problema di produttività: la redistribuzione salariale non avviene anche laddove questa cresce, ma mediamente si colloca a un livello molto basso.
C’è un problema nord-sud ma poi ci sono le aziende sopra i 200 dipendenti che hanno una produttività superiore a quella del Baden-Württemberg tedesco, e le piccole imprese che hanno ratio bassissimi, con lodevoli eccezioni.
Se usiamo la definizione di Pmi europea in Italia abbiamo il 99,3% di Pmi, con il 90% dei dipendenti impiegati in imprese con meno di 20 dipendenti. La questione salariale va legata a produttività e a nanismo e alla necessità di rigenerare il sistema industriale. La produttività non si ottiene abbassando i salari: altro falso mito che addormenta le coscienze.
Abbiamo una quota di imprese zombie sopra la media europea.
Le aziende che hanno vissuto solo di mercato interno, un mercato che di fatto non è mai veramente ripartito: in qualche caso sono riuscite a galleggiare, in altri casi sono andate ad allargare le fila delle imprese zombie. Diametralmente opposte ci sono le gazzelle, imprese medie vocate all’export che hanno investito e hanno tecnologie che non esistono neppure in Germania e personale molto professionalizzato, salari e condizioni di lavoro migliori della media. Per uscire dal tunnel bisogna agganciare le imprese alla locomotiva delle gazzelle. Mentre in Italia vige ancora la vulgata del piccolo e lento che è dotato di grande fascino. Sì, ma è il fascino del declino.

Già dimenticata la vicenda Fiat
La vicenda Fiat (oggi Fca) rappresenta pertanto una storia di successo, la possibilità di assicurare un futuro sostenibile alla manifattura nelle economie mature. La fusione con Fca, il Wcm, ( Il sistema World Class Manufacturing (WCM): una metodologia di produzione strutturata, rigorosa ed integrata che coinvolge l’organizzazione nel suo complesso, dalla sicurezza all’ambiente, dalla manutenzione alla logistica e alla qualità. Questa la definizione ripresa dal sito FCA ), gli accordi sindacali, sono una dimostrazione della capacità di gestire la diversità multidimensionale in un’economia globale. Su oltre 180 stabilimenti che utilizzano il Wcm, Pomigliano nel settembre 2015 si è classificato al primo posto. Altri gruppi industriali italiani, in settori che hanno subito minor crollo di mercato (si veda solo a titolo esemplificativo l’aerospazio), hanno avuto un crollo di addetti che l’automotive localizzata in Italia non ha registrato. È la dimostrazione che la tenuta della manifattura passa per scelte strategiche internazionali e organiche.
La vicenda Fca dimostra che ciò può avvenire, smontando i falsi miti che individuano nel costo dei fattori – riduzione del salario e deterioramento delle condizioni di lavoro in primis – le leve su cui agire per difendere nel lungo periodo la localizzazione produttiva. L’introduzione del Wcm corona quello che solo la Fim sosteneva da anni: una migliore organizzazione del lavoro contiene i costi, determina un mix più favorevole, con l’impiego estremo di tecnologie che garantiscono una migliore difesa occupazionale.
Capire le trasformazioni in anticipo, nel nostro Paese viene confuso con “l’accettare un ricatto”. Ciò non toglie che Marchionne, spesso, ha affermato male le sue prerogative. Non ha mai creduto nella partecipazione del Sindacato e questo è stato un grande limite.
In ogni caso, ce ne fossero di più di quelli come lui e meno dei capitani coraggiosi con i soldi altrui del “salotto buono”.
Spero di sbagliarmi ma mi sembra che Stellantis, (il colosso scaturito dall’acquisto di Fca da parte di Psa) stia aiutando a dimenticare le lezioni importanti di questa vicenda.

Produttività e contrattazione
Il modello contrattuale dovrebbe cambiare, per poter incidere anche sulla questione salariale rispetto a cui l’Italia è fanalino di coda non solo in Europa. Abbiamo un modello contrattuale fortemente centralizzato, dovuto anche al fatto che la taglia dimensionale delle aziende è molto piccola, per cui loro stesse si sentono maggiormente rappresentate e protette da un contratto nazionale.
Finalmente nell’ultimo accordo interconfederale abbiamo convinto le altre sigle sindacali sul decentramento. Speriamo siano convinti davvero.
Nel contratto nazionale, quando vengono stabiliti i livelli salariali, si distribuisce un’inflazione bassa insieme a una produttività media che per tutti i settori, forse a esclusione del pharma, è negativa. Il che scontenta tutti e crea un sistema che di fatto guarda agli zombie anziché alle gazzelle. Esattamente il contrario di quello che andrebbe fatto. La ricchezza andrebbe distribuita dove si crea e cioè nella singola azienda, per cui la contrattazione andrebbe decentrata in meccanismi virtuosi che facciano sì che laddove la produttività è più elevata e si crea ricchezza questa si riverberi sui salari. Bisogna evitare che la forma sindacale novecentesca permanga in una situazione post-novecentesca con strumenti ormai inservibili. Bisogna costruire forme e strumenti nuovi.

Innanzitutto, il sindacato deve stare nel dibattito pubblico per condizionarlo. In secondo luogo, uno dei nostri cavalli di battaglia più importanti è lavorare sulla formazione e rilanciare la contrattazione territoriale. In un sistema come quello italiano dove le imprese piccole sono la stragrande maggioranza bisogna fare massa critica dal punto di vista contrattuale, collegando la contrattazione territoriale di filiera, di rete e di sito, alla necessità di incrementare la produttività. Le aziende con meno di 10 dipendenti da sole non possono accedere a tecnologie e formazione di cui hanno bisogno. Bisogna costruire una massa critica per cui i percorsi di crescita di produttività siano affrontati in una battaglia comune in cui noi ci poniamo come un soggetto che integra. Perché la crescita di queste imprese vuol dire crescita dell’occupazione e migliore qualità del lavoro oltre che redistribuzione dei salari. Paradossalmente questo rimane un tabù di Confindustria che considera la contrattazione territoriale, un terzo livello aggiuntivo, ignorando che nelle micro imprese arriva solo il contratto nazionale. Che invece deve restare cornice di garanzia, mentre il contratto territoriale deve porsi al servizio delle sfide del lavoratore.

Pochi importanti Contratti Nazionali
Fa sempre notizia il numero dei Contratti Nazionali, tra cui quelli pirata, depositati presso il Cnel. Il TU del 10 gennaio 2014 sulla rappresentanza dopo 7 anni non è ancora operativo e nonostante l’indicazione esplicita di ridurre il numero dei contratti nazionali, questi ultimi sono aumentati superando i 900.
L’indicazione della legittimità a negoziare i Contratti, in base ad una soglia minima di rappresentanza, funziona solo nel Pubblico Impiego, nel privato siamo ancora indietro. Questo primo aspetto ridurrebbe i contratti a quelli firmati dalle organizzazioni corrispondenti ad una rappresentatività data dal numero di iscritti e dai voti conseguiti nelle elezioni delle rappresentanze unitarie.

Contrattazione aziendale e di ecosistema.
Ma il tema non si esaurisce qui.
In un sistema economico in cui il digitale rende più “sartoriali” i modelli produttivi, la contrattazione aziendale o territoriale deve assumere più importanza. I Contratti Nazionali hanno una vigenza sempre più lunga e anche i tentativi di normare nel dettaglio le condizioni aziendali non han mai funzionato. Per questo bisogna spostare il baricentro in azienda o per le pmi nel territorio. Il Contratto Nazionale può mantenere una sua forza a due condizioni: 1) ridurre i contratti alla dimensione di settore. Ho sempre sostenuto il Contratto dell’Industria lo stesso vale per gli altri settori. Ha senso avere in Confindustria 43 contratti del settore industriale? Le mitiche “specificità” sono sempre più in discussione tra settori, figuriamoci all’interno dello stesso settore.
Qualche anno fa, al contrario han tentato di fare un ennesimo contratto “servizi 4.0” non comprendendo come stiano cambiando i servizi, da un lato con le piattaforme da un lato e l’industria con la “servitizzazione” dall’altro.
Va da se che un nuovo modello contrattuale vada accompagnato da un nuovo modello organizzativo con categorie di settore e più forti. Come è avvenuto del resto in tutta Europa.
2) Nel rapporto di lavoro e nella contrattualistica è ancora centrale lo scambio prestazione-salario. E’ uno scambio povero a cui aggiungere altri elementi a contorno non è più sufficiente. Il lavoro è sempre più un legame fiduciario e contrattuale di reciprocità di un progetto di lavoro e del benessere di chi lo compie. Solo in questo senso si capirà il crescente ruolo della competenza della crescita, del lavoro ben fatto con gli altri. Della sua flessibilità attiva, tra cui orari a menù e smart working.
Questo lavoro prevede sempre più un contratto ibrido con una regolamentazione tipica della contrattazione collettiva degli standard minimi in termini di diritti e doveri e una parte dedicata alla valorizzazione dei risultati come avviene oggi, purtroppo con la contrattazione individuale. Esistono modalità per non lasciare soli i lavoratori e le lavoratrici su questa seconda parte del lavoro.
Sarà decisiva la contrattazione territoriale, di ecosistema. Dopo aver tanto insistito, nascono finalmente esperienze di ecosistemi territoriali digitali in cui i dati del lavoro, i punti deboli e di forza sono sempre più in trasparenza. Per le sfide del futuro questi ecosistemi devono avere condivisione dei dati e contrattazione per affrontare insieme (specie per pmi e microimprese) le sfide che le tre transizioni pongono a persone, imprese e istituzioni.

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.