Testo integrale con note e bibliografia
Sappiamo che il valore della contrattazione collettiva nelle relazioni sindacali e nella difesa del reddito dei lavoratori del nostro paese è molto più importante e significativa che in altri paesi europei.
Nonostante ciò, in questi anni, l’attacco alla contrattazione collettiva è stato forte.
Ciò è avvenuto sia con la messa in discussione del valore e della funzione del contratto collettivo nazionale di lavoro, in favore di un decentramento aziendale, che, se non ampiamente diffuso, inevitabilmente supporta i più forti, sia con l’indebolimento determinato dalla previsione di norme derogatorie e di leggi che hanno indebolito l’impianto dello Statuto dei lavoratori (il caso più eclatante è il famigerato articolo 8 della legge n. 148/2011).
La progressiva proliferazione dei contratti nazionali si può leggere da diverse prospettive: la articolazione e la continua nascita di organizzazioni di rappresentanza, sia di parte sindacale che soprattutto di parte datoriale, la frammentazione delle tradizionali categorie contrattuali, la diversità dei trattamenti economici e soprattutto normativi previsti dai contratti, la crescita di contratti stipulati da soggetti a rappresentatività indefinita.
Si è affermato, nel contempo, un dumping che potremmo definire “tipologico“ che ha visto crescere nella frammentazione dei cicli produttivi l’utilizzo di lavoro non dipendente gravato da minore contribuzione e senza riferimenti retributivi.
Lo stesso sistema degli appalti e dei subappalti è spesso fattore di dumping: va quindi ripreso il concetto di applicazione nel sistema degli appalti del contratto prevalente.
Da questo punto di vista la norma introdotta nel decreto 77/2021 convertito con legge 108/2021 in materia di appalti pubblici che prevede che, in caso di subappalto, debbano essere garantiti gli stessi standard qualitativi e di prestazione previsti nel contratto di appalto e che debba essere riconosciuto ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale (inclusa la applicazione dei medesimi contratti collettivi nazionali qualora le attività di subappalto coincidano con quelle caratterizzanti l’oggetto dell’appalto stesso) può davvero determinare una svolta importante. E’ infatti una norma che scardina, dopo la cancellazione della legge n. 1369/1960, l’idea che l’appalto sia soprattutto uno strumento di riduzione del costo e delle tutele, piuttosto che uno strumento di efficientamento della produzione.
È indubbio quindi che in questi anni siano cresciuti i contratti fuori dal contesto della rappresentatività delle parti e sia contemporaneamente cresciuta l’area di sovrapposizione dei campi di applicazione fra i contratti medesimi.
Ciò sta determinando situazioni di dumping a volte incontrollabili e il generalizzato indebolimento delle tutele derivanti dalla contrattazione.
In questo quadro, occorre affermare con forza che, oggi, il punto di maggior debolezza della contrattazione collettiva è la misurazione della rappresentatività delle Organizzazioni sindacali e soprattutto delle associazioni datoriali, che non ha indicatori precisi.
Ciò, unitamente a una democrazia dei lavoratori fragile, con la difficoltà a estendere ovunque le RSU, anche in ragione delle caratteristiche del nostro sistema produttivo, rende particolarmente complessa questa fase.
In realtà, sotto questi ultimi aspetti, molto è stato fatto nella dinamica contrattuale, a partire dal Testo Unico sulla rappresentanza del 2014, il cui processo di implementazione va avanti anche se, in ragione della pandemia, ha subito parecchi rallentamenti. È un lavoro molto lungo, che sconta da un lato il tema del volontarismo nella raccolta dei dati associativi, dall’altro anche nostre difficoltà e disomogeneità nella tenuta dei verbali RSU.
Ad ogni modo, dovremmo avere per il 2023 il primo dato reale sulla certificazione, almeno nel sistema industriale che, per qualità delle relazioni, volontà delle nostre controparti a perseguire questo risultato, diffusione delle Rsu, è certamente il punto più avanzato.
Accanto agli importanti esiti derivanti dal sistema delle relazioni sindacali di cui abbiamo appena detto, c’è da rilevare anche un importante attivismo sul versante normativo, in un contesto di anomia legislativa derivante dalla permanente inattuazione dei precetti contenuti nell’articolo 39 della nostra Costituzione.
Questo è senza dubbio uno dei punti più delicati e irrisolti.
Com’è noto, la CGIL ha depositato una propria proposta legislativa con la Carta dei diritti e con essa abbiamo sempre con forza rimarcato l’urgenza di un intervento legislativo di sostegno sul tema della rappresentanza (oltre che ribadire la nostra richiesta storica di un intervento in applicazione dell’art.39).
Per attuare l’art.39 Cost. e avere l’erga omnes non solo retributivo è assolutamente necessario attuare, accanto alla certificazione degli iscritti, anche la registrazione dei sindacati (e sappiamo che la cosa, storicamente non è di poco conto).
Nella Carta dei Diritti abbiamo infatti proposto l’attuazione della disciplina attuativa dei commi 2, 3 e 4 dell’art.39 della Carta Costituzionale in tema di registrazione dei sindacati, da cui può conseguire l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi (fino ad oggi priva di una qualche regolamentazione normativa e contrattuale).
Il nuovo Statuto prevede l’estensione di modelli di partecipazione a tutti i lavoratori, regole per la rappresentanza che unificano pubblico/privato, aziende di grandi/piccole dimensioni, lavoratori standard/atipici, introduce norme specifiche per i lavoratori autonomi. Partecipare alla discussione sugli accordi ed eleggere i propri rappresentanti liberamente rendono i lavoratori soggetti attivi e consapevoli e danno alla contrattazione strumenti e regole che possono dare sostanza al principio costituzionale dell’efficacia generale. Quando la maggioranza delle organizzazioni rappresentative, in virtù di una certificazione trasparente e generalizzata, sottoscrive un contratto, avendo consultato in modo certificato i lavoratori, esso ha efficacia per tutti i lavoratori afferenti a quell’ambito contrattuale.
A tutto ciò va aggiunta la discussione che si sta facendo con forza anche in Europa, sulla possibilità di introdurre un salario minimo legale. La Commissaria von der Leyen, nel suo programma per i primi cento giorni di mandato, ha proposto una direttiva sui salari minimi e sulla contrattazione. Perché il tema della questione salariale è un tema forte in tutta Europa e sul punto il nostro Stato, con pochi altri, i paesi nordici e l’Austria, è una anomalia.
Noi infatti siamo fra i pochi paesi che non hanno un salario minimo disciplinato per legge, e non lo abbiamo in ragione di una forte storia contrattuale che garantisce un livello di copertura molto alto. Allo stesso tempo non abbiamo l’erga omnes per legge. Allora la prima questione che dobbiamo porci è perché il tema dell’intervento legislativo sul salario minimo è presente anche da noi? Perché si propone, fortunatamente oggi più che nei mesi scorsi, anche sulla regolazione della rappresentanza? Il tema si impone con forza a causa di una deriva che in questi anni ha visto l’indebolimento dell’efficacia della contrattazione, in particolare per ragioni che non dipendono dalle parti sociali che la promuovono (crescita dei processi di globalizzazione e di esternalizzazione, aumento della precarizzazione nei rapporti di lavoro ecc.).
Il tema è cruciale, tant’è che fra le questioni più significative proposte insieme a Confindustria nel Patto per la fabbrica c’è proprio la questione salariale.
Direi che, assieme alla questione occupazionale e a quella democratica, quella salariale rappresenta il cardine che regge il Patto, il quale è arrivato a valle di una stagione di pura difesa della contrattazione dai molteplici attacchi. Come abbiamo scritto anche in quel patto, ed è il caso di ribadirlo, la questione salariale si affronta in primis rilanciando politiche di sviluppo e di crescita. Ma se questo è vero per tutti, allora bisogna anche riconoscere che in questi anni si è determinato, in Italia e nel mondo, uno squilibrio nella redistribuzione della ricchezza prodotta, che spesso si è spostata più sulla rendita e sul profitto che non sul lavoro. Nel 1993 assumemmo tutti, il paese intero, anche la logica della moderazione salariale, ma a tale logica non hanno aderito tutti allo stesso modo. Il tema del salario, poi, è certamente acuito nel nostro paese dallo squilibrio fra domanda e offerta di lavoro, uno squilibrio che è evidente soprattutto nel mercato del lavoro regolare, mentre resta ancora troppo nascosto nel sommerso. La dinamica salariale è stata legata anche in quel patto all’idea del rafforzamento di un modello di relazioni autonomo e partecipativo. Allora perché non riconoscere che l’emergere della questione della rappresentanza e dell’erga omnes che si propone oggi nella discussione a fianco di quella sul salario minimo è frutto anche del nostro lavoro e della nostra interlocuzione con la politica? Al tema del salario minimo non vogliamo sfuggire, pur continuando a sostenere, e a ragione, che non è proposta risolutiva né della questione del lavoro povero né, tanto meno, di quella salariale. Più volte abbiamo indicato che il problema maggiore rimane quello dei salari medi e più volte abbiamo indicato come il salario minimo, se riferito a una sola paga oraria, non sia certamente paragonabile al contratto in cui alla paga oraria si devono sommare diritti economicamente e normativamente molto rilevanti per i lavoratori (tredicesima, ferie, permessi…). Ma certamente, se si propone con forza nel dibattito pubblico, non può non interrogare le parti sociali.
A nessuno di noi piace sottoscrivere contratti a 5 euro l’ora, ma se siamo arrivati a farlo, evidentemente è prevalsa la valutazione dell’importanza di avere comunque un contratto nazionale che, come è chiaro a tutti noi, non serve solo alla definizione dei livelli salariali. Abbiamo fin dall’inizio detto che il tema dei salari del nostro paese, a parte alcune rare eccezioni come quella citata, riguarda i salari medi, più che quelli minimi. Ma questo non basta a sottrarci a una riflessione. Quali sono gli strumenti per ridare maggiore autorevolezza all’azione negoziale, all’azione collettiva? È la domanda a cui dobbiamo rispondere sapendo che sta crescendo la dinamica competitiva fra le persone e che questa dinamica svalorizza la funzione della rappresentanza generale.
La proposta di legge Catalfo è stata per un certo tempo la proposta del governo.
In quel testo si affermava che il trattamento economico complessivo definito dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative è il trattamento che costituisce retribuzione sufficiente e proporzionata e che deve essere garantito in attuazione dell’articolo 36 della Costituzione. E’ un approccio diverso da chi propone un salario minimo come strumento alternativo alla contrattazione, ma anche in quel caso con problemi di ingerenza sulla contrattazione stessa nella indicazione di una cifra minima di riferimento.
Tuttavia, con il succedersi di diversi governi e di fronte a numerose proposte di legge sia in tema di salario minimo che di rappresentanza, non si è mai aperta una vera interlocuzione con le parti sociali su queste tematiche. Interlocuzione che sarebbe certamente complessa per le differenti posizioni in materia.
Altre riflessioni e altri interventi vanno recuperati per sviluppare e rafforzare l’azione contrattuale. Cosa significa ad esempio, nel mondo di oggi, stare dentro a una filiera o a un sito. Il problema più grosso lo abbiamo nel dumping contrattuale, nella possibilità di scegliersi un contratto a seconda di quanto incide sulla riduzione del costo. Se a questo aggiungiamo che la caratteristica del nostro mercato del lavoro è che esso è composto anche da quasi tre milioni di lavoratori sommersi o semi-sommersi e da centinaia di migliaia di lavoratori in part-time involontario, allora la necessità che vediamo è quella di invertire una rotta e superare la logica per la quale la dinamica salariale è stata piegata ai meccanismi della competitività delle imprese. Estendere o rafforzare il secondo livello di contrattazione è decisivo, ma con questi livelli di copertura non si può pensare di lasciare alla contrattazione nazionale il solo recupero dell’indice inflativo.
Lavoriamo per orientare meglio il secondo livello e il welfare, evitando la mercificazione di un pezzo di salario.
Non è infine ininfluente il contesto politico in cui gestiamo la contrattazione. La dinamica della discussione politica ha spesso cambiato orientamento ed è stata frequentemente guidata non dalla volontà di costruire proposte per affrontare situazioni complesse, ma dallo spirito di propaganda, e ciò non aiuta. Noi abbiamo lavorato in questi ultimi anni per rafforzare le intese pattizie sul tema della rappresentanza.
È il terreno della rappresentanza, della sua misurazione e della sua certificazione, il primo terreno per superare il dumping. Lo è a maggior ragione a fronte della frantumazione che si è andata verificando e che in questi ultimi anni ha avuto un’impennata tale che oggi si hanno circa novecento contratti nazionali formalmente applicabili.
La maggior parte dei lavoratori è coperta da contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti da Cgil Cisl Uil , ma la presenza di contratti al ribasso è certamente un ostacolo che inficia le normali relazioni.
Siamo di fronte alla ripresa di volontà di un forte intervento legislativo su materie che afferiscono alla contrattazione. Invece di discutere della opportunità o meno di questa volontà politica proviamo a orientare quell’intervento legislativo rispetto alle nostre valutazioni, perché una difesa solo corporativa della contrattazione non ha senso in questa fase. Qualifichiamo, estendiamo e valorizziamo la contrattazione per tornare a orientare dalla stessa l’intervento legislativo.