1. L’estensione del lavoro povero tra cause e problemi aperti.
Come ben noto, il fenomeno della povertà è ancora largamente diffuso e si è anzi esteso a larghe aree delle persone che lavorano anche nel mondo occidentale industrializzato.
Da tempo in sede eurounitaria è stata elaborata una definizione, utilizzata da Eurostat per le stime ufficiali , che considera lavoratore povero il soggetto occupato almeno 7 mesi nell’anno di riferimento, il quale vive in un nucleo familiare con un reddito equivalente disponibile inferiore al 60% del reddito mediano nazionale. In quanto basata sul reddito familiare equivalente, tale nozione comprende due dimensioni, una individuale e una familiare: mentre la prima è connessa all’occupazione del singolo, al salario percepito, alla durata e alla stabilità dell’impiego, la seconda dipende dalla composizione demografica ed occupazionale del nucleo familiare.
La nozione di in-work poor è, quindi, più complessa di quella di lavoratore a basso salario, che coincide con il soggetto la cui remunerazione è inferiore ai 2/3 del salario orario mediano: le basse retribuzioni orarie interessano una quota elevata di lavoratori che espletano mansioni semplici e ripetitive, spesso inseriti in nuclei familiari più disagiati, nei quali la remunerazione dell’attività lavorativa rappresenta una quota rilevante del reddito complessivo .
La natura bidimensionale della nozione solleva non pochi problemi concettuali ed operativi se si considera che un lavoratore può essere qualificato come “povero” anche se percepisce un reddito non basso, in ragione del numero dei componenti del nucleo familiare e della capacità reddituale di questi ultimi. Al contrario, non viene ritenuto tale un lavoratore o, come statisticamente più frequente – in quanto le donne svolgono in media attività lavorative meno remunerate degli uomini, ma hanno un rischio più limitato di povertà nel lavoro perché, di regola, percepiscono il secondo reddito all’interno del nucleo familiare –, una lavoratrice con retribuzione molto bassa, ma inserito/a in un contesto familiare con un reddito complessivo superiore al 60% del reddito mediano nazionale.
Le considerazioni appena esposte spiegano perché il “Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia” ha proposto di promuovere una revisione dell’indicatore europeo di povertà lavorativa, al fine, tra l’altro, sia di “prendere in considerazione in maniera più strutturale i redditi da lavoro degli individui oltre che il reddito equivalente di cui dispongono all’interno del nucleo familiare in cui vivono”, sia di “estendere la platea di riferimento a tutti coloro i quali sono occupati almeno una volta in un anno e considerano la partecipazione lavorativa come la loro condizione prevalente”.
In ogni caso, al di là delle definizioni, comunque utili a consentire l’elaborazione di statistiche affidabili, è dappertutto evidente come la povertà di chi lavora sia causata da una pluralità di fattori sia di tipo economico, indotti dalla globalizzazione e dalle ricorrenti crisi finanziarie ed acuiti dalla pandemia, sia di tipo produttivo, consistenti nelle trasformazioni dei sistemi e dei processi produttivi dovute allo sviluppo tecnologico e al travaso di forza lavoro dall’industria al terziario .
In questo contesto numerose, anche se non sempre efficaci, sono le misure di contrasto al lavoro povero, ovvero gli strumenti che l’ordinamento giuridico predispone al fine di garantire che i lavoratori possano conseguire livelli di reddito adeguati o quantomeno dignitosi. Ciò sia nel momento in cui essi siano effettivamente tali, poiché titolari di un rapporto di lavoro (cd. standard o di una delle altre forme regolate dalla legge o dalla contrattazione collettiva), sia nel momento in cui siano, invece, privi di occupazione, ma intenzionati a ricercarne una.
Come si può quindi intuire, le questioni problematiche sulle quali soffermarsi sarebbero molteplici e tutte di grande interesse, dalle misure di politica attiva a quelle di sostegno del reddito, a partire dagli ammortizzatori sociali. Tuttavia si è deciso di concentrare ora l’attenzione su un tema classico, anzi storico, quale la retribuzione, che è diventato, in particolare relativamente al diritto ad una retribuzione adeguata, ancor più centrale e drammatico negli ultimi tempi, e non solo a livello italiano. Infatti, il lavoro è cambiato in termini sia qualitativi che quantitativi, quando non si riduce o addirittura non viene meno, secondo un trend che la diffusione della green economy rischia di accentuare, quanto meno nel breve periodo . In particolare, una quota sempre più elevata di lavoratori, da un lato, svolge mansioni semplici e ripetitive, collocandosi nelle fasce meno qualificate del mercato del lavoro, con guadagni che sono in media inferiori del 23% a quelli degli altri lavoratori subordinati a tempo pieno ed indeterminato e che hanno subìto in misura maggiore gli effetti della scarsa crescita delle retribuzioni degli ultimi 10 anni in quanto partivano da livelli salariali già bassi ; dall’altro, è impiegata, specie nel terziario, in lavori più discontinui, maggiormente spezzettati in fasce orarie ridotte, con aumento del part time involontario e dei contratti a termine, quindi con una maggiore precarietà ed una complessiva riduzione delle ore lavorate.
Emerge quindi una netta distinzione nel mercato del lavoro fra lavoratori qualificati ed anche altamente qualificati, per i quali i minimi dei contratti collettivi sono sovente del tutto irrilevanti, e lavoratori che svolgono mansioni semplici e ripetitive, specie in settori “ancora imperniati su logiche di massa e su tecniche di matrice proto capitalistica” , che “affidano al contratto collettivo la tutela solidaristica della loro debolezza” .
A questo punto si pone un quesito fondamentale: il contratto collettivo è ancora in grado di svolgere con successo questo compito?
2. Il ruolo della contrattazione collettiva nel contrasto al lavoro povero: limiti e nodi da sciogliere.
Nel contrasto al lavoro povero è sempre stato fondamentale il ruolo delle parti sociali e, in particolare, della contrattazione collettiva.
Come noto, nel settore privato il sistema giuridico-sindacale e di relazioni industriali italiano è privo di una legislazione “sistematica” sull’organizzazione sindacale e sulla contrattazione collettiva e dunque si affida, tradizionalmente, alla capacità di autoregolazione e di governo del sistema delle stesse parti sociali, le quali svolgono da sempre un’importante funzione di regolamentazione del mercato del lavoro attraverso la pattuizione delle tariffe collettive: una funzione rafforzata dalla giurisprudenza, che di solito utilizza i minimi salariali dei contratti nazionali di categoria come parametro per determinare la giusta retribuzione anche per le imprese non aderenti alle organizzazioni sindacali stipulanti. In questo modo le imprese della medesima categoria hanno potuto competere in condizioni simili. Quindi prima il concordato di tariffa, poi il contratto nazionale di categoria, hanno svolto storicamente la funzione di strumento “limitativo della concorrenza, volto a creare un obbligo di non accettare o imporre condizioni di lavoro inferiori a quelle del concordato” .
In definitiva, il contrasto al fenomeno della povertà nel lavoro non può che essere affrontato anzitutto sul piano della struttura, dei soggetti e dei contenuti della contrattazione collettiva sia di primo che di secondo livello.
Al riguardo, a lungo sono mancate regole di governo del sistema contrattuale e delle retribuzioni, fino a quando con l’accordo tripartito del 23 luglio 1993 sono state adottate soluzioni condivise che hanno ricevuto un’applicazione costante sino ai giorni nostri, benché gli accordi interconfederali del 2009, 2011 e 2014 abbiano introdotto modifiche anche significative .
Tuttavia, il quadro che sembrava assestato è stato rimesso in discussione da una serie di fattori che non incidono tanto sui nodi tradizionali della distribuzione delle competenze tra i diversi livelli contrattuali e più in generale del rapporto tra accordi di diverso livello, quanto sulla misura stessa delle retribuzioni, le quali hanno conosciuto un sensibile abbassamento, che si prospetta ancor più pericoloso in termini di in-work poverty a causa del sensibile aumento dell’inflazione degli ultimi mesi.
In particolare la significativa diminuzione delle retribuzioni e la sostanziale messa in discussione della menzionata funzione anticoncorrenziale dei contratti collettivi sono state provocate soprattutto dal moltiplicarsi degli accordi riferiti alla medesima categoria o con campi di applicazione che in parte si sovrappongono. Tale fenomeno è dovuto a diversi fattori, ed in particolare, da un lato, all’affiancarsi ai sindacati storici di sigle sindacali alternative, spesso poco rappresentative, talora addirittura colluse con la controparte datoriale, e quindi firmatarie di contratti pirata; dall’altro, alla variegata delimitazione dei confini della categoria merceologica da parte dei contratti collettivi stipulati dalle stesse organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, in special modo da federazioni aderenti a Cgil, Cisl e Uil .
Si è, pertanto, giustamente rilevato che la contrattazione collettiva ha ormai cambiato volto . I nodi sono, quindi, tutti sul tavolo: la misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e datoriali, la definizione dei perimetri nell’ambito dei quali misurare tale rappresentatività, la pluralità di contratti collettivi conclusi per la medesima categoria o con ambiti di applicazione in tutto o in parte sovrapposti, l’effettiva capacità del sistema contrattuale di garantire minimi salariali dignitosi, specie nei settori in cui è meno radicata la presenza delle associazioni sindacali dei lavoratori e delle organizzazioni datoriali.
Districarli è tutt’altro che agevole, ma il tentativo va fatto con determinazione, anche, ed in special modo, nella logica del contrasto al lavoro povero.
Innanzitutto si pone un problema preliminare di conoscenza, con riguardo sia allo stato effettivo della contrattazione collettiva, sia alla reale rappresentatività delle parti sociali.
Quanto al primo profilo un contributo importante è stato fornito dal c.d. decreto Semplificazioni (l. n. 120/2020), che ha istituito il codice alfanumerico dei contratti nazionali di categoria, il cui art. 16-quater prevede che, nelle comunicazioni obbligatorie al Ministero del Lavoro e nelle denunce retributive inviate all’INPS, il dato relativo al contratto collettivo applicato al lavoratore deve essere indicato tramite il codice alfanumerico unico attribuito dal CNEL. Questo codice diventa proprio ora operativo e, come ha affermato Tiziano Treu in una recente intervista, “un’unica banca dati digitalizzata identifica i contratti e li classifica consentendo di rendere pubblica la grande varietà di contratti, ma soprattutto la disparità di applicazione di tutele e di clausole. Il passaggio successivo sarà l’approfondimento dei contenuti di ogni contratto. Gli accordi che presentano elementi sospetti, d’accordo con l’Inps, verranno segnalati all’Inail per le ispezioni su eventuali violazioni” .
Il percorso di collaborazione era stato avviato da alcuni anni con l’elaborazione di un database dei contratti collettivi, che consente di verificare il bacino di applicazione dei singoli contratti di categoria. Nel 2019 è stato reso pubblico per la prima volta il numero di imprese e di lavoratori nelle stesse impiegati ai quali sono applicati i contratti collettivi, in modo da poterne riscontrare la rilevanza in un’ottica di effettività .
Il 23 novembre 2021 è stato siglato un accordo di collaborazione interistituzionale tra CNEL e Ministero del Lavoro con vari obiettivi, tra cui osservare il mercato del lavoro italiano e le dinamiche della contrattazione collettiva nel settore privato, con particolare riferimento al secondo livello (aziendale e territoriale).
In relazione al secondo profilo, il tentativo di misurare la rappresentatività delle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro, imperniato sulla convenzione INPS, INL, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil del 19 settembre 2019 non è stato ancora reso operativo, benché le parti sociali abbiano stabilito ormai in tutti i principali settori quali siano i sistemi di verifica della rappresentatività delle organizzazioni che stipulano i contratti collettivi di categoria. Ma, soprattutto, per le organizzazioni dei datori di lavoro, “il percorso è in fase meno avanzata”, dato che le parti sociali si sono limitate a riconoscere la necessità di intervenire e misurare anche la rappresentatività datoriale. Il problema è tutt’altro che marginale, considerato che la moltiplicazione dei contratti nazionali di categoria è riconducibile anche, per non dire soprattutto, all’accentuarsi del pluralismo tra le organizzazioni imprenditoriali .
In secondo luogo, va affrontata la crisi di rappresentatività dei sindacati. Non soltanto la dottrina , ma anche le stesse parti sociali, si rendono conto della necessità di un intervento dall’interno per affrontare e risolvere la crisi di legittimazione sostanziale e di effettiva rappresentatività che travolge i sindacati anche in ragione delle trasformazioni sociali, economiche e del lavoro. Le organizzazioni, specie confederali, si sono dichiarate pronte ad attivarsi direttamente per riconquistare gli spazi perduti a seguito delle trasformazioni del mondo del lavoro, con misure quali il rinnovo degli stessi soggetti, una maggiore attenzione rivolta ai nuovi lavori e ai nuovi lavoratori, monitoraggi, creazione di accordi di programma per fronteggiare la concorrenza sleale e il dumping contrattuale, come emerge, ad es., dall’accordo del 4 febbraio 2020 tra Assosistema Confindustria, Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil, reso operativo nel corso del 2021 .
Inoltre, decisiva è la definizione della categoria, il perimetro all’interno del quale misurare la maggiore rappresentatività comparata .
Il problema si pone in molti settori (in primis nella logistica), ma emerge in tutta la sua portata con riguardo agli addetti alle attività di consegna di cibo e di altri beni a domicilio. Il caso dei riders, infatti, è in questo momento emblematico delle difficoltà che incontrano gli attori principali del sistema di relazioni industriali (le storiche confederazioni e le loro federazioni di categoria) nel governare processi produttivi che – come quello della consegna di beni a domicilio mediante «piattaforme digitali» – sfuggono alle classificazioni dei settori merceologici attorno ai quali è tradizionalmente organizzata la contrattazione collettiva.
Viene in rilievo, al riguardo, una tipica espressione di libertà sindacale, quindi prerogativa di ogni organizzazione, ivi comprese le singole federazioni. Le soluzioni avanzate sono numerose, ma si è ben lungi dall’averne maturata una largamente condivisa, anche se parrebbe convincente l’attribuzione di un ruolo decisivo alle confederazioni.
Ancora una volta, infine, come periodicamente accade, ci si propone di potenziare la contrattazione aziendale e decentrata, partendo dalla necessità di valorizzare la produttività dell’impresa e/o del lavoro, con una maggiore attitudine partecipativa delle organizzazioni sindacali. Nel contempo, premi di risultato e welfare aziendale possono essere visti come strumenti finalizzati a contrastare il fenomeno del lavoro povero e, contestualmente, a migliorare il mercato occupazionale unitamente ad azioni finalizzate a sviluppare le competenze dei lavoratori, a garantire la formazione iniziale e continua, ad assicurare politiche attive, come suggerito dalle confederazioni datoriali.
3. Il ruolo della giurisprudenza nella determinazione della retribuzione adeguata: la crisi della via giudiziale
La presenza di più contratti collettivi riferiti alla medesima categoria con minimi retributivi diversi o la mancanza di alcun contratto collettivo applicabile “disorienta il giudice nel momento in cui deve determinare la giusta retribuzione” .
Al di là del tradizionale dibattito in ordine alle voci della retribuzione che vanno prese in considerazione ai fini della individuazione del trattamento minimo da garantire ad ogni lavoratore subordinato , è consolidato il principio secondo cui, quando non risulti applicato alcun contratto collettivo o sia comunque dedotta l’inadeguatezza della retribuzione contrattuale ex art. 36 cost., il lavoratore può aspirare all’applicazione di un contratto collettivo diverso da quello del datore di lavoro .
Tuttavia, va rimarcato che un trattamento inferiore a quello previsto da un contratto collettivo firmato da sigle sindacali diverse da quelle tradizionali non postula automaticamente violazione dell’art. 36 cost. In particolare, da un lato, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la valutazione del giudice, “specialmente nell’ipotesi in cui la retribuzione inadeguata sia contenuta in un contratto collettivo, deve essere effettuata con la massima prudenza e adeguatamente motivata, giacché difficilmente il giudice è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali” . D’altro lato, alcune sentenze di merito hanno sottolineato che va specificamente allegato che la retribuzione concretamente percepita non è proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato e non consente al lavoratore di condurre un’esistenza libera e dignitosa , ovvero vanno articolate le circostanze di fatto utili a tal fine, con riferimento alle condizioni sociali del luogo e allo stato familiare e reddituale del ricorrente , così come “al complessivo trattamento previsto dalle contrattazioni collettive coinvolte e non già sulla base della semplice comparazione retributiva” .
Talora, invece, la giurisprudenza ha determinato la retribuzione dovuta ex art. 36 cost. facendo direttamente riferimento ai trattamenti economici più elevati previsti dagli accordi firmati dai sindacati “storici”, considerati quelli che meglio garantiscono il rispetto di quanto previsto dalla norma costituzionale . A tale conclusione è pervenuta in situazioni in cui i contratti collettivi applicati, stipulati da sindacati di dubbia rappresentatività o che comunque non erano comparativamente più rappresentativi nel settore, prevedevano retribuzioni inferiori dal 30% al 35% rispetto a quelle dei contratti siglati dai sindacati “storici”. In giudizio avevano agito lavoratori poco qualificati, quali magazzinieri, facchini, portieri, imballatori, addetti alla reception e addetti alle pulizie, operanti nel settore della cooperazione, ove l’esistenza di una norma quale l’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007, convertito dalla l. n. 31/2008, agevola e giustifica una tale soluzione . Ad analogo risultato si potrebbe pervenire anche negli altri settori, ma sul punto dottrina e giurisprudenza sono divise .
Un altro problema che rischia di rendere decisamente complicato il perseguimento dell’obiettivo di ottenere una retribuzione equa e sufficiente è la dimostrazione in giudizio della maggiore rappresentatività comparata delle organizzazioni storiche rispetto ai nuovi sindacati. Con riguardo ai settori della cooperazione e dell’edilizia, nel 2012 il Ministero del lavoro ha emanato due circolari con le quali ha individuato nei contratti stipulati dalle federazioni aderenti a Cgil, Cisl e Uil i contratti collettivi da considerarsi stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. Ovviamente solleva non pochi dubbi e anche qualche riserva il fatto che una questione così importante sia affrontata e risolta dall’autorità amministrativa, sulla base di criteri, dati e procedure non particolarmente trasparenti e che, a quanto risulta, non sono resi accessibili al pubblico.
Quanto alla ricostruzione del numero di aziende e di lavoratori ai quali sono applicati i contratti collettivi, per quanto fondamentale a fini di conoscenza, si deve evitare di spostare la misurazione sul contratto collettivo anziché sui soggetti firmatari, come dovrebbe essere invece in un sistema razionale (ad es. nel sistema francese e in quello spagnolo) .
Peraltro, anche la maggiore rappresentatività comparata non è indice di sicura qualità dei contratti collettivi. Infatti, per difendersi dalla presenza di organizzazioni di dubbia genuinità anche i sindacati storici hanno firmato accordi al ribasso, con contratti collettivi che, in relazione a figure professionali analoghe o comunque assimilabili, stabiliscono trattamenti sensibilmente diversi.
A titolo esemplificativo, come si è rilevato , vi sono imprese che cessano di applicare il contratto della logistica transitando al contratto multiservizi, entrambi firmati da federazioni di categoria aderenti alle confederazioni storiche ed astrattamente applicabili, perché il secondo risulta più conveniente del primo per le stesse. Ed ancora, a titolo esemplificativo si può richiamare il caso di un lavoratore impiegato quale receptionist che, a parità di mansioni e di orario, tra il 2010 ed il 2016 ha subito una riduzione della retribuzione del 42,47%, passando dal CCNL dei servizi di pulizia industriale (€ 1243 al mese) prima a quello dei dipendenti di proprietari di fabbricati (€ 1049), poi al CCNL delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari (€ 715), tutti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi.
4. La conseguente necessità di un intervento legislativo.
Alla luce delle considerazioni esposte, appare ormai evidente come la via giudiziale alla determinazione della retribuzione minima, in ogni caso insufficiente e inadeguata in quanto rimessa all’iniziativa individuale dei lavoratori, sia ormai in crisi.
Allo stesso modo sono emersi in tutta la loro portata e complessità i limiti dell’attuale sistema contrattuale italiano specie nella logica della tutela dei lavoratori a maggior rischio di povertà e di esclusione sociale.
Di qui la ormai da più parti riconosciuta necessità di un intervento del legislatore, quanto meno con una normativa di sostegno alla contrattazione collettiva che muova in una duplice direzione.
Da un lato, non può più essere differita la previsione di un salario minimo legale, che avrebbe la palese finalità di garantire un livello di trattamento al di sotto del quale non sia possibile andare, senza che vengano messe in discussione le funzioni ed il ruolo tradizionali della contrattazione collettiva .
D’altro lato, la risposta al problema della povertà nel lavoro richiede che al legislatore di adottare soluzioni che, se non possono direttamente estendere erga omnes l’efficacia dei contratti collettivi, alla luce della mancata attuazione dell’art. 39, 2^ parte, cost., potrebbero peraltro individuare quali parametri di riferimento minimo quanto previsto dagli accordi sottoscritti delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative , nello stesso tempo rafforzando i meccanismi di rilevazione della rappresentatività, magari attraverso la mutuazione dell’apparato di regole concordato tra le parti sociali in sede interconfederale.