Testo Integrale con note e bibliografia
Abstract
In tempi recentissimi le questioni poste dalla vestizione del velo islamico non integrale nei luoghi di lavoro sono state portate all’attenzione dei giudici nazionali e della Corte di Giustizia. Il lavoro esamina il contenuto delle due decisioni sul tema del giudice italiano e delle pronunce di quello dell’Unione del marzo 2017. Quanto a queste ultime in esito rileva come esse operino una sostanziale riscrittura della nozione di discriminazione indiretta e insieme riducano significativamente l’ambito di operatività delle tutele antidiscriminatorie quando esse si confrontino con la libertà di impresa, in quanto consentono l’adozione da parte delle imprese di cd. codici interni di neutralità a prescindere da qualsiasi considerazione obiettiva della natura dell’attività aziendale e/o del contesto in cui essa è esercitata.
In un arco di tempo relativamente breve sia i giudizi nazionali, sia la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si sono trovati a conoscere della legittimità della vestizione del velo islamico non integrale nei luoghi di lavoro. E in tutti i casi, pur nella diversità degli esiti giudiziari, le vicende alla base delle controversie dicono molto delle complessità che abitano le società multiculturali e che intorno alle donne, al loro corpo, emergono prepotentemente, ma anche del ruolo del mercato, delle sue regole, capaci di imporsi come unici reali strumenti di regolazione di quei conflitti, disciplina universale e apparentemente naturale delle società (non più solo economie) di mercato.
La storia che ha dato origine alla lite decisa dai giudici italiani (prima il Tribunale di Lodi , poi la Corte d’Appello di Milano ) è semplice: una ragazza italiana di religione musulmana, partecipa a una selezione per l’assunzione di personale per mansioni di volantinaggio, da svolgersi in occasione di una fiera della calzatura.
La selezione è operata, per conto di un committente, da una società che si occupa professionalmente di fornire “il servizio hostess” in occasione di sfilate, fiere, manifestazioni sportive” (così testualmente la decisione del Tribunale di Lodi).
La protagonista della storia invia foto e curriculum e riceve in risposta una mail del seguente contenuto: “ciao Sara, mi piacerebbe farti lavorare perché sei molto carina, ma sei disponibile a toglierti lo chador?”, cui risponde così: “ciao Jessica porto il velo per motivi religiosi e non sono disposta a toglierlo. Eventualmente potrei abbinarlo alla divisa.”
La risposta è: “ciao Sara immaginavo, purtroppo i clienti non saranno mai così flessibili. Grazie comunque”.
Sara conviene allora la società selezionatrice davanti al Tribunale di Lodi ritenendo la sua esclusione discriminatoria per ragioni di religione e comunque di genere.
Il Tribunale le dà torto, negando in primo luogo l’esistenza di una discriminazione diretta per ragioni di religione, e quindi la relazione causale tra l’esclusione della lavoratrice dalla selezione e il fattore protetto, con una qualche imprecisione terminologica (così almeno pare a chi scrive) nella parte in cui la pronuncia dice dell’assenza di un intento discriminatorio, così introducendo almeno sul piano lessicale nella descrizione della fattispecie un elemento di soggettività (l’intenzione dell’agente) del tutto estraneo alla natura obiettiva e funzionale dei divieti di discriminazione (da ultimo affermata dalla Corte di Cassazione con una decisione di grande rilievo che immuta un precedente diverso indirizzo; cfr. Cass. 6575/2016).
Ma l’esclusione, secondo il giudice, non sarebbe neppure l’esito di una discriminazione indiretta, cioè l’applicazione di una regola o di una prassi apparentemente neutre, ma in realtà suscettibili di arrecare ai soggetti portatori dei fattori protetti un particolare svantaggio rispetto ad un terzo comparabile (che di quei fattori non sia invece portatore).
E non lo è, prosegue il Tribunale, poiché la committente dell’impresa selezionatrice avrebbe richiesto che le lavoratrici selezionate avessero ben precise caratteristiche fisiche: “altezza di almeno m. 1,65, numero di scarpa 37, taglia 40\42, capelli lunghi e vaporosi, disponibilità ad indossare la divisa fornita dall’azienda con minigonna”, oltre alla conoscenza della lingua inglese parlata.
Avere “capelli lunghi e vaporosi” è allora, secondo il Tribunale di Lodi, un requisito essenziale della prestazione, per come essa è apprezzata dal committente che chiede alle lavoratrici “non solo di distribuire volantini ma [di] farlo prestando la propria immagine con le caratteristiche volute dal datore di lavoro” e ciò in un contesto (un evento fieristico nel settore della moda) “senz’altro compatibile con la richiesta di una figura di donna piacevole ed attraente”.
Con la conseguenza che dalla selezione sarebbe stata esclusa qualunque donna che avesse rifiutato per i motivi più vari di scoprire i capelli, così che la circostanza che la ricorrente non avesse inteso farlo per motivi religiosi non l’avrebbe posta in alcuna particolare situazione di svantaggio.
La Corte d’Appello di Milano è stata di contrario avviso.
La pronuncia di secondo grado muove dall’affermazione del carattere oggettivo dei divieti di discriminazione, destinati a operare indipendentemente dall’intenzione soggettiva dell’agente, così che è vietato un effetto (il trattamento deteriore causalmente connesso al fattore protetto), non un motivo.
Data questa premessa, ed esclusa di conseguenza la rilevanza di ogni indagine in ordine all’esistenza di una volontà soggettiva dell’agente di discriminare, la Corte milanese ritiene poi dimostrato che lo hijab (il velo che copre i capelli, ma lascia scoperto il volto, di cui, merita ribadire, si discute nella specie) abbia una connotazione religiosa, rientrando nelle pratiche consigliate dal Corano, e pacifico che l’esclusione della ricorrente dalla selezione sia avvenuta in conseguenza della sua decisione di non togliere il velo.
Ne deduce che, essendo il hijab un abbigliamento che connota l’appartenenza alla religione musulmana, l’esclusione da un posto di lavoro a causa del hijab costituisca una discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa.
La Corte esamina quindi l’esistenza di una deroga al divieto di discriminazione secondo la previsione dell’art. 4 della Direttiva n. 2000/78 (che in tema di “requisiti per lo svolgimento dell’attività lavorativa”, attribuisce agli Stati membri la possibilità di “stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’art. 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purchè la finalità sia legittima e il requisito proporzionato”) e, diversamente dal primo giudice, esclude in punto di fatto che nella specie la capigliatura (e quindi il capo scoperto) costituisse un elemento essenziale della prestazione, come richiesta dalla committente.
La sentenza quindi riforma la decisione di primo grado proprio in relazione all’argomento più controvertibile di quella pronuncia: l’assunto che l’essenzialità di un carattere ai fini della prestazione, che costituisce deroga al divieto di discriminazione, sia connotato rimesso alla soggettiva determinazione del datore di lavoro.
Tuttavia, poiché la Corte d’Appello argomenta il decisum in punto di fatto, essa non si occupa dell’astratta correttezza di una simile affermazione, operata dal giudice di primo grado, affermazione che certamente non può condividersi.
Infatti, ove dovesse darsi un’applicazione coerente del percorso argomentativo del Tribunale, dovrebbe ritenersi la facoltà del datore di lavoro di individuare come essenziale qualsiasi caratteristica personale del lavoratore per quanto del tutto estranea al contenuto obiettivo della prestazione richiestagli, come era certo obiettivamente estranea nella specie una “capigliatura folta e vaporosa” o l’indossare una minigonna rispetto al distribuire volantini per quanto ad una fiera della calzatura.
Che si tratti di una conclusione inaccettabile è agevole accorgersi ove solo si provi ad includere tra le caratteristiche richieste, per dire, la pelle bianca o l’eterosessualità.
E si tratta infatti di un assunto escluso dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, da ultimo proprio in una delle due decisioni che hanno avuto ad oggetto il divieto di vestizione del velo islamico, in cui si legge che “secondo i termini stessi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, la caratteristica in questione può costituire un requisito del genere unicamente «per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata».
Da dette diverse indicazioni risulta che la nozione di «requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa», a norma di tale disposizione, rinvia a un requisito oggettivamente dettato dalla natura o dal contesto in cui l’attività lavorativa in questione viene espletata. Essa, per contro, non può includere considerazioni soggettive, quali la volontà del datore di lavoro di tener conto dei desideri particolari del cliente” (così Corte di Giustizia, C – 188/15, 14.3.2017, Bougnaoui e ADDH).
Si tratta del resto di un’affermazione non nuova nella giurisprudenza del Giudice dell’Unione.
Essa si legge con particolare chiarezza tra l’altro nella sentenza 10 luglio 2008 della Grande Sezione, Feryn.
La vicenda allora portata alla cognizione della Corte era, com’è noto, quella di un’impresa specializzata nella vendita e nell’installazione di porte basculanti e sezionali (la società Feryn appunto), accusata di fronte ad un Tribunale belga da un organismo nazionale deputato, in applicazione dell’art. 13 della direttiva 2000/43, a promuovere la parità di trattamento, di applicare una politica di assunzione discriminatoria. Ciò in ragione delle dichiarazioni pubbliche rese dal responsabile di quell’impresa secondo cui la società intendeva reclutare operai installatori, ma “non poteva assumere «alloctoni» a motivo delle reticenze della clientela a farli accedere alla propria abitazione privata durante i lavori” (così il punto 16 della decisione).
In quel caso la Corte ha affermato l’idoneità di tali dichiarazioni “a far presumere l’esistenza di una politica di assunzione direttamente discriminatoria ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva 2000/43” ed ha ritenuto esclusa la fattispecie vietata solo per il caso il datore di lavoro avesse provato la difformità della “prassi effettiva di assunzione da parte dell’impresa” rispetto a quelle dichiarazioni, senza attribuire alcun rilievo, ai fini dell’esclusione del divieto, alle presunte ragioni della selezione discriminatoria affermate dal rappresentante dell’impresa.
E sul punto, nelle sue conclusioni l’Avvocato generale aveva osservato che: “l’affermazione del sig. Feryn secondo cui i clienti sarebbero maldisposti nei confronti dei lavoratori di una determinata origine etnica è del tutto irrilevante rispetto alla questione dell’applicabilità della direttiva. Quand’anche tale affermazione corrispondesse al vero, essa dimostrerebbe solo che «i mercati non cureranno la discriminazione» e che l’intervento del legislatore è essenziale” (punto 18 delle conclusioni). Difficilmente si sarebbe potuto dire meglio e più sinteticamente la funzione dei divieti di discriminazione, la loro attitudine ad operare anche (se non necessariamente) in maniera disfunzionale rispetto alle logiche del mercato e dell’impresa.
Non meraviglia allora il dibattito seguito alle due decisioni della Corte di Giustizia del 14 marzo 2017 relative ai divieti di vestizione del velo non integrale nei luoghi di lavoro (si tratta della sentenza C – 188/15, 14.3.2017, Bougnaoui e ADDH, già sopra ricordata e di CGUE, C -157/15, 14.3.2017, G4S Secure Solutions), giacché non pare dubitabile che con esse il Giudice dell’Unione abbia costretto entro limiti ben più angusti l’operatività dei divieti di discriminazione proprio quando essi si confrontino con la libertà d’impresa.
In entrambe le sentenze, infatti, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di licenziamenti intimati a lavoratrici (la receptionist di un’impresa che forniva servizi di ricevimento e accoglienza e un’ingegnera progettista) che si erano rifiutate di togliersi il velo nei luoghi e nel tempo di lavoro, la Corte ritiene decisivo l’accertamento dell’esistenza, presso le imprese datrici di lavoro all’epoca dei licenziamenti, di norme interne che vietassero di esibire “segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose” (così il punto 30 della sentenza G4S Secure Solutions).
In tal caso infatti (e salvo l’accertamento della corretta, e quindi imparziale, applicazione del codice interno), facendosi questione di un divieto che riguarda “qualsiasi manifestazione di tali convinzioni, senza distinzione alcuna” e “tratta in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, segnatamente una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni”, non si darebbe “una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78” (così ancora CGUE, G4S Secure Solutions, punto 32).
Un simile codice interno, tuttavia, prosegue in ambedue le pronunce la Corte, per quanto in apparenza neutro, potrebbe in fatto determinare un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, come le ricorrenti nelle due controversie, così che potrebbe darsi “una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78” (così testualmente il punto 32 della sentenza CGUE Bougnaoui e ADDH; cfr. anche i punti 30-34 di CGUE, G4S Secure Solutions).
Tuttavia “ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), di tale direttiva, tale disparità di trattamento non costituirebbe … una discriminazione indiretta qualora fosse oggettivamente giustificata da un obiettivo legittimo, quale l’attuazione, …, di una politica di neutralità nei confronti della … clientela, e se i mezzi impiegati per il conseguimento di tale obiettivo fossero appropriati e necessari” (così ancora il punto 33 della sentenza CGUE Bougnaoui e ADDH).
E in CGUE G4S Secure Solutions, la Corte precisa che, quanto al requisito dell’esistenza di una finalità legittima, “la volontà di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa, deve essere considerata legittima.
Infatti, la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un’immagine di neutralità rientra nella libertà d’impresa, riconosciuta dall’articolo 16 della Carta, ed ha, in linea di principio, carattere legittimo, in particolare qualora il datore di lavoro coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo soltanto i dipendenti che si suppone entrino in contatto con i clienti del medesimo” (punti 37 – 38 della sentenza).
Mentre, quanto al carattere appropriato di una norma interna che vieti ai lavoratori di indossare in modo visibile segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, la Corte osserva che essa è idonea “ad assicurare la corretta applicazione di una politica di neutralità, a condizione che tale politica sia realmente perseguita in modo coerente e sistematico (v., in tal senso, sentenze del 10 marzo 2009, Hartlauer, C 169/07, EU:C:2009:141, punto 55, e del 12 gennaio 2010, Petersen, C 341/08, EU:C:2010:4, punto 53)”, accertamento che spetta al giudice nazionale compiere nella concreta situazione di fatto sottoposta al suo esame.
Infine il divieto di esibire simboli religiosi potrà dirsi necessario sempre che sia limitato a quanto indispensabile ad assicurare l’immagine di neutralità perseguita dalla datrice di lavoro e quindi quando “interessi unicamente i dipendenti … che hanno rapporti con i clienti” (così CGUE G4S Secure Solutions, punto 42).
Le conclusioni della Corte colpiscono almeno per due ragioni.
In primo luogo per la ridefinizione dei confini della discriminazione indiretta che esse operano, per cui può dirsi neutra (o almeno, ai fini che interessano, apparentemente neutra) anche una regola che impone divieti e fa seguire conseguenze pregiudizievoli immediatamente alla titolarità di fattori protetti (le opinioni politiche e religiose) purché quei divieti e quelle conseguenze valgano per ogni opinione politica e religiosa senza distinzioni.
Ma anche assunta una simile nozione di discriminazione indiretta, e perciò ritenuta la rilevanza delle cause di giustificazione, colpisce che la Corte consideri la cosiddetta “politica di neutralità” finalità legittimamente perseguibile da qualsiasi impresa, indipendentemente dalla natura o dal contesto della sua attività e quindi in effetti in esito precisamente a quelle “considerazioni soggettive” del datore di lavoro che pure, secondo la stessa Corte, non dovrebbero valere a segnare i limiti dei divieti di discriminazione.
Considerazioni soggettive che peraltro non è difficile immaginare legate alle esigenze di mercato delle singole imprese e perciò in primis alle aspettative, vere o presunte, dei loro clienti.
Così che se “la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa” (così il punto 41 della sentenza C-188/15), non di meno quella stessa determinazione costituisce una facoltà ex se legittima ove il datore di lavoro abbia l’accortezza di assecondare i desideri dei propri clienti (o magari di prevenirne le richieste), ma adottando un codice aziendale di neutralità. Che avrebbe peraltro l’identico effetto obiettivo di svantaggiare (in primo luogo e soprattutto) le donne musulmane, in quanto in fatto, indubitabilmente, il gruppo sociale più numeroso le cui convinzioni religiose impongano un particolare abbigliamento.
E’ impossibile allora non pensare che, con le due decisioni del marzo scorso, la Corte abbia ridisegnato i confini dei divieti di discriminazione rendendoli assai più inoffensivi rispetto alle ragioni del mercato e insieme abbia rimesso a quelle ragioni di segnare i limiti nei quali può darsi, nelle nostre complesse società multiculturali, la convivenza di individui e gruppi portatori di diverse opinioni e idealità. Una conclusione che non può tranquillizzare.