Testo integrale con note e bibliografia
1. La tutela della parità retributiva tra uomini e donne: dal modello protettivo al modello emancipatorio (molto in breve).
I settanta anni che ci separano dall’entrata in vigore della Costituzione hanno segnato una trasformazione profonda del lavoro delle donne e delle forme di tutela dei loro diritti, una trasformazione che ha inciso moltissimo anche sulle relazioni extralavorative tra i generi, giacché è certo che comunque il lavoro (l’accesso al lavoro, la sua disciplina, le garanzie della retribuzione, la sua attitudine ad assicurare un’effettiva indipendenza economica) determinano anche l’articolazione e gli equilibri dei rapporti familiari. Ne scriveva già Virginia Woolf quando affermava che “la libertà intellettuale dipende da cose materiali” e non ha mai smesso di essere vero.
Del resto nella regolamentazione del lavoro delle donne, fin dai principi fondanti affermati dalla Costituzione all’art. 37, e poi nella legislazione nazionale successiva, il tema della tutela dei diritti delle lavoratrici si intreccia indissolubilmente con quello della protezione, non solo della maternità biologica (del corpo delle donne), ma anche di quella che la Costituzione chiama “l’essenziale funzione familiare” della donna lavoratrice.
Tuttavia è proprio questa relazione (tra lavoro produttivo e lavoro di cura) che dal punto di vista delle tutele giuridiche ha subito dall’entrata in vigore della Costituzione una trasformazione significativa, perché al modello che potremo definire per semplicità “protettivo”, di cui vi è traccia importante nell’art. 37 della Cost., si è progressivamente sostituito un modello emancipatorio, essenzialmente costruito sul principio di non discriminazione di fonte eurounitaria e forse anche questo potrebbe essere in futuro sostituito da un modello ancora diverso, fondato sulla valorizzazione della differenza, in esito alla profonda evoluzione che vive il diritto antidiscriminatorio.
Peraltro questa evoluzione si intreccia, si è già intrecciata, con un’altra, apparentemente inarrestabile, trasformazione: quella rappresentata dalla progressiva precarizzazione di tutto il lavoro, il lavoro degli uomini e quello delle donne, iniziata con accenti e tempi molto diversi a partire dagli anni Novanta e che ha impresso anche alla diffusione delle tutele antidiscriminatorie direzioni inedite e spesso contraddittorie.
. Qualunque narrazione, anche elementare, di questo complesso cammino, non può che prendere avvio dall’art. 37 della Costituzione secondo cui: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione”.
La prima parte della disposizione porta la riaffermazione del principio paritario, espressione del principio di uguaglianza formale affermato in via generale dall’art. 3, e insieme la chiara proclamazione della piena inclusione delle donne nella sfera lavorativa.
Assai più complesso è il contenuto normativo del secondo periodo, che compendia probabilmente in sé tutta l’ambiguità del modello protettivo di tutela del lavoro delle donne.
E’ noto come si tratti di un precetto la cui elaborazione provocò un contrasto lacerante tra le diverse componenti dell’assemblea costituente, una divisione non solo ideologica, ma anche di genere, risolta con il compromesso dell’attuale formulazione, dovuto essenzialmente all’intervento di ricomposizione operato da Moro.
Ambiguo questo precetto, perché da un lato assicura speciale protezione alla condizione della maternità biologica, una protezione sempre essenziale, ma particolarmente all’epoca di entrata in vigore della Costituzione quando l’occupazione delle donne si concentrava nei settori del lavoro manuale, quasi sempre usurante (l’agricoltura, il lavoro a domicilio, comunque il lavoro operaio), ed era largamente sommersa nell’economia informale.
Della dura condizione delle donne lavoratrici, soprattutto delle classi povere (e l’Italia era allora per lo più povera), costrette a una brutale doppia presenza (nel lavoro produttivo, sotto pagato o anche del tutto gratuito in quanto inserito nell’economia della famiglia contadina, e in quello di cura) dicono gli interventi di alcune delle costituenti, che oppongono la vita reale delle donne reali alla retorica di molti costituenti sull’angelo del focolare. Così per esempio la deputata Federici che parla di “sofferenze nascoste e crudeli” imposte alle donne o Lina Merlin che dice “Noi sentiamo che la maternità, cioè la nostra funzione naturale non è una condanna, ma una benedizione e deve essere protetta dalle leggi dello Stato senza che si circoscriva e si limiti il nostro diritto a dare quanto più sappiamo e vogliamo in tutti i campi della vita nazionale e sociale, certe come siamo di continuare e completare liberamente la nostra maternità”.
Ma il richiamo all’essenziale funzione familiare della donna lavoratrice dice anche altro, perché c’è nella norma obiettivamente (e la sua formazione in assemblea costituente lo testimonia) il riferimento anche a un ruolo sociale, a un modello di relazione tra i generi nel quale il lavoro di cura (e di riproduzione sociale) apparteneva essenzialmente, naturalmente, nel senso preciso di “per natura” alle donne.
Ed è proprio questa commistione tra tutela e segregazione, tra protezione dei diritti e perpetuazione di stereotipi che segna la legislazione successiva per molti anni.
Infatti fino all’affermarsi del modello antidiscriminatorio, essenzialmente sospinto dal diritto dell’Unione e dalla sua primazia, la tutela del lavoro delle donne nell’ordinamento nazionale resta affidata a un modello protettivo differenziante, che non solo garantisce la maternità biologica (con l’astensione per maternità e il divieto di licenziamento della lavoratrice madre), ma mira ad assicurare alle donne condizioni di lavoro assunte come compatibili con la funzione loro affidata in via praticamente esclusiva di cura della famiglia e dei figli.
Sono emblematiche di questo modello due disposizioni (o per l’esattezza due complessi di disposizioni): quelle che vietavano il lavoro notturno delle donne e la disciplina differenziata del pensionamento che prevedeva (e in alcuni settori ancora prevede) l’accesso (o la possibilità di accesso) anticipato delle donne al pensionamento.
Si tratta di vicende note.
Quanto alla disciplina del lavoro notturno, l’art. 5 della L. 903/1977 aveva conservato il divieto generalizzato del lavoro notturno (inteso come tale quello prestato dalle 24 alle 6) femminile nelle aziende manifatturiere, ad eccezione delle “donne che svolgono mansioni direttive, nonché alle addette ai servizi sanitari aziendali” e salva la possibilità di modificazione o rimozione del divieto ad opera della contrattazione collettiva “in relazione a particolari esigenze della produzione e tenendo conto delle condizioni ambientali del lavoro e dell'organizzazione dei servizi”. Nessuna deroga era consentita per le donne dall'inizio dello stato di gravidanza e fino al compimento del settimo mese di età del bambino.
Il divieto, previsto da analoghe disposizioni della legge francese, arrivò nel luglio 1991 all’esame della Corte di Giustizia.
Il parametro di riferimento del giudice dell’Unione era il principio di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, affermato come principio di parità retributiva già nella versione originaria del Trattato istitutivo delle Comunità Europee e all’epoca disposto nel diritto derivato dell’Unione dalla direttiva 76/207/CEE del febbraio 1976 il cui art. 5 prevedeva che “L'applicazione del principio della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso” e impegnava gli Stati membri a sopprimere “le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie al principio della parità di trattamento”.
In quel giudizio, che si concluse con la sentenza Stoeckel, il governo francese e quello italiano, che era intervenuto, affermarono che “il divieto di lavoro notturno per le donne, accompagnato peraltro da numerose deroghe, risponde a finalità generali di protezione della manodopera femminile e a considerazioni particolari di ordine sociale riguardanti, ad esempio, i rischi di aggressione ed il maggior carico di lavoro familiare gravante sulla donna”
La Corte di Giustizia, con la sentenza Stoeckel, affermò in contrario che: “Per quanto attiene alle finalità di protezione della manodopera femminile, esse possono ritenersi fondate, …, solamente in quei casi in cui un diverso trattamento fra uomini e donne risulti giustificato. Orbene, quali che possano essere gli inconvenienti del lavoro notturno, non sembra che, salvo i casi di gravidanza e maternità, i rischi ai quali le donne si trovano esposte a causa del detto lavoro presentino, in linea generale, natura differente da quelli cui sono esposti anche gli uomini.
16 Per quanto concerne i rischi di aggressione, ammesso che siano maggiori di notte che di giorno, possono essere predisposte misure adeguate per farvi fronte senza pregiudicare il principio fondamentale della parità di trattamento fra uomini e donne.
17 Quanto alle responsabilità familiari, la Corte ha già affermato che la direttiva non ha lo scopo di disciplinare questioni attinenti all'organizzazione della famiglia o di modificare la ripartizione delle responsabilità all'interno della coppia (v. sentenza 12 luglio 1984, Hoffmann, punto 24 della motivazione, causa 184/83, Racc. pag. 3047)”.
Il tenore di quest’ultima affermazione, che non andò esente da critiche, dà conto dell’alterità (a quell’epoca anche più profonda che adesso) tra il dispositivo antidiscriminatorio che era alla base del principio di parità di trattamento di fonte eurounitaria e l’apparato protettivo del lavoro delle donne in essere in Italia e anche in altri Stati della Comunità.
Una diversità che rimandava in primo luogo alla diversa origine del principio di non discriminazione. Quel principio, già affermato nel trattato nelle forme della parità retributiva, nasceva per una comunità di Stati all’epoca solo economica, nasceva quindi per il mercato, per assicurarne il corretto funzionamento e la libera circolazione dei lavoratori ed evitare fenomeni di dumping sociale. Quest’origine e questa funzione mercatista giustificavano allora l’affermazione della Corte di Giustizia che la direttiva non curasse i rapporti familiari, non li curava perché il suo ambito di riferimento era il mercato.
Quindi a una disciplina, come quella nazionale italiana e francese, che assicurava sì condizioni lavorative astrattamente di maggior favore per le donne (in quanto le esentava da un lavoro di per sé disagiato come quello notturno), ma proteggeva e conservava anche un ordine sociale in cui il lavoro di cura gravava “per natura” sulle donne, se ne contrapponeva un’altra nella quale gli uomini e le donne rilevavano in quanto attori economici del mercato del lavoro, ai quali doveva essere assicurata piena parità nell’accesso alle occasioni di lavoro.
Un contrasto simile si produsse diversi anni dopo, questa volta in relazione a disposizioni dell’ordinamento italiano, quelle relative all’età pensionabile delle donne (segnatamente le lavoratrici pubbliche), che il diritto interno differenziava rispetto a quella degli uomini, attribuendo alle lavoratrici il diritto di accedere ai trattamenti di vecchiaia in età meno avanzata degli uomini.
Un regime che la Corte Costituzionale aveva ritenuto legittimo anche nella pronuncia (si tratta di C. Cost n. 498/1988) con cui aveva invece caducato al disposizione dell’art. 4, l. n. 903/1977, che attribuiva alle donne lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, la possibilità di continuare a lavorare (secondo il regime di stabilità, reale od obbligatoria, proprio del rapporto) negli stessi limiti di durata del rapporto di lavoro prevista per l’uomo lavoratore da disposizioni legislative, regolamentari o contrattuali, ma solo per le donne richiedeva un’opzione in tal senso e la sua comunicazione al datore di lavoro, da farsi entro un termine prestabilito (una disposizione analoga, introdotta dal d.lgs. n. 198/2006, è stata dichiarata incostituzionale da C. Cost. 29.10.2009, n. 275).
Nella pronuncia del 1988 la Corte aveva infatti distinto tra età massima lavorativa (di cui si discuteva a proposito del disposto dell’art. 4, l. n. 903/1977), che doveva essere “eguale per la donna e per l’uomo” (così che la norma dell’art. 4, che invece differenziava la posizione degli uomini e delle donne quanto alla conservazione del rapporto di lavoro nel regime di stabilità suo proprio, doveva ritenersi incostituzionale) e il diritto “della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione”.
Portata questa disciplina alla cognizione della Corte di Giustizia ad iniziativa della Commissione, il governo italiano, difendendosi in quel giudizio, affermò la finalità protettiva della disposizione differenziale, ma la Corte di Giustizia fu di contrario avviso (si tratta della decisione CGUE 13.11.2008, C-46/07, Commissione c. Repubblica italiana).
Anche in questo caso è significativo leggere gli argomenti del giudice dell’Unione. Secondo la Corte infatti “L’argomento della Repubblica italiana secondo cui la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione di età diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne non può essere accolto. Anche se l’art. 141, n. 4, CE autorizza gli Stati membri a mantenere o a adottare misure che prevedano vantaggi specifici, diretti a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali, al fine di assicurare una piena uguaglianza tra uomini e donne nella vita professionale, non se ne può dedurre che questa disposizione consente la fissazione di una tale condizione di età diversa a seconda del sesso. Infatti, i provvedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo …
58 Ora, la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale”.
. A fronte di simili diversità tra ordinamento interno e ordinamento dell’Unione la primazia del diritto dell’Unione, che segue alla speciale relazione di integrazione tra l’ordinamento sovranazionale e quello degli Stati membri, ha comportato necessariamente la progressiva sostituzione del modello protettivo con quello emancipatorio fondato sul principio di non discriminazione.
Così è avvenuto, come è noto, nei due casi sopra menzionati.
Nel primo infatti il legislatore italiano, con la L. 25/1999, modificò l’art. 5 della L. 903/1977 che conteneva il divieto di lavoro notturno, limitò tale divieto alle lavoratrici madri (dall’inizio della gravidanza fino all’anno di età del bambino) e garantì ad alcune categorie di lavoratrici e lavoratori (genitori di bambini fino a tre anni o fino a dodici in caso di unico genitore affidatario e soggetti che si prendano cura di portatori di handicap) il diritto a non lavorare di notte, mentre nel caso delle lavoratrici pubbliche aumentò l’età pensionabile anche per le donne.
A fronte dell’arretramento del modello protettivo peraltro il principio di non discriminazione di fonte UE (nato si è detto per assicurare l’uguaglianza tra attori economici) si è arricchito di contenuti, grazie anche alla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Si è ampliata infatti, non solo l’area della sua applicazione (in ragione dell’individuazione di nuovi fattori di protezione oltre l’archetipo della differenza di genere, tali da individuare non solo condizioni innate, come la razza o l’età, ma anche scelte di vita, così le convinzioni personali), ma più ancora il suo contenuto valoriale, che la Corte di Giustizia, con un percorso non sempre lineare e anzi accidentato (come spesso accade al diritto che è più di Corti che di leggi scritte) dichiaratamente ha ancorato ai diritti fondamentali della persona, così che esso si è rivelato capace di operare anche in maniera disfunzionale rispetto alle logiche del mercato per cui era nato .
D’altro canto la peculiare natura del dispositivo antidiscriminatorio (incentrata sul divieto di trattamenti differenziali oggettivamente connessi ai fattori di discriminazione senza che rilevi una soggettiva volontà dell’agente di discriminare) e del regime dell’onere della prova che gli è proprio , come pure l’attribuzione della legittimazione ad agire in capo a soggetti collettivi, hanno modificato significativamente le possibilità di concreta tutela dei diritti delle donne alla pari condizione nel rapporto di lavoro.
Perché il fatto che non sia necessario indagare la volontà soggettiva dell’autore delle asserite discriminazioni, che su questi gravi una frazione consistente dell’onere della prova e che si possa agire anche quando non è individuata la vittima delle discriminazioni (perché ad agire sono soggetti collettivi a ciò legittimati) consente alle tutele antidiscriminatorie di operare anche in ambiti in cui le norme protettive si erano rivelate poco o per niente efficaci, così per esempio nel caso dell’accesso al lavoro o nelle progressioni di carriera .
Ugualmente la funzione non solo riparativa del risarcimento del danno affermata nelle direttive antidiscriminatorie permette in linea di principio di assicurare una tutela minima a fronte di violazioni in cui un pregiudizio effettivamente sopportato dal danneggiato è difficilissimo da individuare e ancora di più da provare.
Ma il modello cd. emancipatorio fondato sul principio di non discriminazione appare in grado di fornire tutele incisive anche in ambiti più tradizionali come quello della disciplina limitativa dei licenziamenti, nel momento in cui questa si ridimensiona marginalizzando le tutele reintegratorie, che restano per l’appunto limitate al licenziamento discriminatorio e a poche altre fattispecie (si veda sul punto soprattutto Cass. 6675/2016, che ha significativamente immutato l’indirizzo di legittimità precedente). Ciò essenzialmente ancora in ragione del carattere oggettivo del divieto di discriminazione e del peculiare regime dell’onere della prova.
2. Parità di retribuzione per lavoro di uguale valore. Il principio e la (dura) realtà.
Il processo di integrazione normativa tra diritto interno e diritto dell’Unione ha portato quindi la disciplina nazionale in tema di parità di diritti tra uomini e donne nel rapporto di lavoro a modellarsi su quella delle fonti eurounitarie.
Più specificamente quanto alla parità retributiva, che qui interessa, la norma dell’art. 28 del Codice delle pari opportunità richiama quasi letteralmente il disposto dell’art. 4 della direttiva 2006/54/CE secondo cui “per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, occorre eliminare la discriminazione diretta e indiretta basata sul sesso e concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni. In particolare, qualora si utilizzi un sistema di classificazione professionale per determinare le retribuzioni, questo deve basarsi su principi comuni per i lavoratori di sesso maschile e per quelli di sesso femminile ed essere elaborato in modo da eliminare le discriminazioni fondate sul sesso”.
A fronte dell’assolutezza del divieto di discriminazione è tuttavia il dato di fatto incontrovertibile di un significativo gender pay gap, in Italia, come in genere (seppure con differenze significative) all’interno dell’Unione Europea . Secondo gli ultimi dati Eurostat, riferiti al 2017 , infatti tra i salari di uomini e donne vi è nell’ambito dell’Unione europea un differenziale medio rapportato alla paga oraria del 16,0% (del 16,1% limitando l’analisi ai paesi dell’area Euro), con un’oscillazione molto ampia tra i diversi paesi (22 punti percentuale, con un minimo del 3,5% in Romania e un massimo del 25,6% in Estonia).
Si tratta, come precisa Eurostat, di misurazioni grezze (‘unadjusted’), che non tengono conto cioè di alcuni fattori che differenziano significativamente le modalità di impiego di uomini e donne, a partire dalle diverse forme contrattuali cui gli uni e le altre accedono con diversa frequenza (per ragioni varie) e dalla persistente diversità del numero medio di ore lavorate dai due gruppi.
È noto infatti come le donne siano impiegate in percentuale molto più alta degli uomini con contratti part time, come pure il fatto che le carriere femminili mediamente subiscano un numero maggiore di interruzioni (generalmente connesse al lavoro di cura) e siano perciò generalmente più brevi.
Inoltre a differenziare significativamente lavoratori e lavoratrici come gruppi è il fatto della concentrazione del lavoro femminile in settori dove le retribuzioni sono più basse e la sindacalizzazione minore (il lavoro domestico, ma più generalmente le attività legate alla cura delle persone, nel settore manifatturiero l’industria tessile).
È certo quindi che “le differenze nelle retribuzioni di uomini e donne devono essere interpretate come il risultato di un confronto tra due popolazioni di lavoratori con caratteristiche diverse” , per quanto tali diverse caratteristiche dipendano anch’esse in misura non irrilevante dalla posizione deteriore delle donne, come gruppo, nel mercato del lavoro. Una posizione determinata in primo luogo dalla disparità del loro impegno nel lavoro di cura rispetto agli uomini (che ha incidenza diversa nei diversi paesi in conseguenza di fattori vari) e, dato probabilmente collegato al primo, dalla loro segregazione occupazionale in settori meno remunerativi.
Tuttavia studi e rilevazioni più recenti hanno cercato di tenere conto delle differenze tra le due popolazioni e perciò di “separare le caratteristiche dei lavoratori (come istruzione, anzianità, qualifica professionale, addestramento sul lavoro, ecc.) da come queste caratteristiche sono valutate (ovvero, retribuite)” . Non è allora irrilevante segnalare come anche simili indagini abbiano concluso che “anche se la composizione della forza lavoro tra i sessi rispetto alle caratteristiche personali e occupazionali fosse identica, rimane un considerevole gap tra le retribuzioni di uomini e donne. Detto in altri termini, il lavoro svolto dalle donne è valutato meno rispetto al lavoro svolto dagli uomini” .
È questo differenziale (il deteriore trattamento retributivo a parità di lavoro cioè la retribuzione diversa per lo stesso lavoro o un lavoro di valore uguale) a formare oggetto, nel diritto positivo, del divieto previsto dall’art. 28 del Codice delle pari opportunità, che si riferisce certamente, non solo alle retribuzioni minime (rispetto alle quali opererebbe comunque il parametro della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost., che consente il riferimento ai minimi previsti dall’autonomia collettiva), ma più generalmente a qualsiasi trattamento retributivo.
E anzi è ragionevole ritenere che l’ambito applicativo privilegiato del divieto debba essere quello dei trattamenti superiori ai minimi, più spesso riservati alle professionalità più elevate .
È un fatto tuttavia che la norma abbia avuto nella pratica giudiziale scarsissima applicazione, probabilmente per varie ragioni.
In primo luogo a una simile marginalità deve aver concorso la ricostruzione della discriminazione come motivo illecito, operata dalla giurisprudenza assolutamente prevalente fino a tempi recentissimi , con le conseguenti difficoltà probatorie per chi l’affermasse.
Né probabilmente è stato irrilevante nel medesimo senso l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che, almeno a partire da Cass. S.U. 9.5.1993, n. 6030, ha escluso l’esistenza, nel rapporto di lavoro privato, di un principio di parità di trattamento contrattuale, oltre la “parità nei minimi”, così che ogni trattamento differenziato al di sopra di tali minimi era considerato legittimo, a meno che non vi fosse prova della sua natura discriminatoria, ma intesa la discriminazione nell’accezione “soggettiva” di cui si è detto .
In ogni caso peraltro, anche ritenendo invece sindacabile il trattamento differenziale alla luce del principio di buona fede contrattuale, in effetto un’indagine fondata su quel canone si sarebbe comunque scontrata con difficoltà probatorie spesso insormontabili per la parte attrice, tenuta a superare la presunzione di buona fede prevista dal codice civile.
Il revirement della Corte di Cassazione (di cui alla più volte citata Cass. 6675/2016) nel senso del carattere oggettivo dei divieti di discriminazione e la conseguente applicazione anche da parte del giudice nazionale del regime probatorio agevolato previsto per le discriminazioni dal diritto dell’Unione apre allora nuove prospettive di tutela anche a fronte di trattamenti differenziali sul piano retributivo.
Certo anche così l’onere gravante sulla parte che si afferma discriminata non sarà sempre agevole. In particolare potrebbe non essere facile indicare correttamente i termini del giudizio di comparazione, cioè individuare adeguatamente il lavoratore comparabile, particolarmente quando si faccia questione di lavoratori richiesti non dello stesso lavoro, ma di lavori di “uguale valore”.
Tuttavia, assunto che un simile onere (prima di allegazione, sufficientemente specifica, quindi di prova) venga assolto, spetterà al datore di lavoro dimostrare l’inesistenza della discriminazione, con allegazioni altrettanto specifiche e prove sufficienti, l’insufficienza o la contraddittorietà di una simile prova andando a suo danno, in ragione del meccanismo probatorio oggi descritto dall’art. 40 del Codice delle pari opportunità.
La posizione della parte attrice sarà ovviamente più complessa nel caso in cui affermi l’esistenza di una discriminazione indiretta (si pensi alle disposizioni di vari contratti collettivi che legano la corresponsione di talune voci retributive accessorie alla presenza effettiva in servizio per un tempo minimo nell’anno, senza operare alcuna “neutralizzazione” dei periodi di astensione per maternità o congedo parentale, disposizioni che possono determinare un particolare svantaggio per le lavoratrici madri, che usufruiscono in via esclusiva dell’astensione obbligatoria e in misura largamente prevalente dei congedi parentali), operando in tali casi il regime delle cause di giustificazione.
. Oltre a vietare trattamenti retributivi differenziali in relazione al genere le norme antidiscriminatorie precludono anche discriminazioni tra uomini e donne nell’assegnazione delle mansioni e nelle progressioni di carriera.
Nell’ordinamento interno, come è noto, il precetto è contenuto nell’art. 29 del Codice delle pari opportunità, che si riferisce certamente sia alle discriminazioni dirette sia a quelle indirette.
Anche in questo caso la disposizione di legge si confronta con il dato certo dell’esistenza di un significativo squilibrio di genere in relazione ai vari livelli retributivi, esistente, sia pure in misura diversa, in tutti i paesi dell’Unione e connotato da “una progressiva rarefazione della presenza femminile mano a mano che si sale nei livelli di carriera (e, di conseguenza, nei livelli retributivi)” . Un fenomeno che, nella gran parte dei paesi e comunque in Italia, è più evidente nel settore privato rispetto all’impiego pubblico, in cui il meccanismo del concorso costituisce un importante correttivo.
Nell’ordinamento interno la scarsa giurisprudenza che si è occupata del tema ha avuto riguardo per lo più a fattispecie in cui si assumeva l’esistenza di discriminazioni indirette.
In particolare si è lamentato l’effetto pregiudizievole di previsioni (di bandi o selezioni per le progressioni di carriera o l’acquisizione comunque di benefici, quali il trasferimento a domanda) in cui il punteggio risultava legato alla durata della prestazione (così che ne erano penalizzati i part-timer, e di conseguenza le donne, maggiormente impiegate in contratti ad orario ridotto, cfr. Trib. Torino 11.6.2013, in www.osservatoriodiscriminazioni.org, già citata) o all’effettiva presenza in servizio (così nella controversia decisa da Trib. Siracusa 10.5.2017, sempre in www.osservatoriodiscriminazioni.org ).
Particolarmente interessanti sono le fattispecie in cui la progressione risulta collegata alla disponibilità dei lavoratori e delle lavoratrici a variazioni di tempi e luogo di lavoro.
La questione è stata affrontata dalla Corte di Giustizia già con la sentenza Danfoss (CGCE 17.10.1989, Danfoss, relativa a trattamenti retributivi differenziati).
In quella controversia il Giudice dell’Unione aveva affermato che il criterio della flessibilità “può anche operare a danno dei lavoratori di sesso femminile, i quali, a causa di impegni casalinghi e familiari di cui hanno sovente la responsabilità, possono meno facilmente dei lavoratori di sesso maschile organizzare il loro orario di lavoro in modo flessibile”, concludendo poi per la possibilità del datore di lavoro di “giustificare la remunerazione di una tale adattabilità dimostrando che quest’ultima riveste importanza per l’esecuzione di compiti specifici che sono affidati al lavoratore”.
Ne deriva che, secondo lo schema descritto dalla Corte (certamente utilizzabile anche quando la “remunerazione” della flessibilità consista nell’utilità rappresentata da una valutazione favorevole ai fini delle progressioni di carriera), data per acquisita la legittimità del fine perseguito dal datore di lavoro, a essere determinante sarà generalmente il giudizio di proporzionalità, quindi l’apprezzamento, necessariamente rimesso al giudice nazionale, dell’entità del vantaggio ottenuto (o perseguito) dal datore di lavoro con la misura determinante la differenziazione in relazione al fattore protetto, in rapporto allo svantaggio, per il gruppo portatore del fattore medesimo, determinato dalla misura.
Un giudizio nel quale dovrà farsi questione quindi della necessità della misura rispetto al vantaggio (o in contrario della sua fungibilità con strumenti idonei al soddisfacimento dello stesso interesse, ma non implicanti differenziazioni in dipendenza del fattore protetto), una valutazione peraltro che la norma nazionale, in quanto prevede come costitutivo della causa di giustificazione anche l’essenzialità del requisito connesso al trattamento differenziale, impone di operare con rigore, pretendendo una prova adeguata dell’importanza del requisito (della disponibilità alla flessibilità della prestazione lavorativa) rispetto alle mansioni specifiche proprie delle figure professionali alla cui copertura la selezione sia finalizzata.
3. Più uguali e più tutelate. O no?
Guardando indietro, alle trasformazioni che le forme di tutela dei diritti delle donne che lavorano hanno subito dal dopoguerra, e provando un qualche rudimentale bilancio, dovrebbe allora concludersi per la maggiore efficacia del modello emancipatorio rispetto a quello protettivo tradizionale, ispirato dall’art. 37 della Cost., quando si faccia questione della garanzia dei diritti delle donne, del loro diritto al lavoro e alla condizione di indipendenza economica che è presupposto della libertà di vita?
Le cose non sono probabilmente così semplici, perché, come già accennato, l’affermazione del modello emancipatorio ha in larga parte coinciso con una profonda trasformazione delle forme della produzione e di quelle dell’accumulazione del capitale, che si è tradotta in modificazioni profondissime del lavoro, il lavoro degli uomini e quello delle donne, il lavoro senza aggettivi.
E’ inutile dire, perché è troppo noto, che questa trasformazione è stata nel segno della precarizzazione del lavoro, non solo nel senso della progressiva sostituzione del lavoro a tempo indeterminato con forme contrattuali non stabili, ma anche della flessibilizzazione della prestazione lavorativa, cioè dell’estrema variabilità dei tempi di lavoro a fronte delle variabili richieste di un’organizzazione produttiva fondata sul sistema del just in time, nella quale il lavoro, fattore della produzione come gli altri, deve essere disponibile solo quando serve, non prima e non oltre.
E’ chiaro che la dipendenza del tempo della prestazione lavorativa da quello dell’organizzazione produttiva è un fatto non nuovo, in contrario appartiene alla natura del lavoro salariato, ma nell’organizzazione produttiva fordista la relazione tra tempo di lavoro e tempo della produzione era segnata dalla ripetitività, dalla routinarietà che costitutiva essa stessa uno dei fattori di alienazione del lavoro fordista.
In contrario alla trasformazione delle forme della produzione e dell’accumulazione nei nostri anni ha fatto seguito la dipendenza del lavoro da tempi estremamente variabili, così che esso diventa intermittente e deve essere insieme necessariamente disponibile nei tempi più diversi, finendo per invadere i tempi di vita.
Ma allo stesso tempo, il lavoro diviene inidoneo, insufficiente a consentire di progettarla la vita, perché la retribuzione non è più sufficiente, nella sua continuità, ma anche nella sua misura, per alcun progetto.
Questa trasformazione ha finito quindi per far assumere al lavoro di tutti e di tutte connotati che si era abituati a ritenere propri del lavoro delle donne: il suo carattere intermittente, l’inadeguatezza dell’impiego rispetto alla propria qualificazione professionale e soprattutto la sua comune insufficienza a consentire un qualche autonomo progetto di vita.
Allora in questa condizione di generalizzata sottoprotezione si rimprovera al modello emancipatorio (e quindi essenzialmente ai divieti di discriminazione) di avere lasciato più indifese le donne in quanto non più garantite (o non più garantite nella stessa misura) dalle norme protettive, sole di fronte alle esigenze del mercato che pretende anche il tempo della vita, della cura, delle relazioni familiari.
Così di recente si è scritto che proprio il diritto antidiscriminatorio sarebbe servito “alla Ue a smantellare le legislazioni protettive del lavoro, e a ridurre il campo delle ragioni che un lavoratore può opporre al datore”, che “una eguale irrilevanza delle condizioni di vita di chi lavora è l’ideale cui tende la tutela antidiscriminatoria” e che per contro la legislazione protettiva del lavoro delle donne sarebbe stata espressione di “un principio che non riguarda solo le donne: la vita umana, e la società, cioè le relazioni che ci tengono uniti gli uni agli altri e ci danno autonomia e libertà, hanno valore e per questo devono essere tutelate davanti alla logica del profitto che tende a espropriarle.
.. denunciando come discriminatorie le norme protettive per le donne, la Ue ha demolito la legittimazione di ogni tutela nel lavoro e ha costruito il suo modello ideale: la persona che vive per garantire il soddisfacimento delle esigenze del mercato”.
Sono osservazioni che meritano una riflessione perché muovono da alcuni dati reali: l’eliminazione del divieto di lavoro notturno ha effettivamente portato all’estensione alle donne di condizioni lavorative in sé disagevoli, la parità di trattamento nell’accesso a pensione delle lavoratrici pubbliche si è tradotta nell’innalzamento dell’età pensionabile anche per le donne.
Tuttavia le conclusioni che se ne fanno derivare non sono, ad avviso di chi scrive, condivisibili.
Il dispositivo antidiscriminatorio infatti di per sé non ha eliminato, né concorso ad eliminare alcuna tutela, piuttosto prescrive che sia assicurata parità di trattamento, senza individuare in concreto il trattamento applicabile. Le scelte che hanno determinato l’individuazione del trattamento comune a uomini e donne sono state quindi scelte politiche, riferibili alla discrezionalità (e quindi alla responsabilità) dei decisori dell’Unione e degli Stati membri (esemplare la vicenda delle pensioni delle lavoratrici pubbliche italiane, in cui la scelta dell’età pensionabile per tutti è stata del legislatore italiano, non certo della Corte di Giustizia).
Le tutele cioè sono diminuite in relazione a scelte di politica del diritto del tutto indipendenti dai divieti di discriminazione e legate a un preciso approccio alla risoluzione delle questioni poste dalle trasformazioni delle imprese e dell’organizzazione del lavoro (il noto, ma assai discutibile e oggi alla fine discusso, principio della relazione tra flessibilità del lavoro e crescita dell’occupazione e più profondamente e radicalmente la scelta culturale, prima che politica, di assumere il mercato e la concorrenza come unico sistema produttivo di valori, regolativo, non solo dei rapporti economici, ma anche di ambiti sociali che potevano essere loro preclusi e affidati a diversi sistemi regolativi).
Anzi rispetto alla “teologia del mercato”, i divieti di discriminazione hanno in effetti mostrato di operare (non sempre, ma comunque in misura significativa) come limite insuperabile, anche a dispetto della loro origine, come già scriveva l’Avvocato generale nelle sue conclusioni nel caso Feryn: “il mercato non cura le discriminazioni, per questo ci vuole la legge”.
Per questo pare a chi scrive che chi ha cuore le ragioni dei diritti debba continuare a riporre una qualche fiducia (ragionevole, cauta e magari disincantata fiducia) in questi strumenti. In caso diverso infatti non ci sarà nulla da guadagnare per i lavoratori e le lavoratrici, che saranno anche più soli di fronte alla logica acquisitiva del mercato.