Testo integrale con note e bibliografia

Il 20 maggio di cinquant’anni fa entrava in vigore, con la L. 300/1970, il suo art. 15 che nel testo originava prevedeva che: “E’ nullo qualsiasi patto o atto diretto a:
a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;
b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.
Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica o religiosa”.
L’area del divieto sarebbe stata successivamente ampliata, con la L. 9.12.1977 n. 903 “agli atti o patti diretti a fini di discriminazione razziale, di lingua o di sesso” e infine, ad opera del D.Lgs. 9.7.2003 n. 216, anche alla discriminazione fondata su ragioni “di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.
E’ sul testo originario tuttavia che queste brevi note intendono soffermarsi e sulla sua relazione con i divieti di discriminazione di fonte eurounitaria, una relazione che ha segnato la storia recente dell’applicazione giurisprudenziale della norma dello Statuto e attribuito alle libertà garantite da quel precetto il presidio di un apparato sanzionatorio di singolare efficacia.
Si tratta di vicende il cui interesse, almeno per chi scrive, è legato anche alle differenze non modeste, quanto ai rispettivi principi ispiratori e alle tecniche regolative, tra due sistemi normativi: quello dello Statuto, fondato sulla centralità della norma inderogabile e dei rimedi ripristinatori e il dispositivo di giustizia procedurale proprio del diritto antidiscriminatorio di fonte eurounitaria.
La norma dello Statuto si colloca infatti all’interno di un disegno complessivo diretto a regolamentare un rapporto negoziale (il contratto di lavoro) riconosciuto come relazione tra diseguali, nel quale la diversa forza effettiva dei contraenti, formalmente uguali secondo il diritto dei contratti, doveva essere riequilibrata, non solo con l’intervento eteronomo della legge sulle regole del rapporto, ma anche con la garanzia di libertà dell’azione collettiva dei lavoratori e con il riconoscimento del loro legittimo diritto al conflitto, protetto ex se dalla disposizione dell’art. 28.
La titolarità dei diritti di libertà presidiati dall’art. 15 dipendeva quindi solo dalla qualità di lavoratore e il conflitto collettivo era protetto come tale, purché i suoi attori dessero una minima garanzia di rappresentatività, espressa dal requisito della nazionalità.
Rispetto a questo schema la tutela della libertà di affiliazione sindacale nel diritto dell’Unione ha seguito un cammino diverso, determinato dalle caratteristiche stesse del diritto antidiscriminatorio.
E’ noto infatti come il diritto antidiscriminatorio di fonte eurounitaria si connoti, seppure in maniera sempre più sfumata e complessa, per una peculiare idea di uguaglianza articolata intorno ad alcune, specifiche differenze (in relazione alle quali, nell’esperienza storica degli stati membri, si sono dati fenomeni socialtipici di sottoprotezione o di stigmatizzazione, in ogni caso di speciale vulnerabilità), e per la sua struttura relazionale, in ultima analisi, per usare un’espressione di Marzia Barbera per il suo “carattere condizionato e relativo”, che vale ancora a qualificarlo profondamente rispetto al principio di uguaglianza. E anzi è verosimile ritenere che il crescente rilievo applicativo dei divieti di discriminazione sia legato anche alla crisi del principio di uguaglianza e al declino di sistemi di protezione dei diritti (quale era anche quello dello Statuto) che trovavano in quel principio il loro fondamento ideale.
E’ infatti pure noto come altra sia l’origine, nel diritto dell’Unione, dei divieti di discriminazione, che hanno il loro archetipo nel principio di parità retributiva affermato già nella versione originaria del Trattato istitutivo delle Comunità Europee, un principio dettato per una comunità di Stati all’epoca solo economica, e quindi per il mercato, per assicurarne il corretto funzionamento e la libera circolazione dei lavoratori ed evitare fenomeni di dumping sociale.
E’ certo tuttavia che il principio paritario nell’ordinamento dell’Unione abbia visto nel tempo ampliarsi l’area della sua applicazione (in ragione dell’individuazione di nuovi fattori di protezione oltre l’archetipo della differenza di genere), ma soprattutto il suo contenuto valoriale, che la Corte di Giustizia ha dichiaratamente ancorato ai diritti fondamentali della persona, così che esso si è rivelato capace di operare anche in maniera disfunzionale rispetto alle logiche del mercato per cui era nato .
D’altra parte il carattere obiettivo e funzionale dei divieti di discriminazione (che sanzionano, non un motivo illecito, ma un effetto pregiudizievole) , l’attribuzione della legittimazione attiva anche a soggetti collettivi e soprattutto il peculiare regime dell’onere della prova previsto dal diritto dell’Unione a garanzia dell’effettività di quei divieti assicurano al principio paritario una significativa efficacia protettiva.
E ad essa in effetti è legato il rinnovato interesse applicativo, nell’ordinamento interno, per il divieto portato nell’art. 15 dello Statuto, la sua “seconda vita” nelle nostre aule di giustizia.
Il percorso argomentativo che ha condotto all’applicazione dell’apparato protettivo del diritto dell’Unione al divieto portato nel testo originario dell’art. 15 ha preso le mosse dall’inclusione dell’affiliazione sindacale tra i fattori di protezione previsti dalle direttive antidiscriminatorie.
La direttiva 78/2000/CE vieta infatti la discriminazione basata sulla “religione o le convinzioni personali”, una nozione quest’ultima che, in mancanza di una definizione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, appare ragionevole ricostruire facendo riferimento alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui “considerato isolatamente e nel suo significato ordinario, il termine ‘convinzioni’ non è sinonimo dei termini ‘opinioni’ e ‘idee’, nel senso in cui sono adoperate nell’articolo 10 della Convenzione, che garantisce la libertà di espressione; è più vicino al termine ‘credo’ (in francese ‘convictions’)” e denota quindi idee che “raggiungono un certo livello di rigore, serietà, importanza” (così CEDU, 25.2.1982, Campbell e Cosans c. Regno Unito).
La direttiva tutela così la libertà di ciascuno di assumere un proprio sistema di valori (religioso o laico) e di non essere in conseguenza discriminato, mentre una tale tutela, da un lato non può estendersi a ogni e qualsiasi opinione nel senso di singolare valutazione di fatti e circostanze, dall’altro, per converso, non può assistere condotte che siano, non espressione di idealità, ma adempimento di obblighi giuridici.
E’ poi poco dubitabile che l’affiliazione sindacale sia espressione di un sistema di valori, costituendo “la professione pragmatica di un’ideologia di natura diversa da quella religiosa, connotata da specifici motivi di appartenenza a un organismo socialmente e politicamente qualificato a rappresentare opinioni, idee, credenze suscettibili di tutela in quanto oggetto di possibili atti discriminatori vietati” .
Ancora la giurisprudenza della Corte EDU, sotto altro profilo, conforta una simile conclusione, in quanto stabilisce una relazione di necessaria strumentalità tra divieti di discriminazione e libertà di associazione sindacale, tutelata dall’art. 11 della CEDU .
E’ quindi opinione largamente condivisa anche in giurisprudenza l’inclusione dell’affiliazione sindacale tra le convinzioni personali tutelate dalla Direttiva 78/2000.
Di qui l’applicazione, anche nelle controversie in cui si lamenti una discriminazione per ragioni sindacali, del peculiare regime dell’onere della prova previsto da quelle norme (l’art. 10 della direttiva quadro 2000/78 e nel diritto interno l’art. 28 comma 4 del D.Lgs. 150/2011).
Un’agevolazione probatoria che opera favorendo l’attore, che affermi di essere discriminato in relazione a uno dei fattori previsti dal diritto derivato dell’Unione, nella dimostrazione della relazione causale tra trattamento differenziale e fattore di discriminazione, una volta che egli abbia provato l’esistenza del trattamento deteriore rispetto a un soggetto terzo (anche solo ipotetico) non portatore del fattore.
Così che, dimostrata dall’attore, anche a mezzo del dato statistico, l’esistenza di un trattamento deteriore in suo confronto rispetto al termine di comparazione prescelto, sarà il datore di lavoro a dover dimostrare fatti, necessariamente specifici ed obiettivamente verificabili, idonei a far ritenere: nel caso di discriminazione diretta l’inesistenza della discriminazione (e quindi l’esistenza di una ragione non discriminatoria del trattamento differenziato, alternativa a quella normativamente presunta) o l’esistenza di una deroga, cioè l’esclusione della fattispecie dall’area del divieto; in caso di discriminazione indiretta l’inesistenza della discriminazione ovvero la riferibilità del criterio o prassi potenzialmente svantaggiosi ad una finalità legittima perseguita con mezzi appropriati e necessari, di modo che il difetto di prova dell’inesistenza della discriminazione o della sua giustificazione resta a danno del datore.
Un regime efficacemente riassunto dalla Corte d’Appello di Roma nella decisione 9.10.2012 relativa alla vicenda delle mancate assunzioni dei lavoratori iscritti a FIOM CIGL da parte di FIP (di cui infra), secondo cui “l’onere del ricorrente si esaurisce nell’elencazione di una serie di circostanze di fatto tali da dimostrare la sussistenza effettiva di una differenziazione di trattamento. I dati offerti da chi si ritiene discriminato provano tuttavia solo una situazione di potenziale discriminazione, alla quale può essere contrapposta la dimostrazione di controparte della liceità della disparità di trattamento, in quanto fondata su circostanze ed elementi diversi ed estranei da quelli per i quali la legge vieta le diverse ipotesi di discriminazione”.
E altrove, con pari efficacia, la giurisprudenza descrive così quella regola di giudizio: “gli elementi di fatto devono essere … precisi e concordanti e avere un significato intrinseco che autorizzi a ritenere plausibile la discriminazione. Non è invece necessario che questi fatti esauriscano ogni possibile significato e siano incompatibili con una diversa conclusione … il soggetto che chiede tutela ha l’onere di allegare, e se contestati di provare, fatti che possono costituire discriminazione illegittima, il soggetto che si afferma essere autore della discriminazione ha l’onere di dimostrare che ricorrono circostanze univocamente incompatibili con quel significato, onere tanto più difficile da superare quanto più gli elementi di fatto allegati dal primo si approssimano al massimo grado di automatismo valutativo” .
In fatto nella controversia decisa dalla Corte d’Appello di Roma con il provvedimento sopra richiamato, agita contro FIP s.p.a. da alcuni lavoratori iscritti a FIOM e già dipendenti FIAT non riassunti da FIP, e dal sindacato FIOM CIGL, che avevano chiesto l’accertamento della riferibilità alla convenuta di una politica di assunzioni discriminatoria in danno dei lavoratori iscritti a FIOM, il regime dell’onere probatorio previsto dalla direttiva e il carattere oggettivo dei divieti di discriminazione si sono rivelati decisivi per le ragioni degli attori.
Secondo i giudici di entrambi i gradi infatti la società aveva mancato di dimostrare, come scrive la Corte d’Appello, che “i lavoratori assunti da FIP possedevano, rispetto agli operai iscritti alla FIOM una professionalità tale da integrare i requisiti richiesti” per l’assunzione. Così che era rimasta insuperata la prova presuntiva della natura discriminatoria delle assunzioni, come fornita dagli attori, anche a mezzo di un accertamento statistico (consentito espressamente, si è detto, dalla direttiva e dalla disciplina interna di attuazione), secondo cui, data la consistenza numerica nel 2011 dell’organico della fabbrica di Pomigliano (dal quale FIP aveva attinto per le assunzioni da essa operate), il numero delle assunzioni effettuate dalla convenuta fino al giugno 2012 e il numero dei lavoratori dello stabilimento di Pomigliano iscritti a FIOM al gennaio 2011, le probabilità che, con una selezione causale, il numero degli assunti iscritti FIOM fosse pari a zero alla data di introduzione del giudizio (come in effetti accaduto) erano una su dieci milioni.
E il difetto di prova circa l’esistenza di una ragione lecita della scelta degli assunti, alternativa a quella discriminatoria presunta, è stata sufficiente all’affermazione della discriminazione in ragione dell’irrilevanza, nel dispositivo antidiscriminatorio, di una soggettiva volontà illecita degli agenti.
La vicenda dei lavoratori FIOM ben rappresenta inoltre un ulteriore aspetto della peculiare effettività del diritto antidiscriminatorio, già sopra accennato: quello della legittimazione ad agire riservata a soggetti collettivi e consentita anche quando i destinatari dei trattamenti differenziali pregiudizievoli non siano individuati. Una legittimazione certamente esclusa nella disciplina originaria dello Statuto, che all’art. 15 tutelava, con la nullità degli atti discriminatori, i diritti dei singoli lavoratori discriminati, mentre attribuiva al soggetto collettivo, il sindacato, un’azione autonoma (quella ex art. 28), diretta tuttavia alla tutela delle sue proprie prerogative, per quanto esse potessero in concreto essere lese anche dalla discriminazione in danno dei propri iscritti (che assumeva quindi una valenza plurioffensiva).
E anzi proprio l’azione collettiva di soggetti variamente rappresentativi degli interessi tutelati dai diversi divieti di discriminazione ha portato in giudizio alcune note controversie relative a politiche di assunzione, discriminatorie, quali, nell’ordinamento nazionale, il caso trattato prima da Tribunale di Bergamo, 6.8.2014 , quindi da Corte d’Appello di Brescia, 11.12.2014 , relativo a una discriminazione per orientamento sessuale.
Ancora non è dubitabile che l’applicabilità anche all’affiliazione sindacale della disciplina antidiscriminatoria di fonte eurounitaria consenta di sanzionare anche discriminazioni indirette, realizzate cioè a mezzo di regole, atti o comportamenti apparentemente neutri, ma in effetti idonei a comportare il rischio di un particolare svantaggio per i soggetti cui comunque il fattore di protezione sia riferibile, una forma di protezione irriducibile alle garanzie fornite dal sistema tradizionale dei diritti incentrato sulle norme inderogabili di cui era espressione il testo originario dell’art. 15.
Sembra quindi di poter concludere che, sotto diversi profili e in relazione alle caratteristiche proprie del dispositivo antidiscriminatorio, l’interazione tra il sistema normativo dello Statuto e le disposizioni superprimarie di diritto dell’Unione relative ai divieti di discriminazione abbia davvero assicurato ai lavoratori e alle lavoratrici tutele più incisive ed efficaci.
E ciò per quanto quell’interazione sposti obiettivamente l’oggetto della protezione giuridica: non più i lavoratori come tali e in quanto parti necessarie di un conflitto ritenuto fisiologico alle moderne società, che alla legge spetta di regolare, ma anche di consentire, bensì i lavoratori come persone, titolari in quanto tali del diritto a non subire trattamenti differenziali pregiudizievoli in conseguenza di loro scelte valoriali.
Come pure muta il fondamento dell’azione collettiva, che si legittima in funzione della tutela della pluralità dei singoli, anche innominati, portatori dei fattori di protezione.
Un mutamento questo significativo di cambiamenti più profondi, nell’ordinamento e nella società, di nuove articolazioni delle soggettività collettive che si costruiscono in relazione a condizioni di effettiva disparità e mirano alla rimozione degli “ostacoli di fatto” che precludono ai realmente diseguali una piena titolarità dei loro diritti.
E un cambiamento che si traduce nella rivendicazione di nuove e diverse istanze di giustizia nelle forme del processo, cui sempre più spesso è rimesso di segnare in maniera inedita i confini dei diritti e delle libertà, in assenza di altre forme di azione e di mobilitazione sociale e politica.
Si tratta tuttavia di un cammino complesso e accidentato, perché molte esperienze del passato insegnano che, per il raggiungimento dell’obiettivo dell’effettiva uguaglianza, le vittorie nei Tribunali possono avere effetti duraturi solo quando siano accompagnate e sostenute da “movimenti sociali che si prefiggano di combattere, non solo nelle corti, ma nel contesto sociale più ampio l’oppressione di gruppo” che produce le condizioni di debolezza sociale e politica che si intende contrastare.
E proprio le norme dello Statuto dei Lavoratori sono lì a ricordare l’importanza dei soggetti sociali e della loro azione nella produzione di un vero cambiamento.

 

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