testo integrale con note e bibliografia

Premessa. Referendum abrogativi in materia di lavoro: un’esperienza fallimentare.
In Italia i referendum abrogativi ex art. 75 Cost. in materia di lavoro si sono perlopiù rivelati storicamente infruttuosi. Talora, il popolo stesso ha respinto la proposta e il referendum si è ritorto in qualche modo contro i medesimi promotori ; altre volte, con l’accoglimento del quesito si è determinato un difetto di regolazione normativa, cui hanno dovuto supplire il legislatore o la giurisprudenza ; altre ancora, il successo si è rivelato meramente apparente, come le vicende successive hanno mostrato ; infine, la disaffezione popolare ha condotto, nelle più recenti occasioni, all’invalida consultazione per il mancato quorum . Senza dire dei quesiti non ammessi dalla Corte costituzionale, cosa di cui la stessa Cgil, promotrice dei referendum in commento, ha fatto esperienza pochi anni or sono e proprio su una delle materie oggi implicate .
Più di una sono le ragioni di tale insuccesso. Tra esse, va in particolare osservato che, probabilmente, l’elevato livello di tutele legislative nel rapporto di lavoro, raggiunto nel nostro ordinamento, ha reso controindicato uno strumento che permane puramente ablativo. Il referendum è stato così adoperato per sortire vantaggi di portata limitata, contribuendo a diffondere un senso di superfluità dell’istituto. O si è cercato di utilizzarlo impropriamente in chiave propositiva, con quesiti artatamente operanti un ritaglio del testo normativo, ma trovando pronta la Corte costituzionale, in tal caso, a fermare l’iniziativa.
Non paiono esenti da questi rischi i quesiti proposti nell’anno corrente dalla Cgil. Né inganni il numero, per sé importante, delle firme raccolte dichiarate (circa 4 milioni), perché oggi facilitate dalla digitalizzazione e perché, anche in caso di celebrazione della consultazione, non è affatto scontato che si raggiunga il quorum di partecipanti al voto.
Plurimi motivi, dunque, avrebbero dovuto indurre la principale confederazione sindacale dei lavoratori a prudenza .
Scopo delle seguenti righe, tuttavia, è valutare i singoli quesiti nella prospettiva della loro ammissibilità costituzionale, delle opzioni di politica del diritto sottese, dei potenziali effetti sul sistema.

1. L’abrogazione del contratto a tutele crescenti.
Il primo quesito ha ad oggetto l’abrogazione integrale del d.lgs. n. 23/2015, dunque della disciplina del c.d. contratto a tutele crescenti o, se si preferisce, dell’apparato sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi applicabile ai lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015 . L’esito sarebbe perciò l’applicazione dell’art. 18 St. lav. alla generalità dei lavoratori dipendenti da datori “sopra soglia”. Si tratta di quesito chiaro ed omogeneo, che non presenta profili di inammissibilità.
Non si può però non rimarcare come esso sia stato presentato in modo non veritiero . Il titolo suggerito dai promotori è infatti “Abrogazione delle norme che impediscono il reintegro al lavoro in caso di licenziamenti illegittimi”. In descrizione, si precisa poi che “il decreto legislativo n. 23 del 2015 ha sottratto la tutela della reintegra agli assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015 prevedendo, in caso di licenziamento
dichiarato illegittimo per assenza di giusta causa o di giustificato motivo, solo una monetizzazione”. Ma, come noto, ciò non corrisponde al vero (tanto più, con riguardo al motivo oggettivo, dopo Corte cost. n. 128/2024).
Giuridicamente, non è nemmeno corretto il rilievo per cui “si è così creata – con le «tutele crescenti» – una ingiustificata disparità di trattamento, peraltro anche in caso di licenziamenti collettivi, in ragione della data di assunzione”: qui pure la Consulta ha più volte validato, in quanto non irragionevole ex art. 3 Cost., la diversa disciplina in base al momento costitutivo del rapporto di lavoro .
Naturalmente, al di là del dato formale, si può discutere della condivisibilità o meno del contenuto del d.lgs. n. 23/2015 e della maggiore o minore appetibilità per i lavoratori dell’art. 18 St. lav., come modificato dalla l. n. 92/2012. A tal proposito, al netto delle questioni inerenti al nesso tra disciplina dei licenziamenti e precarietà dell’impiego , occorrono alcune sottolineature: i) la tutela reintegratoria del 2015 è piena quanto ai licenziamenti dettati dalla sopravvenuta inidoneità psico-fisica del prestatore, mentre è attenuata nella l. n. 92/2012; ii) è parificata rispetto al 2012 con riguardo ai licenziamenti discriminatori e comunque nulli ; iii) è parificata, dopo gli interventi del giudice delle leggi, con riguardo al licenziamento privo di motivo oggettivo; iv) è applicabile, a differenza di quella del 2012, anche “ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto” (art. 9, c. 2); v) l’indennità onnicomprensiva, dopo il c.d. Decreto dignità, ha un tetto massimo di 36 mensilità, a fronte delle 24 di cui all’art. 18 St. lav. ; vi) restano per contro spazi maggiori per la reintegrazione ex l. n. 92/2012 in caso di licenziamenti disciplinari ingiustificati e di violazione dei criteri di scelta nei licenziamenti collettivi.
E’ pertanto quantomeno discutibile l’affermazione dei proponenti per cui “nell’immediato il ritorno alla disciplina dell’articolo 18 rafforza la posizione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e determina un importante effetto dissuasivo”.

2. Regime di diritto comune per i licenziamenti irrogati da piccoli datori?
Più problematica è l’ammissibilità del secondo quesito, intitolato dalla Cgil “Abrogazione delle norme che facilitano i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese”: la “facilitazione” è ovviamente riferita alla modesta forbice ordinaria dell’indennizzo, ex art. 8, l. n. 604/1966, tra 2,5 e 6 mensilità della retribuzione, che Corte cost. n. 183/2022 – sebbene con riguardo alla (analoga) disciplina di cui al d.lgs. n. 23/2015 – ha già ritenuto non congrua e non dissuasiva.
Il quesito mira all’eliminazione di qualsivoglia tetto massimo all’indennizzo (mantenendo unicamente quello minimo), anche quello di 10 o 14 mensilità per anzianità aziendali superiori a 10 o 20 anni (per datori comunque occupanti oltre 15 dipendenti) .
Non si può escludere che la Corte ravvisi qui il carattere manipolativo del referendum, ottenuto mediante un ritaglio di parole che condurrebbe a un precetto del tutto nuovo, in alcun modo prefigurabile dal legislatore storico. In effetti, in caso di accoglimento, il regime sanzionatorio dei licenziamenti presso i piccoli datori verrebbe sostanzialmente ricondotto, in assenza di limiti posti al giudice, al diritto comune, con la possibilità di liquidare un ristoro integrale dei danni patrimoniali e non.
Secondo gli estensori del quesito, la quantificazione del risarcimento sarebbe in ogni caso vincolata ai parametri di cui alla disposizione, non toccati dal referendum (cioè “avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti”) .
In vero, tali criteri conservano un senso unicamente quando il giudice sia vincolato a limiti minimi e massimi, come nel sistema di cui al d.lgs. n. 23/2015, e debba dunque fissare il quantum in tale cornice. La norma di risulta del referendum, dunque, oltre che nuova, sarebbe in se stessa problematica.
Mantenendo poi l’applicazione (soltanto) dell’art. 18 St. lav. ai datori di maggiori dimensioni, si verificherebbe il paradosso di un regime indennitario di maggior favore per i dipendenti dei piccoli datori, in contrasto con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.
Va infine osservato che il referendum, intervenendo su un profilo che attiene al riequilibrio delle tutele in caso di licenziamenti, investe una questione per la quale Corte cost. n. 183/2022, in ragione della complessità della materia, ha richiesto l’intervento del legislatore (ordinario): “Il legislatore ben potrebbe tratteggiare criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano”.
Il legislatore referendario, per sua natura, non è in grado di effettuare simile ponderazione di interessi, non conseguibile in via demolitoria, come la Corte costituzionale ha ritenuto, riconoscendo di non poter intervenire essa stessa con una propria pronuncia .
Può darsi che, tra gli obiettivi dei promotori, vi sia anche la sollecitazione alla rivisitazione legislativa della materia, secondo il monito della Consulta. Ciò sarebbe per sé condivisibile, se non per il fatto che l’interventismo del giudice costituzionale degli ultimi anni ha prodotto, esso stesso, un effetto dissuasivo, perché mortificante per il legislatore ordinario.

3. La piena causalità del contratto di lavoro a tempo determinato.
Carattere propositivo e manipolativo assume pure il terzo quesito, con il quale il sindacato si prefigge di introdurre la causalità di ogni contratto di lavoro a tempo determinato, compreso il primo (ogni qual volta la durata sia superiore a 12 giorni ).
Per conseguire questo obiettivo si è reso necessario un artificioso ritaglio dell’art. 19, d.lgs. n. 81/2015, che prevede la causalità unicamente superati i 12 mesi di durata. Come è stato osservato, l’esito sarebbe del tutto innovativo, sortendo una disciplina ancor più vincolistica rispetto a quella della storica l. n. 230/1962 .
L’attuale normativa si basa però su un equilibrio frutto del concorso di molteplici previsioni, come quelle inerenti alla forma, ai divieti, alla durata massima, alle proroghe e ai rinnovi, agli intervalli, ai periodi di tolleranza, ecc. Le causali, oggi previste solo oltre i 12 mesi, si inseriscono per l’appunto in questo reticolo di garanzie finalizzato sia a soddisfare le esigenze di flessibilità delle imprese, sia a prevenire il ricorso abusivo a una serie di contratti, come prescritto dalla clausola 5 dell’accordo quadro europeo recepito nella direttiva CE n. 1999/70.
Va ricordato che l’unica causale direttamente posta dal legislatore è attualmente quella sostitutiva; per il resto, si rinvia ai contratti collettivi leader ex art. 51, d.lgs. n. 81/2015, in carenza dei quali si può ricorrere ai contratti collettivi comunque applicati in azienda o alla negoziazione individuale (ma solo sino al 31 dicembre 2024).
Con il referendum, la causale sostitutiva o quella individuata esclusivamente dai contratti collettivi ex art. 51 diverrebbe necessaria per ogni rapporto a tempo determinato, oltre che per proroghe e rinnovi. In mancanza, avverrebbe la trasformazione in contratto a tempo indeterminato sin dalla data della stipulazione .
I promotori giustificano l’iniziativa con la necessità di “di ridurre la diffusione di lavoro precario”. Non pare tuttavia che, al presente, il quantitativo di contratti a termine nel nostro ordinamento sia anomalo, né che le riforme degli ultimi anni abbiano favorito un simile scenario. Una recrudescenza dei limiti potrebbe anzi incidere negativamente sulle occasioni di lavoro e sulla domanda di occupazione genuinamente temporanea da parte delle imprese .

4. La piena responsabilità solidale per il danno differenziale nelle esternalizzazioni.
Il quarto quesito, inerente alla tutela del lavoro nelle esternalizzazioni, è il più interessante e delicato. Focalizza infatti l’attenzione su problemi di straordinaria urgenza, che richiederebbero però interventi (anche) legislativi complessi . Di recente , una modifica normativa all’art. 29, d.lgs. n. 276/2003, è stata introdotta in chiave antifraudolenta, con il c. 1-bis, per la garanzia di trattamenti economici e normativi non inferiori a quelli previsti dai contratti leader, nazionali e territoriali, “nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto”. Ma si tratta di un provvedimento insufficiente ad affrontare l’emergenza.
La scure referendaria, per sé già inadatta, si risolverebbe vieppiù in un rimedio peggiore del male, finendo per assumere un carattere punitivo, paradossalmente, per i committenti di appalti genuini. Intervenendo sul testo dell’art. 26, c. 4, d.lgs. n. 81/2008, vorrebbe estendere la responsabilità solidale del committente per il danno differenziale, dovuto all’infortunio occorso ai dipendenti delle imprese (sub)appaltatrici, anche “ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività” delle medesime. Su tale ultimo profilo, infatti, la solidarietà è oggi esclusa. Resterebbe ovviamente ferma la già prevista “responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi”.
Un intervento sulla materia richiederebbe, in realtà, di ripensare gli stessi requisiti di liceità delle esternalizzazioni, ridefinendo il confine con l’interposizione vietata, per scongiurare appalti e subappalti aventi a mero oggetto parti di attività ricomprese nell’oggetto sociale del committente, a soli fini di abbattimento del costo del lavoro. Ciò che l’attuale art. 29, c. 1, d.lgs. n. 276/2003, consente, quando ammette (sub)appaltatori senza disponibilità di mezzi o di mezzi propri. D’altro canto, le prerogative datoriali sulla propria manodopera sono spesso condizionate o compresse dai poteri incisivamente esercitati dal committente ai sensi degli artt. 1661 e 1662 c.c., o con il controllo sulle scelte del personale altrui a mezzo delle c.d. clausole di gradimento.
Il referendum finirebbe invece per investire ipotesi generalmente di appalto genuino, posto che l’attuale art. 26, c. 4, d.lgs. n. 81/2008, si riferisce all’attività e ai rischi propri dell’impresa affidataria dell’opera o del servizio, distinguendo dunque tra responsabilità solidale del committente dovuta all’interferenza e responsabilità esclusiva riconducibile al core dell’impresa controparte.
Estendere sul punto la responsabilità solidale significa supporre che il committente sia in grado di valutare capacità e organizzazione di mezzi di un’impresa afferente ad altro settore merceologico. Un onere irragionevolmente esigibile, nella generale assenza di un efficace sistema di qualificazione delle imprese .

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