Testo integrale con note e bibliografia

1. La definizione di lavoro autonomo ai fini dell’imposizione sul reddito, tra derivazione dalla disciplina civilistica e particolarismo tributario
Non si può dire che il reddito di lavoro autonomo, a distanza di trentacinque anni dall’emanazione del TUIR (d.p.r. n. 917/1986), non sia una fattispecie sufficientemente certa e definita, pur dopo ampie discussioni dottrinali e giurisprudenziali . Va comunque ricordato che il lavoro artistico e professionale occupa tuttora uno “spazio” individuato dalla legge tributaria in modo negativo e residuale: quello intercorrente tra il lavoro subordinato e l’attività d’impresa. Da una parte, il concetto di lavoro evoca l’esigenza di un’attività di natura strettamente personale, la cui autonomia altro non è che assenza di subordinazione. Dall’altra, per i soggetti passivi dell’IRPEF il lavoro artistico o professionale viene definito - in contrapposizione all’attività imprenditoriale - come esercizio abituale (non occasionale) di attività economiche diverse - appunto - da quelle d’impresa: in particolare deve trattarsi di attività prive dei requisiti della commercialità (ai sensi dell’art. 2195 c.c.) e poi dell’organizzazione in forma d’impresa. È soprattutto quest’ultimo il criterio distintivo principale: l’output del lavoratore autonomo è determinato in modo esclusivo o prevalente (sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo) dall’apporto personale con contestuale assunzione di rischio economico, non dall’organizzazione, seppure minimale, di capitale e lavoro altrui.
La delimitazione fiscale del lavoro autonomo dipende almeno, prima facie, dalle categorie civilistiche e lavoristiche. Anche se la normativa tributaria non richiama espressamente la fattispecie dell’art. 2222 c.c., in sostanza ne afferma tutti i requisiti distintivi. Ma, soprattutto, la delimitazione “per differenza” rispetto al lavoro subordinato e all’impresa presuppone il recepimento delle relative nozioni.
Semmai, il particolarismo tributario entra in gioco nell’ampliamento della sfera qualificatoria del lavoro dipendente e dell’attività d’impresa e nella corrispondente “erosione” di quella tipica del prestatore d’opera: se il lavoro è qualificabile come subordinato sul piano giuslavoristico, ciò si rifletterà sicuramente sul piano fiscale, non potendo la fattispecie tributaria essere ricondotta al lavoro autonomo; se il soggetto è “imprenditore commerciale” ai sensi del codice civile, lo sarà anche sul piano tributario; mentre può certamente verificarsi che i redditi che la persona fisica ritrae dallo svolgimento di un’attività quale prestatore d’opera materiale o intellettuale ai sensi degli artt. 2222 e 2230 c.c. siano assimilati, ai fini fiscali, a quelli di lavoro dipendente o siano qualificabili come d’impresa in senso proprio.

2. I plurimi “statuti fiscali” del reddito da lavori autonomi
Ciò che invece appare più incerto è lo “statuto fiscale” del reddito di lavoro autonomo. Il suo regime impositivo non si presenta infatti come organico e unitario, al punto che si può affermare che esistono più redditi da lavori autonomi. Va precisato, al riguardo, che ai fini della presente analisi si prenderà in considerazione soltanto il lavoro individuale, rinviando ad un successivo approfondimento gli aspetti fiscali dell’esercizio della professione in forma associata o mediante una società tra professionisti .
Alla fattispecie generale di cui all’art. 53 TUIR corrisponde certamente un “regime ordinario” di determinazione del reddito e dell’imposta, caratterizzato da alcuni tratti principali: 1) imputazione temporale al periodo d’imposta secondo il criterio di cassa; 2) determinazione dell’imponibile al netto delle spese di produzione inerenti; 3) rilevanza fiscale (seppure limitata) dell’eventuale perdita di esercizio (possibilità di compensazione orizzontale con eventuali altri redditi imponibili ai fini IRPEF); 4) concorso alla determinazione del reddito complessivo del soggetto, con applicazione dei vari istituti della personalità (deduzioni e detrazioni) e della progressività dell’imposizione reddituale delle persone fisiche; 5) assoggettamento ad obblighi contabili, formali e strumentali ex art. 19 d.p.r. n. 600/1973; 6) sottoposizione agli indici sintetici di affidabilità fiscale in sede di controllo, ex art. 9-bis d.l. n. 50/2017.
Va osservato che il regime di determinazione del reddito di lavoro autonomo e quello del piccolo imprenditore, ovvero la c.d. impresa minore in contabilità semplificata ex art. 66 TUIR, negli anni sono stati progressivamente ravvicinati tra loro. Ad esempio, dopo la mini-riforma operata con il d.l. n. 223/2006, nel reddito di lavoro autonomo trovano posto, come già in quello d’impresa, il realizzo delle componenti straordinarie (plusvalenze e minusvalenze patrimoniali) derivanti dall’uscita dei beni strumentali dall’attività professionale, o i corrispettivi della “cessione” di asset come il portafoglio clienti o di intangible come i segni distintivi. Dal 2017, invece, le imprese minori in contabilità semplificata determinano il proprio reddito non più secondo il principio di competenza economica ma, in via generale, secondo quello di cassa (seppure con alcuni contemperamenti), come da sempre fanno i lavoratori autonomi.
Il ravvicinamento tra lavoro autonomo e impresa appare poi massimo nel c.d. regime forfettario e di flat tax previsto dall’art. 1 l. n. 190/2014, co. 54-89 che prevede attualmente l’esclusione da IVA e l’applicazione di un’imposta sostitutiva di IRPEF, addizionali e IRAP pari al 15% e al 5% per i primi 5 anni delle nuove attività su un imponibile determinato applicando un coefficiente di redditività - variabile in base ai settori economici individuati secondo la classificazione ATECO - ai compensi effettivamente percepiti (e con esclusione di altre componenti reddituali, come le plusvalenze), a condizione che il livello di tali compensi professionali non superi complessivamente i 65.000 euro annui. Se la natura di questa imposizione sostitutiva appare ambigua, come si discuterà nel prosieguo, ciò nondimeno esso costituisce un regime “naturale” per i destinatari e si applica in modo pressoché identico, ai limiti dell’indistinzione, tanto ai lavoratori autonomi quanto alle imprese individuali.
Tale regime ha caratteristiche diametralmente opposte rispetto a quello ordinario di tassazione del lavoro autonomo: imposizione proporzionale (ancorché con aliquota inferiore alla più bassa aliquota IRPEF); determinazione forfettizzata e non analitica dell’imponibile; impossibilità di godere degli istituti di personalità della tassazione (detrazioni e deduzioni) in relazione al reddito professionale; forte semplificazione degli adempimenti contabili e formali; non applicabilità degli ISA.
L’automatismo e l’estensione della portata applicativa del regime forfetario hanno comunque polarizzato l’attenzione su di esso, elevandolo di fatto negli ultimi anni a regime “semi-generale” di tassazione delle “piccole” attività economiche individuali: i dati relativi alle dichiarazioni IRPEF relative al periodo d’imposta 2019 (quindi prima della crisi pandemica), pubblicati nel mese di luglio 2021, indicano infatti che su 3,7 milioni circa di contribuenti persone fisiche con partita IVA (professionisti e imprenditori individuali) 1,6 milioni erano in regime forfetario, approssimativamente il 45% del totale .
Se poi si analizzano i dati con particolare riferimento ai settori delle “Attività professionali, scientifiche e tecniche” e delle “Attività artistiche, sportive e di intrattenimento”, emerge che su un complesso di quasi 1 milione di persone fisiche (996.612), circa 1/3 è in regime ordinario (298.709 lavoratori autonomi e 29.769 imprese individuali), mentre circa 2/3 (668.134) è in regime speciale (regime forfetario più i pregressi e residuali regimi agevolati).
Per il lavoro autonomo, quindi, l’attuale modello di tassazione dei redditi è di fatto suddiviso in due comparti, con una forte prevalenza numerica del regime speciale rispetto a quello “ordinario”. Diverse sono state le sue versioni. L’attuale regime forfettario, in vigore dal 2015, è stato preceduto dal regime per le nuove attività produttive (l. n. 388/2000), dal regime dei c.d. “minimi” (l. n. 244/2007), dal regime c.d. “di vantaggio” per l’imprenditoria giovanile e i lavoratori in mobilità (d.l. n. 98/2011). Lo stesso regime forfettario, dalla sua entrata in vigore nel 2015 al 2020 ha subito almeno cinque interventi significativi di modifica , in relazione alla sua sfera di applicazione oggettiva e soggettiva e al regime formale degli obblighi e degli adempimenti fiscali.
A complicare ulteriormente il quadro rilevano, sul versante opposto, i regimi impositivi dei redditi derivanti da lavori svolti al confine tra autonomia e subordinazione, che si collocano cioè nella zona che un tempo era definita come para-subordinazione ed ora è frammentata (dopo le modifiche del 2017 e del 2019) tra le figure delle collaborazioni continuative etero-organizzate (ex art. 2 d.lgs. n. 81/2015 modificato dal d.l. n. 101/2019) e quelle coordinate ed “auto-organizzate” (ex art. 409 n. 3 c.p.c. dopo le modifiche della l. n. 81/2017).
Rinviando alla trattazione nel paragrafo successivo, si può anticipare che si assiste a un mancato adeguamento e coordinamento tra la disciplina lavoristica e quella fiscale delle collaborazioni. Quest’ultima, a far data dall’anno d’imposta 2001, aveva scelto di “spostare” fiscalmente il lavoro parasubordinato dalla sfera del lavoro autonomo a quella del lavoro dipendente, attraverso la tecnica dell’assimilazione: i redditi prodotti nell’ambito di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (avendo allora come unica figura di riferimento normativo quella richiamata dall’art. 409 c.p.c.) sono stati stabilmente ricompresi tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, al sussistere di determinate condizioni . Le collaborazioni devono essere svolte: 1) senza vincolo di subordinazione; 2) a favore di un determinato soggetto; 3) nel quadro di un rapporto unitario e continuativo; 4) senza impiego di mezzi organizzati e 5) con retribuzione periodica prestabilita.
Sono sempre considerati redditi assimilati quelli derivanti dalle co.co.co. c.d. tipiche: attività di amministratore, sindaco o revisore di società ed enti, collaborazioni editoriali, partecipazione a collegi e commissioni.
Sono, nondimeno, attratti al reddito di lavoro autonomo i proventi delle collaborazioni che rientrano nell’oggetto dell’arte o della professione già separatamente esercitate dal contribuente.
Gli effetti dell’assimilazione ex art. 50 TUIR sono essenzialmente l’applicabilità delle principali regole di determinazione dell’imponibile e dell’imposta previste per il reddito di lavoro dipendente, ad esempio l’impossibilità di dedurre analiticamente le spese di produzione (o, in alternativa, di accedere al regime forfettario); l’applicazione delle esclusioni e delle forfettizzazioni dell’imponibile ex art. 51 TUIR; la fruibilità della detrazione d’imposta ex art. 13 TUIR, rapportata al periodo di lavoro nell’anno, decrescente al crescere del reddito e volta ad attenuare la progressività dell’IRPEF; l’assoggettamento alle ritenute alla fonte “progressive” ex art. 23 co. 2 d.p.r. n. 600/1973.
In questo campo, a differenza di quanto avvenuto per il reddito di lavoro autonomo, richiama l’attenzione il sostanziale “immobilismo” della legislazione tributaria, a cui ha fatto riscontro invece la marcata evoluzione delle fattispecie lavoristiche attraverso le grandi riforme attuate in questi ultimi vent’anni: il passaggio dalle co.co.co ex art. 409 c.p.c. al lavoro a progetto con la riforma Biagi e poi con la riforma Fornero, fino alle figure della collaborazione, appunto, “etero-organizzata” e di quella, invece, “coordinata”, così come emergenti dalla riforma attuata con il Jobs Act del 2015 e le successive modifiche.
Il mismatching derivante dall’incontro tra, da una parte, fattispecie lavoristiche di para-subordinazione sempre più diversificate e, dall’altra, una disciplina tributaria delle co.co.co. “monolitica” e non aggiornata, può dar luogo a situazioni discordanti, in cui al trattamento civilistico non corrisponde in modo organico un trattamento fiscale simmetrico.

3. I confini applicativi del regime fiscale del reddito da collaborazioni continuative
Nel cercare di delineare i confini applicativi dei vari regimi impositivi del lavoro autonomo, occorre partire dal problema della qualificazione del reddito prodotto dal collaboratore che svolge in modo prevalentemente personale la propria prestazione secondo modalità esecutive etero-organizzate dal committente. Ad esso è ex lege applicabile la disciplina del lavoro subordinato, ma la funzione giuslavoristica della norma - cioè di estensione delle tutele in chiave anti-elusiva - pare irrilevante sul piano tributario . Pur nella varietà delle posizioni emerse nel dibattito dottrinale, sembra condivisibile l’idea che si tratti di una fattispecie qualificabile non come di lavoro subordinato in senso proprio, ma, semmai, di “autonomia debole” (piuttosto che di “subordinazione attenuata”). Pertanto è difficile ricondurla direttamente alla categoria tributaria del reddito di lavoro dipendente, che presuppone necessariamente la sussistenza della subordinazione, non (semplicemente) una situazione di “debolezza economica” meritevole dell’estensione legale delle tutele previste per il lavoratore subordinato . Non è impossibile, invece, ricondurla all’assimilazione prevista per i redditi dei co.co.co. ex art. 50 co. 1 lett. c-bis TUIR, se sussistono i requisiti della continuità sostanziale e della periodicità del pagamento dei compensi. La norma fiscale richiede poi che non vi sia impiego di “mezzi organizzati” del collaboratore. L’etero-organizzazione cui si riferisce l’art. 2 d.lgs. 81/2015 sembra riguardare non tanto il profilo della sussistenza e della titolarità di un apparato di mezzi strumentali impiegati per l’esecuzione della prestazione, quanto piuttosto il potere di decidere in via unilaterale come integrare funzionalmente il collaboratore nell’organizzazione del committente . In questo senso sembra imporsi l’interpretazione per cui l’etero-organizzazione non sarebbe “ontologicamente” diversa dal coordinamento, ma sarebbe una forma di coordinamento della prestazione lavorativa “imposto”, laddove quello dell’art. 409 n. 3 c.p.c. è invece consensuale e negoziale .
Il problema sorge, sul piano fiscale, a causa del venir meno (dal 2019) del requisito del carattere “esclusivamente personale” della prestazione. La prestazione etero-organizzata, ora “prevalentemente personale”, non esclude, secondo i casi, l’impiego da parte del collaboratore di un apparato di risorse materiali ma anche umane. Ciò, alla luce del dettato della norma tributaria, non consente parimenti di escludere a priori che il suo reddito possa essere qualificato come di lavoro autonomo , perché andrà assimilato a quello di lavoro dipendente solo nei casi in cui si possa evidenziare la sostanziale marginalità e insignificanza dell’organizzazione di mezzi del collaboratore (in base a una valutazione di fatto).
D’altronde anche il lavoratore autonomo, che svolga la propria attività coordinandola “di comune accordo” con il committente e “auto-organizzando” la propria “prestazione d’opera” in base al vigente art. 409 c.p.c., non produrrà sempre e necessariamente, ai fini fiscali, un reddito di collaborazione coordinata e continuativa ex art. 50 TUIR, perché i requisiti richiesti dalle norma tributaria sono distinti ed ulteriori. Quindi, secondo i casi, egli potrà collocarsi nella sfera fiscale del lavoro autonomo o del lavoro dipendente.
Anche i soggetti esclusi ex lege dalle iper-tutele giuslavoristiche delle collaborazioni etero-organizzate (amministratori e sindaci di società ed enti, professionisti iscritti ad albi, ecc.) appaiono in una posizione peculiare, giacché per essi - lavoratori autonomi sul piano giuslavoristico - il reddito sarà sempre assimilato a quello di lavoro dipendente, a meno che non svolgano parallelamente un’attività di lavoro autonomo con partita IVA, il cui reddito “attrae” e “assorbe” quello derivante dalla prestazione coordinata riconducibile all’oggetto tipizzante la professione.
Ne consegue quindi una certa distonica frammentazione dei regimi fiscali applicabili, dovuta all’attuale formulazione delle norme: se la categoria fiscale del lavoro para-subordinato sembra idonea, in taluni casi, ad abbracciare fattispecie lavoristiche tra loro differenziate ed anche lontane per caratteri sostanziali e per disciplina (collaborazioni etero-organizzate e auto-organizzate), può invece “lasciare fuori” fattispecie di lavoro autonomo “debole” caratterizzate comunque da un’indipendenza economica attenuata, come nel caso del professionista intellettuale mono-committente (salvi, naturalmente, gli effetti della riqualificazione del rapporto sul piano civilistico).
Sul piano tributario, il principale aspetto problematico che deve affrontare il “piccolo” lavoratore autonomo con organizzazione minimale, il quale però non ha i requisiti per essere qualificato co.co.co. ai fini fiscali, è l’assoggettamento ad IVA . Questo costituisce il vero spartiacque all’interno di quella zona “zona grigia” in cui si confondono la “autentica” autonomia e la para-subordinazione.
Il regime forfettario, in questo senso, ha il vantaggio di escludere quasi del tutto il lavoratore dall’ambito di applicazione dell’imposta (anche se non dall’obbligo di aprire la partita IVA) e quindi rende meno problematico l’eventuale passaggio di confine tra para-subordinazione e autonomia.
Non va tuttavia dimenticato che ciò comporta, per converso, l’indetraibilità dell’IVA sugli acquisti (e quindi l’equiparazione della posizione del professionista a quella del consumatore finale) e l’impossibilità di recuperare il costo dell’IVA indetraibile attraverso la deduzione dal reddito professionale, a causa del meccanismo di forfettizzazione dei costi.

4. I confini applicativi del regime sostitutivo e forfettario per i lavoratori autonomi
Come si è accennato, è stata soprattutto l’estensione del limite dei compensi annuali a 65.000 euro, a decorrere dal 2019 , che ha contribuito a diffondere in modo significativo l’applicazione del regime forfettario per le professioni. I dati statistici accentuano allora un problema che non è solo teorico, ovvero quale natura vada attribuita a tale regime di imposizione sostitutiva. Agevolazione in senso stretto (quindi regime speciale e derogatorio, da interpretarsi restrittivamente, e con un certo carattere di contingenza o temporaneità) ? Oppure regime di tassazione “strutturale”, che esprime cioè un criterio stabilmente alternativo di apprezzamento della capacità contributiva reddituale di alcune categorie di soggetti passivi, differenziando così il loro trattamento in modo giustificatamente permanente (sotto tutti i profili: determinazione dell’imponibile e dell’imposta, aliquota di prelievo, spettanza di benefici) ?
Nel caso di specie, in verità, la disciplina positiva contiene elementi contrastanti .
La l. 190/2014 non definisce mai espressamente il regime forfettario un “regime agevolato” come invece fa per quelli previgenti (co. 86-88: ma poi dispone la possibilità di transizione da questi ultimi al primo). Costituisce però indubbiamente un’agevolazione, “interna” allo stesso regime forfettario, il prelievo del 5% per le iniziative economiche assolutamente nuove, che dà continuità ad un’agevolazione (temporanea) che era già presente da tempo nel sistema (art. 13 l. n. 388/2000). Non è tuttavia a priori scontato che l’imposizione sostitutiva al 15% si riveli sempre più conveniente, in particolare proprio per i lavoratori autonomi.
Da un lato la misura della forfettizzazione legale dei costi sembra “penalizzare” questi ultimi rispetto alle attività economiche d’impresa: i coefficienti di redditività applicabili ai compensi delle attività professionali sono tra i più elevati nella classificazione ATECO (78%; per altre attività artistiche il coefficiente previsto è 67%). Dall’altro, però, l’aliquota di tassazione dell’imposta sostitutiva “principale”, ridotta di otto punti rispetto all’aliquota del primo scaglione IRPEF, può comunque rendere il regime favorevole, in particolare quando il contribuente possieda altri redditi oltre a quello professionale . Bisogna tuttavia tenere conto del principale effetto collaterale della “catastizzazione” del reddito: l’esistenza di un imponibile e di un debito d’imposta anche in presenza di un’eventuale perdita di esercizio, che diviene allora del tutto irrilevante ai fini fiscali (e non compensabile ex art. 8 TUIR con eventuali altri redditi soggetti ad IRPEF). Per il professionista monoreddito, poi, la convenienza del regime sostitutivo risulta in concreto assai variabile e dipende dalla sussistenza o meno di situazioni personali che darebbero diritto alla fruizione di deduzioni dall’imponibile e detrazioni d’imposta, applicabili unicamente nell’ambito della tassazione del reddito complessivo (con l’eccezione della deduzione dei contributi previdenziali).
Il regime, inoltre, ha un carattere automatico (è infatti previsto l’esercizio dell’opzione non per aderirvi ma per uscirne ed entrare, per almeno tre anni, nel regime ordinario) e continuato (non sono previste scadenze o limiti temporali di godimento, connessi ad esempio all’età anagrafica). Nel complesso il regime sembra avere una natura strutturale, complementare rispetto al regime ordinario, piuttosto che essere un’eccezione derogatoria, in chiave meramente agevolativa. Se è così, tuttavia - se cioè si tratta di un regime strutturale per alcune categorie di piccole attività economiche come quelle dei lavoratori autonomi che già sono, in quanto tali e per definizione, sprovvisti di organizzazioni complesse e autonomamente produttive di reddito - per rispettare l’art. 53 Cost. esso dovrebbe corrispondere a caratteri particolari di una specifica fattispecie di lavoro autonomo.
L’unificazione e l’ampliamento della soglia massima dei volume d’affari, a decorrere dal 2019, rischia allora di risultare contraddittoria e non pienamente giustificabile alla luce del principio di capacità contributiva, poiché sebbene abbia di fatto semi-generalizzato il regime dal punto di vista quantitativo, sotto l’aspetto qualitativo si pone in contrasto con l’esigenza di una specificità strutturale della fattispecie interessata (ma anche, in verità, con la potenziale funzione agevolativa della disciplina).
Divengono allora importanti gli ulteriori requisiti richiesti per la permanenza nel regime e le principali cause di esclusione, proprio perché in base ad essi è forse possibile delineare i contorni distintivi della peculiare figura di lavoratore autonomo che ne è interessato, e di provare a giustificarne il differente trattamento fiscale.
Si tratta in particolare di elementi di “perimetrazione” del regime che attengono essenzialmente a due aspetti: dimensione (valori) dell’apparato di mezzi e risorse umane impiegati e/o investiti dal professionista nell’attività; svolgimento concorrente di altre attività lavorative o produttive. Su questi punti si ha come l’impressione di un andamento altalenante della legge la quale, nel corso del tempo, ha di volta in volta aggiunto, abolito o modificato alcuni importanti elementi della fattispecie, seguendo una direzione di sviluppo tutt’altro che chiara e lineare.
I limiti dimensionali dell’organizzazione professionale che riguardano il costo complessivo lordo dei beni strumentali al termine dell’esercizio (immobili esclusi), fissati a 20.000 euro fino al 2018, sono poi stati totalmente abrogati a decorrere dal 2019. I limiti concernenti l’ammontare dei redditi pagati a lavoratori dipendenti e collaboratori assimilati e degli utili pagati agli associati in partecipazione, inizialmente previsti in un ammontare minimale (5.000 euro annui, collegato al lavoro occasionale accessorio) poi del tutto cancellati nel 2019, sono stati reintrodotti a decorrere dal 2020 ma innalzati a 20.000 euro complessivi.
Anche se non è più richiesto espressamente che il lavoro professionale sia prevalente rispetto ad altre concorrenti attività del contribuente, in merito sono state via via aggiunte alcune cause di esclusione dal regime. Il contribuente non deve aver posseduto, nell’anno precedente, redditi di lavoro dipendente (incluse le pensioni) e assimilati superiori a 30.000 euro (tranne che il rapporto di lavoro, in quell’anno, non sia anche cessato). A prescindere dall’ammontare del reddito, poi, non può accedere o permanere nel regime chi effettua prestazioni prevalentemente nei confronti di datori di lavoro con i quali sono in corso rapporti di lavoro o erano intercorsi nei due precedenti periodi d’imposta (eccettuati i tirocini obbligatori), oppure nei confronti di soggetti direttamente o indirettamente riconducibili a essi. Il regime è poi precluso a chi possiede partecipazioni in società personali o associazioni professionali o altre entità soggette al regime di imputazione dei redditi per trasparenza ex art. 5 TUIR, oppure ha il controllo di s.r.l., a condizione che tali enti esercitano attività economiche direttamente o indirettamente riconducibili a quelle svolte dai lavoratori autonomi.
La dottrina e la prassi amministrativa hanno individuato in queste norme di esclusione una funzione anti-abuso. La ratio delle ultime due elencate sembra, in effetti, antielusiva: evitare la “trasformazione” di redditi di lavoro dipendente in redditi di lavoro autonomo, nonché il frazionamento artificioso delle attività e dei compensi al solo scopo di fruire della tassazione ridotta (in particolare quando il professionista forfettario effettua servizi alla società di cui ha il controllo, la quale deduce i relativi costi ). Le preclusioni normative possono apparire, in verità, sproporzionate, perché ad esempio - nella fluidità che caratterizza i rapporti economici reali - il solo fatto che l’ex datore di lavoro sia anche il successivo committente di lavoro autonomo (magari avente ad oggetto prestazioni diverse da quelle che costituivano le mansioni del dipendente) non pare in sé sufficiente a far presumere una fattispecie elusiva. Più difficile, invece, individuare una finalità anti-abuso nella condizione relativa al massimale di reddito di lavoro dipendente compatibile con il regime forfettario, perché non pare rivolta a impedire “artifici” o manipolazioni e quindi risparmi d’imposta indebiti.
L’ascrivibilità di queste preclusioni alle norme anti-abuso potrebbe certamente, come da alcuni sostenuto , renderne possibile la disapplicazione su istanza del contribuente in sede di interpello ex art. 11 co. 2 L. n. 212/2000, dimostrando che nella fattispecie concreta non sussiste il rischio di un risparmio d’imposta elusivo.
A noi sembra tuttavia che tutte queste disposizioni - senza escludere una loro eventuale valenza anti-elusiva, in circostanze specifiche - abbiano soprattutto la primaria funzione di configurare l’identikit del lavoratore forfettario, quali norme di delimitazione del presupposto: il legislatore non vuole che chi già trae continuativamente un certo ammontare del proprio reddito complessivo dal lavoro subordinato o dalla pensione possa avere un “secondo lavoro” autonomo che goda altrettanto continuativamente del regime de quo ; l’attività di lavoro autonomo forfettaria deve essere tendenzialmente unitaria e individuale, prevalentemente anche se non esclusivamente personale, e non deve non intersecarsi né essere collegabile alla contemporanea presenza di altri rapporti lavorativi o alla partecipazione economica e gestionale in altre strutture operative “organizzate” che “insistano” nella medesima area di attività in cui agisce il contribuente individuale; e così via.
In questa chiave, appare più comprensibile e giustificabile (ancorché non esente da criticità) la scelta di “semplificazione” compiuta dalla legge, la quale prevede, in tutti i casi, che il venir meno di un requisito o il verificarsi di una condizione preclusiva rendono inapplicabile il regime forfettario sempre e soltanto a decorrere dal periodo d’imposta successivo, secondo un principio di “uscita” graduale. Ciò evita “conversioni” al regime impositivo “ordinario” in corso d’anno, che sarebbero oltremodo complesse se non impossibili in assenza della tenuta di scritture e registrazioni contabili; però fa salvi gli effetti della tassazione “speciale” sui redditi anche quando, in un certo periodo d’imposta, ne difettano assolutamente i presupposti legali, a cominciare dal caso in cui i compensi effettivi eccedano la soglia massima prevista .
Sul punto, tra l’altro, merita ricordare che la l. n. 145/2018 aveva introdotto un ulteriore regime sostitutivo, opzionale, con aliquota al 20% ma senza forfettizzazione dell’imponibile, per chi avesse compensi compresi tra 65.001 e 100.000 euro. Questo regime è stato abrogato l’anno successivo dalla Legge di bilancio per il 2020. Ma l’idea di evitare una transizione “netta” tra il regime forfettario/sostitutivo e l’applicazione ordinaria dell’IRPEF, preferendo un passaggio graduale che incentivi la crescita del volume d’affari, ritorna oggi di attualità nelle proposte avanzate dalle Commissioni finanze di Camera e Senato nell’ambito dell’indagine conoscitiva parlamentare sulla riforma dell’imposta sul reddito.
Il documento conclusivo auspica il mantenimento del regime forfettario fino a 65.000 euro di compensi e l’introduzione di un regime biennale opzionale di “prosecuzione” del regime forfettario, con aliquote incrementate a 10% e 20%, e con l’obbligo per il contribuente di dichiarare ogni anno un livello di compensi incrementato del 10% rispetto a quello dell’anno precedente, fino all’ingresso definitivo nel regime ordinario.
Da un lato questi aspetti, insieme ad altri , denotano che il regime in questione pone criticità e solleva importanti questioni di coordinamento entro il complessivo sistema dell’imposizione sui redditi, che ne evidenziano ulteriormente la portata di misura strutturale e non di semplice deroga agevolativa. E tuttavia, dall’altro, occorre riconoscere che, almeno per il lavoro autonomo, gli attuali confini applicativi del regime forfettario - frutto della combinazioni di modifiche successive, ora ampliative ora restrittive, senza una chiara direttrice di sistema - appaiono ancora non sufficientemente definiti e non consentono di mettere a fuoco una figura di lavoratore con requisiti così specifici da giustificare un trattamento così differenziato rispetto alla tassazione IRPEF. Essi appaiono pertanto non pienamente coerenti con quella che dovrebbe essere la ratio di un’imposizione sostitutiva che nei fatti aspira ad essere strutturale, ovvero garantire una alternativa modalità di concorso alle pubbliche spese più adeguata e meglio commisurata a una particolare realtà economica di riferimento.
Allo stato attuale, la proposta governativa di legge-delega per la riforma fiscale, approvata dal CdM il 5 ottobre 2021, non lascia per ora intravedere interventi specifici sul regime forfettario degli autonomi, ma sarebbe auspicabile che, con la revisione delle aliquote e della struttura dell’IRPEF, nonché come la (re)introduzione di un sistema di dual income tax, al regime de quo, conformemente alla sua “vocazione” strutturale, venisse data una collocazione più definita, organica e coerente, all’interno del macro-sistema della tassazione sul reddito delle persone fisiche .

 

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