TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. L’oggetto del mio intervento affronta la questione dei vizi formali e sostanziali dei licenziamenti collettivi nel dialogo tra la dottrina e la giurisprudenza per indicare la possibilità di ricorrere all’azione sindacale ex art. 28 St. Lav. non solo per la violazione delle “procedure”, ma pure per la violazione dei criteri di scelta; il che consentirebbe di ridurre la disomogeneità di trattamento che si può creare nell’ambito della stessa procedura di licenziamento collettivo tra lavoratori assunti nel regime “Fornero” e lavoratori assunti nel regime “Jobs Act”.
Affrontare tale questione nella prospettiva di “tecnica di tutela” significa, invero, misurarsi ancora una volta con il “nucleo essenziale” dell’impianto normativo dei licenziamenti collettivi che vede ancora – anche a seguito delle riforme del 2012 e del 2015 – nelle tutele procedurali il principale mezzo di garanzia dei lavoratori in quanto si consente ai sindacati di controbilanciare la scelta datoriale circa l’opportunità di ridurre il personale. Ciò sicuramente ha assunto una diversa “sfumatura” a seguito delle citate riforme, ma – in ragione della tuttora centralità della procedura di informazione e di consultazione e, quindi, della rilevanza del principio di trasparenza e correttezza a cui essa è soggetta – consente ancora al sindacato di effettuare il controllo sulla programmata riduzione del personale ed agire con propri strumenti di tutela in caso di violazione dei diritti di informazione e consultazione di cui essi sono titolari. Tale possibilità non è di poco conto e ritorna, oggi, di maggiore attenzione visto che l’attuale quadro normativo e sanzionatorio sui licenziamenti collettivi, profondamente modificato nel 2012 e nel 2015, è stato ritenuto – nonostante i rilievi critici della dottrina , in relazione pure alle prescrizioni europee – conforme ai principi costituzionali e sovranazionali dal Giudice delle Leggi con la sentenza n. 7 del 2024 e, quindi, legittimo anche nel suo doppio regime di tutele per i “vecchi” e “nuovi assunti” .

In tale contesto normativo e sanzionatorio, infatti, la posizione del singolo lavoratore è piuttosto definita e vincolata perché in caso di licenziamento illegittimo per vizi procedurali, ed anche per non corretta applicazione dei criteri di scelta nel regime Jobs Act, gli sarà riconosciuta la tutela meramente indennitaria. La situazione può, tuttavia, avere conseguenze diverse qualora si segua un orientamento della Suprema Corte che vede nella violazione dei criteri di scelta anche un vizio sostanziale della “comunicazione finale” della procedura di licenziamento collettivo .

2. In proposito, basti qui sottolineare che l’art. 5, comma 3, l. n. 223/1991 (come modificato dall’art. 1, comma 46, l. n. 92/2012) fa espresso riferimento alle “procedure” sindacali “richiamate all’art. 4, comma 12”, e quindi anche alla “comunicazione fi¬nale” ai sindacati ed agli uffici pubblici, da inviarsi «entro sette giorni dalla comunicazione dei reces¬si» (art. 4, comma 9, l. n. 223/91, come modificato dall’art. 1, comma 44, l. n. 92/2012) e non più “conte¬stualmente”. Sicché l’omissione, ovvero l’incompletezza od insufficienza di quest’ultima comunicazione – considerata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità come parte integrante della procedura – dovrebbe determinare l’illegittimità del recesso anche nel caso venga raggiun¬to l’accordo sanante della comunicazione iniziale .
L’importanza della “fase finale” della procedura di licenziamento collettivo è da sempre sottolineata in dottrina e giurisprudenza non solo perché si comunicano i recessi ai singoli lavoratori licenziati ed alle auto¬rità pubbliche, ma anche e soprattutto perché deve consentire al sindacato di conoscere «con puntuale indicazione, le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta» da parte del datore e quindi controllare la correttezza dell’operazione e selezione dei lavoratori e la rispondenza agli accordi raggiunti .
Si tratta, quindi, di una fase che rappre¬senta «una cerniera essenziale con il meccanismo sanzionatorio» e la cui rilevanza andrebbe rivalutata per il regime Jobs Act che ha modificato la sanzione per la violazione delle «procedure richiamate all’art. 4, comma 12» ed esteso la sanzione indennitaria anche per i casi di recessi illegittimi per non corretta applicazione dei criteri di scelta.
L’applicazione corretta dei criteri di scelta dei licenziandi è, infatti, sempre stata decisiva per la tutela dei lavoratori eccedentari .
L’obbligo di correttezza nell’applicazione dei cri¬teri di scelta, quale limite esterno alle prerogative datoriali , è stato indicato come mezzo di contemperamento degli opposti interessi. Ciò che veniva e viene tuttora preso in considerazione è la corrispondenza dei criteri con il contesto concreto ed attuale dell’azienda e quindi l’idoneità dei criteri individuati – conven¬zionali o legali – a risolvere il conflitto di interessi non solo tra datore di lavoro e lavoratori licenziabili, ma anche tra i lavo¬ratori coinvolti nell’esubero, indirizzando le ricadute della de¬cisione datoriale sui soggetti meno deboli.
Nella prassi, infatti, il criterio maggiormente utilizzato negli accordi è stato quello della pensiona-bilità, oppure della maggiore prossimità al pensiona¬mento, coniugato con il trattamento di mobilità c.d. lunga – e, nei settori esclusi dal campo di applicazione della CIG, con l’assegno straordinario –per consentire il passaggio diretto, certamente meno problematico, dal mercato del lavoro al sistema previdenziale. Gli stessi criteri legali di cui all’art. 5, comma 1, l. n. 223/1991, non sono mai stati considerati in base ad una valutazione “astratta” della situazione aziendale resa, per altro, ben nota dal datore nella comunicazione iniziale, bensì in modo da fornire un fondamento razionale e coerente alla scelta effettuata rispetto alle ragioni addotte e so¬prattutto rispetto alle esigenze aziendali del momen¬to.
Il datore di lavoro nell’esercizio del suo “vincolato” potere di recesso deve spiegare, nella moti-vazione dell’atto, le ragioni complessive del provvedi¬mento e, nella fase finale della procedura, dimostrare di aver agito con “ragionevolezza comparativa” .
In diverse occasioni, anche di recente , la Suprema Corte ha sottolineato che la “fase finale” ex comma 9 dell’art. 4 è finalizzata “non solo al controllo sulla effettività della scelta adottata, ma anche delle modalità di concreta applicazione dei criteri concordati».
In ciò gioca con importanza il doppio richiamo delle esigenze tec¬niche-produttive di cui all’art. 5, comma 1, l. n. 223/1991, su cui si è pacificamente ritenuto che il primo è un parametro generale funzionale alle finalità del licenziamento che contribuisce a delimitare l’am¬bito aziendale interessato dalla riduzione di organico che, come inizialmente individuato, non potrà essere variato durante l’intera procedura e costituisce così il nesso di causalità tra la motivazione addotta ed i singoli licenziamenti. Mentre il secondo rappresenta uno dei criteri di scelta di natura legale che, in via sus¬sidiaria rispetto a quelli convenzionali ed in concorso con gli altri due, verrà utilizzato per individuare i sin¬goli lavoratori da licenziare .
Il datore di lavoro «deve provvedere a specificare, nella comunicazione ex art. 4, comma 9, l. n. 223 del 1991, le modalità applicative dei criteri concordati con le OO.SS., in modo che essa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui – e non altri dipendenti – sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva».
In proposito, poi, si chiarisce la differenza tra vizio formale e sostanziale della procedura finale. E, così, «mentre la non corrispondenza della comunicazione al modello legale di cui alla l. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, costituisce “violazione delle procedure”, il diverso “caso di violazione dei criteri di scelta” si ha non nell’ipotesi di incompletezza formale della comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, bensì allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perché in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perché attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive» . Sulla base di tali considerazioni, la Suprema Corte ha enunciato più volte un altro principio, secondo cui «quando la comunicazione ex art. 4, comma 9, l. n. 223 del 1991 carente sotto il profilo formale delle indicazioni relative alle modalità di applicazione dei criteri di scelta si sia risolta nell’accertata illegittima applicazione di tali criteri di scelta vi è…annullamento del licenziamento con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (ex art. 18, comma 4, testo novellato)» .
Detto altrimenti, l’illegittima applicazione dei criteri di scelta si traduce sia in un vizio sostanziale della procedura finale che nella violazione dei criteri di scelta e ciò ha consentito ai Giudici di legittimità di garantire ai lavoratori del regime Fornero la tutela reintegratoria per la non corretta applicazione dei criteri di scelta piuttosto che la tutela indennitaria per vizio procedurale .
In tale prospettiva garantistica si erano poste pure le Sezioni Unite della S.C. secondo le quali l’inefficacia delle comunicazioni finali «(e del pari l’esistenza di vizi inerenti al contenuto di tale obbligo), investendo un elemento essenziale (non meramente formale o marginale) della complessa fattispecie, è causa diretta di illegittimità del provvedimento finale … perché preclude la verifica del corretto esercizio del potere del datore e impedisce il perseguimento dello scopo che la legge si prefigge. A tale vizio procedurale può essere dato rimedio mediante il compimento dell’atto mancante o mediante la rinnovazione dell’atto viziato» .
All’epoca tale orientamento non ha trovato l’avallo di parte della dottrina che ritenendola un’operazione eccessiva rispetto alle finalità della procedura, e talvolta anche di «ingegneria giuridica» , rinviava al meccanismo ripristinatorio di cui all’art. 17, l. n. 223/1991, che garantiva appunto (e garantisce ancora per i lavoratori rientranti del regime Fornero) – senza dover esperire una nuova procedura e dandone previa comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali – la reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati con un numero di lavoratori che per corretta applicazione del/dei criterio/i di scelta avrebbero dovuto essere licenziati.
Alla luce, tuttavia, dell’ulteriore modifica del regime sanzionatorio effettuata nel 2015, tale ultima norma dovrebbe essere quantomeno riveduta – o comunque non applicata – per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 il che potrebbe riportare a nuova attenzione quest’ultimo orientamento giurisprudenziale che vedeva nella “violazione dei criteri di scelta” un vizio anche della comunicazione finale e, quindi, un vizio pure procedurale. Orientamento questo seguito anche da successiva giurisprudenza che ha riconosciuto in questi casi ai singoli lavoratori licenziati la facoltà di far valere in giudizio sia la violazione dei criteri di scelta, che i vizi della procedura .
In tale prospettiva, rilevanti conseguenze non ci sarebbero sul piano individuale in quanto in caso di illegittimità del recesso per violazione della procedura di licenziamento collettivo – e, per i soli c.d. nuovi assunti, anche di “non corretta applicazione dei criteri di scelta” – al lavoratore spetterà la semplice tutela economica. Mentre sul piano collettivo resta comunque la possibilità per il sindacato dell’azione ex art. 28 St. Lav. per violazione di procedura – compresa quindi la fase finale di cui al comma 9 – che integra, secondo una posizione pacifica in dottrina, gli estremi della condotta antisindacale; sicché l’ordine giudiziale di rimozione degli effetti della condotta illegittima potrebbe anche invalidare l’intera procedura – o richiedere, come visto, la ripetizione della comunicazione finale – e determinare, quindi, la reintegrazione dei lavoratori erroneamente licenziati per non corretta applicazione dei criteri di scelta .

3. L’azione sindacale di cui all’art. 28 St. Lav. per la violazione delle tutele procedurali del licenziamento collettivo è stata di recente oggetto di diverse vicende giudiziarie a partire dal caso GKN del 2021 fino al caso Quattro F del 2023 riguardanti il settore metalmeccanico. Non è questa la sede per entrare nel merito di tali complesse controversie che, in tre di esse, hanno visto anche la partecipazione della società capogruppo; talvolta situata in ambito transnazionale, come nel caso GKN, sollecitando, quindi, l’interprete a valutare la fattispecie secondo il rapporto tra procedure transnazionali e nazionali di informazione e consultazione sindacale .
La questione principale di tutti questi casi ha riguardato l’interpretazione da conferire alle norme di cui agli artt. 9 e 10 CCNL metalmeccanico 2016-2019 (divenuto quest’ultimo art. 11 nel CCNL del 2021-2024) circa il rapporto tra procedure negoziali ivi previste e quelle legali di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, nonché – per campo di applicazione – in due di questi, anche di cui alla L. 30 dicembre 2021, n. 234, e viene affrontata nella prospettiva della responsabilità del datore di lavoro per il corretto espletamento di tali procedure di informazione e consultazione sindacale. Si tratta di una materia complessa in quanto tali diverse procedure (negoziali e legali) si dispongono secondo un meccanismo di articolazione tra loro impostato su due distinte “fasi” che variano in base al “momento” temporale e funzionale, ovvero alla “tematica da trattare”, vale a dire al “contenuto del diritto di informazione” di cui è titolare il sindacato: una, inerente alle “previsioni” e, quindi, alla “formazione della decisione”; ed un’altra, riguardante, invece, le “decisioni” adottate dal datore di lavoro. Procedure queste che, tra l’altro, come osservato in altra sede , non sono complementari tra loro e fanno salve le procedure legali di informazione e consultazione prevedendo espressamente che «Le Parti si danno atto che le procedure previste dalla Legge 23 luglio 1991, n. 223, dalla Legge 29 dicembre 1990, n. 428 nonché dal D.P.R. n. 218 del 2000, “assorbono e sostituiscono” le procedure di informazione e consultazione in materia».
E, così, trovandosi il datore di lavoro nella fase della “decisione” del licenziamento collettivo, talvolta presa dalla società Capogruppo, dovrebbe risultare ridondante per egli ritornare nella fase preventiva delle “previsioni” che, seppure sia preordinata, tra le altre cose, anche «ad evitare o attenuarne le conseguenze di previsioni di rischio sull’occupazione», e, quindi, a scongiurare eventualmente la “fase” sulle “decisioni”, non è necessariamente propedeutica a quest’ultima, la quale – a sua volta – in base a quest’ultima disposizione del CCNL metalmeccanici potrebbe essere espletata sia secondo le disposizioni negoziali e legali in materia, sia direttamente secondo le sole norme legali.
A tale conclusione sembra giungere il Tribunale di Firenze nel caso QuattroF (sia nella fase sommaria, che di primo grado ) laddove – sebbene concluda ugualmente rilevando la condotta antisindacale per violazione anche di “tutti” gli impegni assunti in via negoziale – ritiene che «L’ordine giudiziale di porre in essere la comunicazione di cui alla L. n. 234/2021 appare sufficiente ad elidere gli effetti delle condotte accertate, compresa l’omessa informazione» di natura negoziale annuale e quella mensile di cui all’accordo del 19 gennaio 2022, avallando con ciò che le “procedure negoziali preventive” siano appunto sostituibili con quelle “legali” . Nell’affermare tale portata della “procedura legale” avrebbe dovuto, tuttavia, ritenere antisindacale il comportamento datoriale per la violazione di tale procedura legale, in quanto obbligatoria e propedeutica rispetto a quella di cui alla L. n. 223/1991, e non anche per le violazione di “tutte” le procedure preventive di natura negoziale. Donde la contraddizione del giudizio finale che trova l’attacco proprio nel aver detto che la comunicazione legale “elide” gli effetti delle “violazioni accertate” perché consente «al sindacato di interloquire, esprimendo il suo parere non vincolante, anche in relazione alla concreta possibilità per il datore di lavoro di elaborare il piano per limitare le ricadute occupazionali previsto dal comma 228 dell’art 1, l. 234/2001» (p. 12, decreto) e, quindi, di agire anche qui per ridurre od evitare le ricadute occupazionali.
Riproponendo tale affermazione secondo una diversa prospettiva, sembra possibile sostenere che se il datore di lavoro avesse correttamente avviato la procedura di cui alla L. n. 234 del 2021, il suo comportamento sarebbe stato da ritenersi legittimo in quanto rispettoso delle prerogative sindacali di “evitare o limitare ricadute occupazionali” in base all’impianto normativo definito dalle fonti contrattuali .
In conclusione, la possibilità per il sindacato dell’azione ex art. 28 St. Lav. assume una diversa connotazione nella disciplina del licenziamento collettivo “modificata” dalle ultime riforme e, consentendo la repressione di eventuali comportamenti datoriali che contrastino con la massima trasparenza richiesta dalla legge per il corretto e leale espletamento della procedura di licenziamento collettivo in ogni sua fase, ricolloca al centro della fattispecie i diritti di informazione e consultazione sindacale e la possibilità di invalidare la procedura legale per vizi formali e sostanziali.

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