TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Valori e metodo giuridico.
Pietro Ichino, come suo solito, ha animato un vivace dibattito redigendo per LDE nella forma della lettera aperta - proprio a questo scopo - una recensione della recente ed interessante monografia di Stefano Giubboni in merito alle modifiche apportate alla tutela avverso il licenziamento ingiustificato dapprima dalla Legge Fornero e poi dal Jobs Act (Anni difficili. I licenziamenti in Italia in tempi di crisi, Giappichelli, 2020). Mi ha colpito che S.G. nella sua replica abbia ritenuto preliminarmente di dichiarare, ed anzi di rivendicare, di aver voluto scrivere un “libro orientato”; ciò mi ha indotto ad intervenire in questo dibattito.
Bisogna ben intendersi al riguardo. Se l’orientamento dichiarato da S.G. è di natura squisitamente “politica”, volto cioè a denunciare, sul piano della politica del diritto de jure condendo, la contrarietà delle riforme alla propria gerarchia valoriale, può esser onestamente utilizzato qualsiasi argomento per supportarlo, anche quello (seppur di scarsa efficacia nel convincere chi muove da convinzioni diverse) della presunzione della “naturale” superiorità dei valori in cui si crede. Ed in effetti S.G. è già sceso in questo campo di confronto pubblicando, poco prima della monografia, una “agenda progressista” volta apertamente a questo intendimento “politico” .
Se invece l’analisi “orientata” intende collocarsi sul piano “giuridico”, eleggendo a campo di disamina lo jus conditum, allora tale participio - orientata - non può che essere accoppiato all’avverbio costituzionalmente. E quest’ultimo appare essere il piano su cui S.G. con la sua monografia, a differenza dell’”agenda”, si propone di agire (o meglio reagire), giacché il filo rosso che si dipana in tutti gli scritti raccolti nell’opera è una valutazione di sostanziale inconciliabilità di entrambe le riforme con le previsioni della Costituzione, doverosamente letta - ai sensi del novellato art. 117 Cost. - alla luce del diritto europeo.
Nel discorso giuridico, però, la gerarchia valoriale, rispetto alla quale deve esser effettuata la prova di tenuta della legge ordinaria, non può più essere quella personale, ma quella che è dato rinvenire nella Carta costituzionale e nella lettura che ne ha dato la consolidata giurisprudenza dei Giudici della Consulta. Non sono così ingenuo o poco avveduto da non riconoscere che ogni interprete, nel ricostruire il sistema ordinamentale, effettua un’operazione lato sensu “politica”, poiché tende naturalmente a conformarlo al proprio patrimonio assiologico; tuttavia tale operazione - per esser altrettanto valida e spendibile sul piano “giuridico” - deve esser effettuata con rigore epistemologico.
S.G. richiama, a sostegno della correttezza della sua valutazione, la recente giurisprudenza della Corte costituzionale che ha per più aspetti “picconato” entrambe queste riforme. A ben vedere questi fendenti non hanno scalfito la scelta di fondo che le accomuna e che, invece, appare a S.G. la più criticabile e - per quanto qui rileva - la più inconciliabile con il dettato costituzionale: l’aver, in numerose ipotesi di illegittimità del licenziamento, affiancato all’unica tutela ripristinatoria del rapporto in origine prevista dall’art. 18 della legge n. 300/70, una gradazione di misure risarcitorie-indennitarie. Convengo con S.G. che entrambe le riforme non brillino certo per l’intellegibilità di alcune categorie concettuali utilizzate: ad es. la “manifesta insussistenza” per il licenziamento per g.m.o., la prima, o il “fatto materiale” per il licenziamento per g.m.s., la seconda. E per questi profili possano persino giungere ad esser tacciate di incostituzionalità o, quantomeno, richiedere un urgente intervento razionalizzatore. Ma con riguardo alla scelta di fondo che le anima, S.G. non può che convenire con P.I. che la Corte costituzionale non abbia mai affermato – neppure in questa recente giurisprudenza - che quella reintegratoria/ripristinatoria avverso il licenziamento ingiustificato sia la sola compatibile con il dettato costituzionale e che, al contrario, la Corte si sia in più occasioni espressa per l’ammissibilità di una tutela meramente risarcitoria .
2. La problematicità del sindacato di “adeguatezza” della tutela avverso il licenziamento ingiustificato.
La critica che S.G. muove alle riforme del 2012 e 2015 si fa allora più sofisticata: queste non sarebbero inconciliabili con il disposto costituzionale per aver introdotto per molte ipotesi di ingiustificatezza del licenziamento la tutela indennitaria/risarcitoria, ma perché affette, più specificatamente, dall’inadeguatezza dei criteri e dei tetti di quantificazione di questa tutela, tale da non esser in grado di esercitare una sufficiente capacità dissuasiva nei confronti del datore di lavoro.
Si entra così in un campo minato dal quale la Corte costituzionale, e tantopiù la Corte di giustizia si sono sempre attentamente tenute alla larga. Ci si avventura pericolosamente, infatti, all’interno degli ambiti propri della discrezionalità del legislatore ordinario.
E’ vero che la discrezionalità del legislatore non sia affatto assoluta né insindacabile, ma debba esser esercitata nel rispetto dei canoni costituzionali, primo fra tutti quello della ragionevolezza e coerenza sistematica di cui all’art. 3 Cost. In particolare proprio sotto questo profilo la Consulta, con la sent. n. 194/2018, ha ritenuto di poter censurare il Jobs Act, non già per il quantum in sé, bensì per aver ancorato la quantificazione dell’indennità risarcitoria esclusivamente al parametro dell’anzianità di servizio, quando nel nostro ordinamento sono già presenti altre previsioni di quantificazione del danno da ingiustificato licenziamento che prendono in considerazione uno spettro ben più ampio e articolato di fattori e con le quali la riforma deve necessariamente rapportarsi in termini di coerenza. Così come da ultimo la sentenza n. 59/2021 ha censurato la previsione dell’art. 18 comma IV, come novellato dalla Riforma Fornero, laddove ha lasciato al Giudice l’opzione tra disporre la reintegrazione e il risarcimento del danno a fronte dell’infondatezza del g.m.o., senza dettare alcun criterio che governi la sua decisione al riguardo.
Tuttavia a me sembra che il ragionare di S.G. finisca per avvilupparsi intorno al nodo cruciale del sindacato di ragionevolezza/adeguatezza della tutela sino ad andare in cortocircuito, tornando sostanzialmente al punto di partenza. A suo avviso, infatti, la tutela risarcitoria, per essere effettivamente tale, deve garantire la restitutio in integrum o, in alternativa, un’indennità economica “ragionevole”. Sebbene S.G. non sia mai esplicito sul punto sino ad indicare dei parametri di quantificazione di tale ragionevolezza, tuttavia per coerenza logica con l’ordine delle sue argomentazioni sembrerebbe che questa non possa che esser determinata in misura, se non necessariamente coincidente, quantomeno assai prossima alle retribuzioni che il lavoratore sarebbe destinato a guadagnare se quel rapporto contrattuale permanesse sino al suo pensionamento. D’altronde a supporto delle sue conclusioni S.G. richiama l’orientamento espresso dal Comitato europeo per i diritti sociali secondo cui sarebbe incompatibile con l’art. 24 della Carta sociale l’apposizione di qualsivoglia tetto massimo al risarcimento del concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un valido motivo . Va detto, tuttavia, che la rilevanza delle decisioni del Comitato deve essere “relativizzata”, tenendo in debita considerazione che le stesse hanno natura meramente “dichiarativa” e non già vincolante, come ha rilevato la stessa Corte cost. nella sentenza n. 194. Al contrario i Giudici costituzionali hanno puntualmente rilevato in questa sentenza come sia rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario la competenza di dettare dei tetti al risarcimento del danno o dei criteri di quantificazione “standardizzata” di questo, laddove ciò sia giustificato dalla necessità di contemperare la tutela del singolo con quella di altri soggetti o della collettività .
3. L’apporto del Law and Economics all’indagine in merito alla “adeguatezza” della tutela.
Si registra una netta contrapposizione tra S.G. e P.I. in merito all’appropriatezza metodologica del ricorso alle categorie utilizzate dal Law and Economics, in particolare quelle elaborate da Guido Calabresi e dalla Scuola di Yale, che P.I. ha applicato più volte nella sua analisi della disciplina del licenziamento.
P.I. rinviene nell’opzione regolativa di fondo delle due riforme l’abbandono delle property rules (si badi non dei property rights, che sono altra cosa) per adottare le liability rules quale strumento di tutela avverso il licenziamento ingiustificato. Secondo l’insegnamento del Law and Economics, il legislatore ricorre alle prime quando ritiene che il diritto da tutelare abbia un valore assoluto e non possa conoscere nessuna forma di compressione o, più semplicemente, non vi siano altri diritti di eguale rango meritevoli di essere tutelati attraverso la parziale compressione della tutela offerta al primo. In tal caso la tutela principe è quella ripristinatoria ed è rimesso alla libera valutazione del titolare del diritto decidere a quale prezzo sia disponibile a dismetterlo. Le liability rules, invece, vengono utilizzate quando si ritiene che la protezione di quel diritto debba esser contemperata con la tutela di diritti di terzi o della collettività, che verrebbero danneggiati dall’”assolutezza” della protezione garantita al primo. Pertanto, può esser opportuno dettare un tetto di indennizzo o criteri forfettari per la quantificazione del risarcimento dovuto per la violazione di quel diritto e, implicitamente, anche per la determinazione – secondo il ragionare rude, ma inequivoco e scevro da moralismi dell’approccio di Law and Economics – del prezzo di disposizione di quel diritto. Nessuno, infatti, sarebbe disponibile ad offrire un prezzo superiore all’indennizzo previsto dalla legge, sapendo che violando quel diritto non sarebbe chiamato a risponderne sul piano della responsabilità contrattuale od extracontrattuale in misura economicamente più impegnativa, il c.d. efficient breach.
Adottando un’assiologia socratica non si può che inorridire dinanzi a un simile approccio: se l’ordinamento ritiene illegittima una condotta, deve fare il possibile per evitare che venga adottata, prima di tutto prevedere delle pene esemplari! Scendendo dall’Iperuranio a terra o più propriamente, come dice S.G., “in contest”, l’approccio di Law and Economics ci aiuta a comprendere come, al contrario, in alcuni casi possa esser più efficiente per il bene collettivo accettare la possibilità di un tale inadempimento limitandone la sanzione applicabile. Diversamente gli attori coinvolti potrebbero esser indotti ad evitare di adottare delle condotte, anche ove legittime ed utili per la collettività, proprio per non esporsi al rischio di una sanzione insostenibile.
Ci sono anche nell’ordinamento italiano, anche giuslavoritico, tante norme che rispondono a tale ratio: a) prime fra tutte le discipline differenziate della tutela avverso il licenziamento per i lavoratori alle dipendenze delle imprese con meno di 15 dipendenti, per i lavoratori a domicilio, per i soci delle cooperative lavoro, per i dirigenti; b) l’indennizzo di cui all'art. 32 co. 5, 6 e 7 legge n. 183/2010 in caso di contratti a termine illegittimi ; c) i criteri di indennizzo del lavoratore da parte dell’INAIL in caso di responsabilità civile del datore per infortuni sul lavoro; d) i parametri di indennizzo assicurativo del danno biologico conseguente a sinistro stradale; e) la predeterminazione dell’indennizzo del conduttore laddove il locatore non adibisca l’immobile abitativo alla destinazione che ha addotto quale giustificazione del mancato rinnovo del contratto alla prima scadenza; f) da ultimo l’esonero della responsabilità civile del datore di lavoro per le infezioni da Covid dei lavoratori e della responsabilità penale dei medici per la somministrazione del vaccino; e molti altri esempi potrebbero esser fatti.
L’approccio di Law and Economics ci costringe a discernere in queste ipotesi quali siano i plurimi interessi effettivamente in gioco, quali le interrelazioni e in che modo possano essere contemperati in concreto. Non impone affatto, a differenza della Economic Analysis of Law della Scuola di Chicago, come rileva lo stesso S.G., una soluzione pre-confezionata secondo i criteri dell’utilitarismo economico alla Bentham, convenendo che anche soluzioni economicamente inefficienti possano ben essere socialmente desiderabili e preferibili .
Emerge, analizzando attraverso le lenti del Law and Economics le fattispecie che ho sopra indicato in via esemplificativa, che il legislatore si avvale delle liability rules, quali meccanismi di tutela/sanzione, quando l’esercizio di un diritto o di un potere è soggetto a condizioni legittimanti che hanno ampi margini di opinabilità o che risultino di difficile sindacabilità in concreto. Al contempo, però, il mancato esercizio di quel diritto o potere da parte del titolare, indotto dal timore di incappare in una sanzione insostenibile o assai pesante, può cagionare dei danni a soggetti terzi rispetto al rapporto contrattuale o alla stessa collettività. E’ questa esattamente la situazione in cui ci troviamo al cospetto della fattispecie del licenziamento. A fronte del diritto del lavoratore alla continuità del proprio rapporto di lavoro qualora non ricorra un giustificato motivo di licenziamento ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/66, l’ordinamento riconosce anche il diritto di pari rango del datore di lavoro di recedere unilateralmente da tale rapporto laddove il lavoratore compia un grave inadempimento, il g.m.s., o il datore opti per una soluzione organizzativa che comporti la soppressione della “posizione” ricoperta da quel lavoratore, il g.m.o..
Chiunque abbia la sventura di frequentare con una certa assiduità le aule dei Tribunali del lavoro, su uno dei due lati dello scranno, sa bene quanto siano inaffidabili nell’applicazione pratica queste categorie concettuali, tanto da prestarsi a valutazioni fortemente condizionate dalla soggettività del Giudice. Si pensi, sul fronte del g.m.s., al sindacato di proporzionalità di condotte non specificamente tipizzate dal codice disciplinare o alla saga giurisprudenziale del furto dei beni aziendali di modico valore, oppure, sul fronte del g.m.o., all’onere di repechage o agli innumerevoli abusi di disegni organizzativi ad personam. Su quest’ultimo fronte la situazione non è affatto migliorata dopo il nuovo corso inaugurato dalla sentenza n. 25201/2016 della Cassazione: sebbene questa sia giunta, a mio avviso, ad una sistemazione concettuale corretta , ha poi affidato al gracile sindacato di “non pretestuosità” della soluzione organizzativa il gravoso compito di evitare che quest’ultima sia soltanto strumentale all’espulsione di quello “specifico” lavoratore. Questo sindacato si è rivelato totalmente inefficace: i giudici di merito lo enunciano per mero ossequio alla Corte di legittimità, ma o non lo applicano o, di fatto, lo assimilano impropriamente al sindacato di non ritorsività o non discriminatorietà, anche sul piano della ripartizione degli oneri probatori.
In questo scenario giurisprudenziale la scelta che hanno pragmaticamente fatto sia il Governo Monti sia il Governo Renzi è stata quella di non intervenire sulle nozioni di giustificato motivo per ridurre il tasso di aleatorietà del sindacato giudiziale (che in una qualche misura è ineliminabile e presente in tutti gli ordinamenti), ma quantificare entro una forbice data, il primo, o secondo criteri precisamente determinati, il secondo, il rischio cui il datore di lavoro è esposto adottando la scelta di licenziare un lavoratore in tali condizione di incertezza.
Mi pare possano esservi pochi dubbi tra gli operatori del diritto che nella disciplina del licenziamento ricorra il primo requisito che, secondo la teoria di Law and Economics, giustifica il ricorso alle liability rules: l’incertezza delle condizioni di legittimazione del potere di recesso datoriale. Parimenti evidente è che ricorra anche il secondo requisito: la compresenza di interessi di terzi o collettivi potenzialmente lesi qualora il datore di lavoro fosse indotto a non esercitare questo potere, pur ricorrendone le condizioni legittimanti, per timore di incorrere in una sanzione assai pesante. L’ordinamento costituzionale riconosce, infatti, la libertà organizzativa dell’impresa a norma dell’art. 41 Cost. non già solamente come modalità di esercizio e di fruizione della proprietà privata, ma anche - e soprattutto - per la sua strumentalità “sociale” alla creazione di posti di lavoro e di ricchezza individuale e collettiva in un sistema capitalistico fondato sull’economia di mercato. Gli interessi terzi rispetto alle parti del rapporto contrattuale che sono cointeressati alla disciplina del licenziamento sono diversi: quelli degli outsiders, a che la loro aspirazione a reperire un’occupazione continuativa non sia frustrata dalla scarsa propensione dei datori di lavoro all’instaurazione di rapporti a tempo indeterminato per timore dell’eccessività del costo di interruzione; ma anche quelli degli insiders, che confidano che l’impresa da cui dipendono rimanga nel territorio in cui risiedono e produca utili sufficienti per garantire loro adeguati trattamenti salariali e continuità di reddito; quelli dei consumatori a godere dei beni e/o servizi prodotti dall’impresa con la più elevata qualità al minor prezzo; ed infine, quelli della collettività nel suo insieme a che si crei, mantenga e spenda ricchezza nel territorio di stabilimento dell’impresa.
Tale strumentalità a questi interessi “terzi”, unitamente a quello egoistico di profitto dell’imprenditore, può esser soddisfatta soltanto da un’impresa privata che sia efficiente e competitiva sul mercato nazionale ed internazionale anche per la capacità di dimensionare ottimamente la sua forza lavoro, nonché di selezionare e avvalersi di dipendenti di adeguate competenze professionali ed affidabili sul piano della correttezza contrattuale. Lo Stato è chiamato a garantire, attraverso le sue scelte ordinamentali, tali condizioni di agibilità dell’impresa onde evitare che le imprese nazionali delocalizzino in altri Paesi dell’UE o extraeuropei ed, al contempo, attrarre nuovi investitori ed imprenditori che finanzino, creino e facciano impresa nel territorio nazionale. Queste considerazioni non sono semplicemente di razionalità economica, ma anche di coerenza con il sistema valoriale che abbiamo inteso accettare aderendo all’UE ed importando il suo ordinamento nel nostro sistema costituzionale attraverso l’art. 117 Cost. , come modificato dalla legge costituzionale n. 3/2001. Non possiamo dimenticare che in tal modo abbiamo indubitabilmente elevato al rango costituzionale, ovemai già non lo fossero a norma degli artt. 11 e 41 Cost. , i principi dell’economia competitiva di mercato, di libera concorrenza tra imprese, di libertà di stabilimento e di circolazione in seno al mercato unico.
4. La tutela prevista dagli ordinamenti degli altri Paesi UE quale rilevante tertium comparationis nel sindacato di “adeguatezza”.
In questo contesto rilevare che, come osserva P.I. a S.G., con tutti i limiti imputabili alle riforme del 2012 e del 2015, l’indennità risarcitoria quantificata secondo i criteri da queste disciplinati, anche prescindendo dai successivi interventi correttivi del Decreto dignità e della Corte costituzionale, risulti essere tra le più generose in seno all’UE è un rilevante, seppur di per sé non dirimente, criterio per valutarne l’“adeguatezza” sul piano costituzionale. L’entità di tale indennità deve necessariamente coniugare l’obiettivo di dissuadere il datore di lavoro dall’adottare licenziamenti non supportati da un giustificato motivo con quello di preservare la capacità dell’ordinamento, per mezzo dell’impresa, di soddisfare quegli interessi esterni al rapporto contrattuale che ho sopra ricordato.
Se negli ordinamenti giuridici degli Stati Membri dell’UE che sono al contempo i nostri partners e competitors della porta accanto, che le imprese nazionali possono varcare senza alcuna restrizione, la sanzione in caso di licenziamento ingiustificato è quantificata in misura meno elevata della nostra disciplina nazionale, come quest’ultima può essere giudicata insufficiente sul piano costituzionale?
E’ vero che gli stessi obiettivi di efficienza e competitività del sistema di produzione possano, e anzi debbano, essere coltivati anche per altre vie: garantendo servizi ammnistrativi supportivi ed efficienti, infrastrutture di qualità, garanzia di legalità del sistema, tempestività della tutela giudiziaria, un equo sistema fiscale, formazione continua della forza lavoro, servizi di orientamento e di collocamento, ecc. ecc. Ma se i Paesi UE che siamo soliti eleggere a benchmark per realizzare questi obiettivi, adottano al contempo discipline di tutela avverso il licenziamento ingiustificato ispirate alle liability rules e di entità economica più ridotta della nostra, questo non ci può non indurre a delle riflessioni circa la capacità del nostro sistema di esser competitivo nelle condizioni attualmente date. La disciplina degli altri Paesi UE mi sembra essere un tertium comparationis più affidabile e soprattutto più appropriato anche sul piano della ragionevolezza costituzionale rispetto al mero raffronto tra il dopo e il prima, che è invece centrale nelle argomentazioni di S.G., e cioè tra la disciplina attuale ed una scritta, per quanto pregevolmente, nel 1970, in un contesto del tutto diverso, in un’economia ancora sostanzialmente chiusa nel territorio nazionale, in cui l’integrazione dei mercati in seno all’UE e su scala mondiale non era certo giunta al punto in cui ci troviamo ora.
Né mi pare che la valutazione di inadeguatezza della disciplina italiana espressa da S.G. trovi decisivo conforto nelle fonti europee. S.G. afferma che questa non sarebbe rispettosa dagli “standard fissati dall’art. 24 della Carta sociale europea (rivista)”, ma sebbene il Comitato europeo dei diritti sociali ne abbia dato la lettura sopra ricordata, il disposto di questa norma si limita a riconoscere “il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”, senza nulla specificare circa i parametri in relazione ai quali soppesare tale congruità. L’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea enuncia anch’esso il principio dell’obbligatorietà della giustificazione del licenziamento, ma non si esprime né circa il tipo di requisito causale che deve sostenerla, né circa il tipo e l’entità della sanzione da applicarsi ove questo requisito non ricorra.
Come detto, ciò non significa che non si possa ed anzi si debba intervenire nuovamente sulla disciplina del licenziamento per ottimizzarla. Ad esempio, non mi convince la tesi di P.I. secondo cui le novelle avrebbero sostanzialmente fatto propria la nozione di g.m.o. in termini di “perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto oltre una determinata soglia ritenuta ragionevole”, da lui propugnata da molto tempo . Questa prospettazione del g.m.o. non ha sinora trovato accoglimento nel nostro ordinamento che continua a individuare il g.m.o. nel “fatto”, oggettivo e del tutto neutrale rispetto ai fini dell’impresa, della soppressione della posizione assegnata ad un lavoratore nell’organizzazione dell’impresa. A mio avviso, un g.m.o. che risponda al carattere della “perdita attesa” si può realizzare, invece, soltanto prevedendo un firing cost, un costo di separazione che deve esser necessariamente certo, che l’impresa, cioè, sia obbligata in ogni caso a corrispondere al lavoratore in caso di licenziamento per motivi non disciplinari, come d’altronde suggeriva lo stesso P.I. nella proposta originariamente elaborata insieme a Franco Debenedetti e poi ripresa da diverse proposte di contratto unico a tutele crescenti , in termini analoghi alla riforma Hartz nell’ordinamento tedesco .
Ancor oggi credo nella bontà di quell’idea secondo cui il g.m.o. possa sostanzialmente qualificarsi “in negativo”, ossia in ogni valutazione dell’impresa che non sia ritorsiva o discriminatoria, né disciplinarmente connotata, che la spinga a sostenere il prezzo della separazione previsto dall’ordinamento. Quest’onere, ribadisco, deve però essere certo: l’azienda che decide di licenziare un lavoratore per g.m.o. dovrebbe contestualmente ed automaticamente assumere anche l’obbligazione di corrispondere tale prezzo, e non già di riservarsi discrezionalmente di proporlo o meno, come previsto, invece, sia nella riforma Fornero sia nel Jobs Act. Ora l’impresa è, invece, indotta a un moral hazard: adottare il licenziamento accettando di correre il rischio di esser chiamata a pagare il prezzo di separazione, evenienza che non è affatto certa, ma può verificarsi solo in caso di condanna giudiziale.
Auspico, invece, un’evoluzione della disciplina nel senso di un licenziamento per g.m.o. condizionato al previo pagamento di una indennità pre-determinata dal legislatore. Non intravedo nessun ostacolo a una tale innovazione nell’obbligo di motivazione del licenziamento dettato dall’art. 30 Carta dei diritti fondamentali, come invece è stato eccepito. L’impresa può ben esser chiamata a rispettare l’onere di motivazione del licenziamento anche in un sistema che identifichi il g.m.o. nella stessa disponibilità dell’impresa a corrispondere al lavoratore un prezzo di separazione; sarebbe non solo possibile e doveroso, ma quantomai opportuno mantenere anche in un tale sistema l’onere datoriale di motivazione ed anzi valorizzarlo, elevando la mancata prova da parte dell’impresa della veridicità del motivo addotto ad indice presuntivo juris tantum, della sussistenza di inconfessabili motivi reconditi di natura ritorsiva o discriminatoria.
Quale dovrebbe essere l’entità di questo prezzo di separazione non è facile a dirsi, ma in ogni caso anche questa discussione dovrebbe avere quale terreno di confronto quello della politica del diritto e non già quello del sindacato di costituzionalità.

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