testo integrale con note e bibliografia

Propongo di seguito qualche breve considerazione sulla direttiva europea in tema di salari adeguati, per verificare in che termini una sua eventuale attuazione giochi un ruolo nella questione salariale in Italia.
Nel 2022 l’Unione Europea come attore istituzionale è diventata direttamente protagonista del dibattito sui livelli retributivi e la povertà salariale. Nei ventisette Stati Membri lo scenario è molto diversificato in tema di standard salariali. Ci sono regole diverse ed economie diverse. La disomogeneità è sia nominale, sia reale, cioè riferibile al potere d’acquisto effettivo. Questo costituisce anche una leva di concorrenza nella logica del mercato unico. Il principio di libera concorrenza (art. 3, par. 3 del TUE e artt. 101 ss. del TFUE), piaccia o non piaccia, ha sempre implicato la possibilità di una concorrenza, anche salariale, fra imprese e, di fatto, fra economie.
Pertanto, non essendo modificabile questo dato essenziale dell’architettura europea, si deve ragionevolmente escludere la possibilità di fissare un valore base nominale, unico ed eguale per tutti i paesi, ma occorre individuare alcune leve, agganciate anche ad altri principi fondamentali dell’Unione, che possano mitigare le conseguenze socialmente deteriori che la concorrenza salariale può determinare.
Per queste (ed altre) ragioni, la Direttiva di ottobre 2022 è figlia di precisi compromessi politici che hanno portato a una molteplicità di scenari e di percorsi prefigurati al suo interno, i quali recano con sé una varietà di possibili soluzioni di recepimento, a seconda del quadro nazionale di riferimento.
Malgrado alcune criticità molto recenti (connesse alle crisi e transizioni energetico-ambientali, nonché a certe preoccupanti circostanze geopolitiche), da ormai quasi un decennio ha preso corpo nella politica europea una più aggiornata consapevolezza sull’opportunità di invertire la rotta rispetto al precedente quindicennio di stampo squisitamente neoliberista, segnato da austerity e severità nelle politiche di bilancio.
Il Pilastro Europeo dei Diritti sociali del novembre 2017 ne è stata una prima conferma . Il punto 6, lett. a) del Pilastro prefigura la necessità di una retribuzione che consenta un tenore di vita dignitoso, mentre la lett. b) impegna all’implementazione di retribuzioni minime adeguate per i bisogni del lavoratore e della famiglia. Anche se si tratta di strumenti di soft law, è quindi avvertita l’urgenza della tematica salariale già in quel momento.
Del resto, oltre a varie direttive genericamente dedicate a tematiche sociali e lavoristiche, la materia retributiva è stata oggetto di specifica attenzione già con la Direttiva 957/2018 che rivede la disciplina del distacco sostituendo il riferimento alle «tariffe minime salariali» con quello alla «retribuzione, comprese le tariffe maggiorate per il lavoro straordinario».
Dopo il Pilastro, dal 2019 il modello della c.d. internal devaluation e gli obiettivi economico-politici legati a quel tipo di governance economica , tipici degli anni precedenti, si fanno più sbiaditi ed emergono logiche diverse, con l’intendimento di «cambiare il passo dell’Unione europea» espresso dall’allora Presidente della Commissione Europea Von der Layen (peraltro riconfermata nel 2024).
Nel 2020 arriva l’iniziativa per la direttiva in materia di adeguatezza dei salari. Gli obiettivi dell’intervento sono molteplici e si colgono nell’Impact Assesment Document e nei numerosi “considerando”: oltre a dignità del lavoro, inclusione sociale e contrasto alla povertà, figura il concetto per cui la salvaguardia e l’adeguamento dei salari minimi «contribuiscono a sostenere la domanda interna». Sono tipici obiettivi del modello c.d. di economia sociale di mercato, su cui è stata edificata l’UE dopo Maastricht. Non è una economia che mette al centro l’impegno “sociale”, ma è direzionata a consentire a tutti i soggetti di poter accedere al mercato unico, dando ad esso impulso e incrementando gli scambi. Se tutti i soggetti sociali sono coinvolti nel libero mercato e aumenta il volume degli scambi, l’economia sarà più florida.
Fra gli obiettivi dichiarati dell’iniziativa in materia salariale c’è ovviamente la riduzione delle disuguaglianze e del dumping salariale, che è un antico problema dell’Europa allargata. Si arriva alla direttiva perché ai sensi dell’art. 154 TFUE, la Commissione avvia nel gennaio 2020 la consultazione delle parti sociali sulla base di un documento intitolato Salari minimi adeguati. La risposta iniziale è stata di generalizzato dissenso, ma si è andati avanti.
Il socialista lussemburghese Nicolas Schmit, all’epoca Commissario ai diritti sociali, ha spinto particolarmente in questa direzione, anche perché la Relazione di accompagnamento alla prima proposta mostrava in modo chiaro che non c’era lo scopo di cancellare il ruolo primario della contrattazione collettiva nella fissazione della soglia di adeguatezza. Vi si leggeva che «la contrattazione collettiva svolge un ruolo fondamentale nella garanzia di un salario minimo adeguato. I paesi caratterizzati da un’elevata copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere, rispetto agli altri paesi, una percentuale inferiore di lavoratori a basso salario, salari minimi più elevati rispetto al salario mediano, minori disuguaglianze salariali e salari più elevati. Influenzando l’evoluzione generale dei salari, la contrattazione collettiva garantisce salari superiori al livello minimo stabilito per legge».
Nella prima proposta, inoltre, mancava un parametro quantitativo puntuale (determinato o determinabile) che si potesse usare come riferimento per le singole casistiche nazionali. Nel testo definitivo questo aspetto sarà parzialmente corretto: nel binario regolativo dedicato gli Stati che hanno un salario legale, l’art. 5.4 della Direttiva offre alcuni indicatori, mentre nulla si dice sul quantum per i paesi in cui rimane la contrattazione l’attore protagonista.
La seconda versione della proposta ha raccolto maggiori consensi (i sindacati hanno avuto rassicurazioni sull’assenza di una deminutio del proprio ruolo) anche per la cresciuta consapevolezza sul fenomeno della povertà nonostante il lavoro, in ragione del drammatico lascito della pandemia, nel frattempo intervenuta (la guerra ucraina e l’immediata fiammata inflazionistica avrebbero fatto il resto).
Il percorso regolativo si è dunque avviato per realizzare una Direttiva, e non una mera Raccomandazione (anche se qualche autorevole osservatore, ad esempio il Prof. Treu, sostengono che per il tipo di contenuto essa appaia come una Raccomandazione), e per rispettare il principio di attribuzione si è dovuto risolvere il problema della base giuridica.
L’art. 153 TFUE al par. 5 esclude la materia della retribuzione, con la clausola di riserva a favore degli Stati membri. Ci sono state però molte eccezioni, anche in passato, nei casi in cui, specie tramite la non discriminazione, l’UE è intervenuta anche in materia salariale: per inverare il divieto di discriminazione fra diverse categorie di lavoratori è spesso indispensabile garantire una parità di condizioni che coinvolga anche il trattamento economico.
La Corte di giustizia ha avallato questo meccanismo (la sentenza Del Cerro Alonso è l’esempio più lampante, ma anche il caso Impact), esplicitando che l’esclusione di competenza va intesa in senso restrittivo, poiché altrimenti sparirebbe il margine di azione del legislatore europeo nelle aree dei primi quattro paragrafi dell’art. 153, in cui l’UE ha competenza e in cui, indirettamente, è spesso coinvolta la materia salariale.
Del resto, anche il generale ambito dell’art. 153, par. 1 lett. B sulle “condizioni di lavoro” può coinvolgere l’adeguatezza salariale perché la retribuzione concorre a determinare le condizioni di impiego e facilita l’applicazione di vari principi dell’UE.
Inoltre, la determinazione dei salari coinvolge l’autonomia collettiva delle parti sociali a livello nazionale e la proposta di direttiva era concepita e formulata come rispettosa dell’autonomia dei corpi intermedi, prevedendosi la primazia della contrattazione collettiva nei casi in cui questa avesse una determinata copertura.
Dopo l’accordo del 7 giugno 2022 fra Commissione, Parlamento e Consiglio europeo (il trilogo del procedimento legislativo) sulla proposta di direttiva su «un equo salario minimo», a settembre il Parlamento ha varato il testo definitivo, pubblicato in Gazzetta a fine ottobre 2022 con scadenza per il recepimento a metà novembre 2024.
L’effetto utile potenziale dell’intervento è duplice: raggiungere l’adeguatezza dei salari minimi e incrementare la copertura della contrattazione collettiva. Su questa combinazione si è raggiunta l’intesa.
Per un esame, pur sintetico, del contenuto occorre muovere dai considerando, arricchiti nella versione finale (anche per consentire l’accordo politico). Sono 40 considerando e rendono evidente la funzione di contrasto alla povertà lavorativa in connessione al principio n. 6 del Pilastro.
Il Considerando n. 9 ad esempio afferma espressamente che «la povertà lavorativa nell’Unione è aumentata nell’ultimo decennio […]. Nei periodi di contrazioni economiche, il ruolo di salari minimi adeguati nella protezione dei lavoratori a basso salario è particolarmente importante […] ed è essenziale per favorire una ripresa economica sostenibile e inclusiva […] è essenziale che le imprese, in particolare le micro-imprese e le piccole imprese, prosperino. […] È importante valutare l’adeguatezza dei salari nei settori a bassa retribuzione».
Ancora, si ripete frequentemente (si vedano i Considerando da n. 5 a n. 10) che l’obiettivo è quello della adeguatezza dei salari e non di una loro uniformità su scala UE, con ciò differenziandosi, ad esempio, dal modello ipotizzato negli anni scorsi per il sussidio europeo di disoccupazione (EUBS – European Unemployment Benefit Scheme): un possibile sussidio comune per le situazioni di disoccupazione involontaria, che invece avrebbe avuto anche una funzione stabilizzatrice dei mercati, soprattutto con riferimento agli shock asimmetrici.
Il Considerando n. 28 (che era inizialmente il 20) «ricollega l’adeguatezza a un’equa distribuzione salariale nel paese di riferimento e al fatto che il salario assicuri un tenore di vita dignitoso, ed esplicita ora con enfasi l’importanza di misurazioni assolute della medesima adeguatezza».
Ancora, esso segnala agli Stati membri che «un paniere di beni e servizi a prezzi reali stabiliti a livello nazionale può essere strumentale per determinare il costo della vita, al fine di raggiungere un tenore di vita dignitoso. In via ulteriore rispetto alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, la partecipazione ad attività culturali, scolastiche e sociali può altresì essere tenuta in considerazione».
Tali precisazioni innovative lasciano impregiudicata l’importanza delle c.d. soglie di Kaitz (che rimangono nell’ultima parte del considerando 28 e sulle quali tornerò a breve) ma «segnano con decisione la necessità che l’adeguatezza del salario minimo legale non rifletta solo la distribuzione salariale in un dato Stato membro, ma svolga anche un’effettiva funzione di realizzazione di una “cittadinanza” sostanziale, legata alla piena partecipazione dei lavoratori alla vita sociale ed economica del proprio Stato membro».
La struttura della direttiva, dopo i considerando, è piuttosto semplice: gli articoli da 1 a 4 contengono le disposizioni generali e includono la disciplina per i paesi in cui l’autorità salariale è la contrattazione collettiva (il “primo canale” regolativo, descritto in particolare all’art. 4 e rilevante per l’Italia); gli artt. da 5 a 8 si occupano dei salari minimi legali (è il “secondo canale”, che coinvolge i paesi già dotati di un intervento di fissazione del salario minimo per via legislativa); gli artt. da 9 a 13 che contengono una serie di previsioni orizzontali, comuni a tutti i paesi, fra le quali l’art. 9 (sulle garanzie salariali nelle catene di appalti pubblici) e l’importantissimo art. 10 che disciplina un articolato sistema di raccolta di dati e monitoraggio, con obblighi molto puntuali di fornitura di informazioni da parte degli Stati alla Commissione, tanto è vero che per un paese nella situazione dell’Italia (con alta copertura della contrattazione collettiva ) questo potrebbe essere uno degli articoli più rilevanti per l’Italia; infine gli artt. da 14 a 19 con le disposizioni finali che chiudono la direttiva.
L’art. 1.4 precisa che la direttiva non impone un salario legale, né, per chi è chiamato a raggiungere gli obiettivi di adeguatezza tramite la contrattazione collettiva, impone una efficacia erga omnes di quest’ultima.
Il campo di applicazione è delineato dall’art. 2 che parla di lavoratori «che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore in ciascuno Stato membro, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia». Include, insomma, i lavoratori subordinati e, verosimilmente, anche i parasubordinati, almeno laddove essi siano formalmente riconosciuti negli ordinamenti. Sembrerebbero esclusi i lavoratori autonomi, ma in base al Considerando n. 21 (in combinato con l’art. 2), vi sono espliciti richiami a forme di lavoro “atipico” e anche tramite “piattaforma digitale”, in consonanza con l’obiettivo di intervenire in alcuni segmenti del mercato del lavoro fragili e di inquadramento incerto, dove il modello contrattuale – almeno originario e cartolare – può anche essere rappresentato dal lavoro autonomo, come in certi settori economici avviene in Italia e non solo.
L’art. 4 sancisce l’idoneità della contrattazione collettiva a garantire l’adeguatezza dei salari, nei paesi che ad essa si affidano, ma li impegna a promuoverla secondo precise direttrici. Questi Stati, infatti, secondo il primo paragrafo della norma:

a) promuovono lo sviluppo e il rafforzamento della capacità delle parti sociali di partecipare alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari, in particolare a livello settoriale o intersettoriale;
b) incoraggiano negoziazioni costruttive, significative e informate sui salari tra le parti sociali, su un piano di parità, in cui entrambe le parti abbiano accesso a informazioni adeguate per svolgere le loro funzioni in materia di contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari;
c) adottano, se del caso, misure volte a tutelare l’esercizio del diritto alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari e a proteggere i lavoratori e i rappresentanti sindacali da atti che li discriminino nel loro impiego per il fatto di partecipare o di voler partecipare alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari;
d) al fine di promuovere la contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari, adottano misure, se del caso, per proteggere i sindacati e le organizzazioni dei datori di lavoro che partecipano o intendono partecipare alla contrattazione collettiva da qualsiasi atto di interferenza reciproca o di interferenza da parte di agenti o membri della controparte nella loro istituzione, nel loro funzionamento o nella loro amministrazione.

Come già messo in evidenza, l’art. 4 è la disposizione più rilevante per l’Italia, che in linea di massima sembra rispettare, almeno sul piano formale, quanto richiesto dal secondo paragrafo del medesimo articolo, ossia un «tasso di copertura della contrattazione» superiore all’80% anche se si è – a mio avviso giustamente – criticato il fatto che la soglia è predicata su una scala troppo ampia, poiché ci possono essere segmenti del mercato del lavoro (settori produttivi o aree territoriali) dove il tasso è molto più basso, anche se a livello di grandezza nazionale aggregata si raggiunge e supera l’80.
Osservando le lettere da a) a d) e pensando all’Italia e ai suoi problemi di frammentazione sindacale, si rileva che impegni come quello della lettera a) sembrano spingere nella direzione di una selezione degli agenti contrattuali più qualificati, mentre c) e d) paiono condurre nella direzione di garantire il pluralismo di questi soggetti.
Il problema si stempera considerando che si tratta di un provvedimento chiamato a fornire indicazioni di principio piuttosto generali, spendibili per paesi diversi fra loro, essendo invece un problema inevitabilmente tutto domestico quello di meglio definire la rappresentatività e la legittimazione dei sindacati in sede contrattual-collettiva, nel contesto dell’art. 39.
L’art. 4 – in relazione agli obiettivi sostanziali che la direttiva nel complesso si prefigge e avendo in mente in particolare l’Italia – è inoltre problematico per un motivo in particolare : insieme ai considerando esso istituisce automaticamente una presunzione di adeguatezza dipendente da un dato statistico, ossia la copertura della contrattazione che superi l’80% dei rapporti di lavoro. È vero che statisticamente, di solito, dove la copertura dei contratti collettivi è ampia, si superano i valori del c.d. indice di Kaitz, però non è certo automatico che questo determini una situazione in cui sempre se c’è copertura del contratto collettivo allora i salari sono adeguati e sufficienti a garantire l’esistenza dignitosa. Tutta la giurisprudenza recente, che mette in discussione, nella lente dell’art. 36 Cost., i contenuti dei contratti collettivi, anche stipulati da soggetti rappresentativi, lo dimostra ampiamente.
L’egemonia della contrattazione collettiva, in quanto contrattazione ampiamente applicata, ancorché democraticamente apprezzabile, non è di per sé garanzia di una dinamica economicamente acquisitiva per la platea di lavoratori coinvolti . Ma se la Commissione europea si fosse spinta oltre in questo frangente forse sarebbe stato più difficile approvare la direttiva.
Gli artt. 5 e seguenti sono invece i più rilevanti per i 22 Stati che hanno una legislazione che fissa i minimi salariali. In essi vengono descritte le procedure che gli Stati devono adottare per garantire legislativamente i livelli minimi delle retribuzioni (e nondimeno per garantirne l’aggiornamento, secondo l’indicizzazione automatica prevista dal paragrafo 5) se scelgono – o confermano – questa strada.
L’adeguatezza dei salari, peraltro, è predicata in relazione alla generale situazione socioeconomica del paese (v. il Considerando n. 29, connesso a questa disposizione) e se ne prevede un aggiornamento rapido e costante, con procedure trasparenti in relazione alle dinamiche evolutive dei salari reali.
Qui viene utilizzato come parametro l’indice di Kaitz (che fissa la soglia relativa di povertà sotto al 60% del salario lordo mediano e al 50% del salario lordo mediano), unitamente ad alcuni altri indici. Rilevante è anche l’art. 6 che diffida gli Stati dal consentire che deduzioni, variazioni e trattenute previste per le retribuzioni di particolari categorie di lavoratori ne mettano a repentaglio l’adeguatezza, in ossequio al divieto di discriminazione.
L’art. 8 si occupa infine della effettività dell’accesso dei lavoratori ai salari minimi legali, mediante l’implementazione di sistemi di controlli, ispezioni e sanzioni che possono essere a tale scopo previsti.
Il contenuto della Direttiva, insomma, è piuttosto aperto e lascia notevole discrezionalità agli Stati Membri. Certamente, gli obiettivi identificati dalla Relazione di accompagnamento (l’Impact assesment document) e dai Considerando (cioè l’aumento del tasso di copertura della contrattazione, il miglioramento della trasparenza ed effettività del salario minimo legale, la riduzione del livello di povertà lavorativa, l’inclusione sociale, etc.), sono perseguiti dall’UE con uno sforzo interessante, ma il prodotto non è risolutivo di tutte le questioni.
Lo stesso indicatore di povertà lavorativa impiegato in sede europea forse richiede ormai una revisione e anche il discusso concetto di adeguatezza non è sufficiente, dovendosi pensare anche alla equità e alla giustizia delle retribuzioni .
Ma volgendo più analiticamente lo sguardo al nostro paese, sembra opportuno qualche ulteriore rilievo. È vero, probabilmente, che affinché la Direttiva non costituisca per l’Italia un mero «tagliando di controllo» del sistema, occorrerebbe una convergenza politica fra gli obiettivi di fondo della stessa e un indirizzo della maggioranza parlamentare e di governo che guardi al conflitto distributivo come uno dei problemi più urgenti, nell’ottica di incrementare realmente i salari, a partire da quelli bassi e medio bassi .
È evidente che questa sintonia oggi manca e che appare plausibile che entro la fine del 2024 non vi sarà nessun atto espresso di recepimento della stessa o che, eventualmente, si tratterà di interventi molto blandi.
Tuttavia, mi pare che, almeno in astratto, leggendo le previsioni della Direttiva sui salari non solo nel contenuto che esse prima facie propongono (il quale – si ritiene da più parti – autorizzerebbe in sostanza l’Italia a rimanere anche inerte senza con ciò esporsi a responsabilità per mancata attuazione), si trovino varie indicazioni preziose, proprio perché intervengono in un momento storico in cui la materia salariale subisce scossoni, è discussa ed è obiettivamente in movimento a più livelli istituzionali.
Sono state portate nelle aule parlamentari negli ultimi anni (sia nella XIX legislatura in corso, sia nella precedente) numerose proposte di intervento, articolate in modo vario secondo le sensibilità politiche dei proponenti. Si va dalla proposta della ex Ministra Catalfo, che prevedeva i famosi 9 € orari come soglia minima, a quella dell’On. Rizzetto sino a quella dell’ex Ministro Orlando, che fu coltivata a lungo durante il governo Draghi senza esito finale. Erano tutte soluzioni legislative apparentemente compatibili con la Costituzione, sia perché l’art. 36 non prevede una “riserva di contrattazione collettiva” in tema di definizione del quantum salariale sufficiente, sia perché anche i meccanismi di generalizzazione delle previsioni economiche dei contratti collettivi non sembravano violare la seconda parte dell’art. 39 poiché essenzialmente avevano a che fare con un contenuto del contratto e non con una sua estensione in senso assoluto.
Sappiamo poi che l’attuale maggioranza di governo alla fine del 2023 ha stravolto una proposta in discussione alla Camera, emanazione originariamente delle opposizioni unite, e – con la tecnica del maxiemendamento – ha formulato una delega al governo che verrebbe autorizzato a intervenire secondo un meccanismo di estensione del contratto collettivo «maggiormente applicato», prescindendo da una verifica, pur concretamente complessa per molte ragioni, in ordine ai requisiti di rappresentatività degli agenti contrattuali da ambo i lati . Mi risulta che sia ancora in discussione al Senato . L’impostazione desta forti perplessità poiché la scelta in ordine all’applicazione di un determinato contratto collettivo è di fatto una scelta unilaterale del datore e si rischia di consentire e legittimare la diffusione e l’affermazione di contratti non adeguatamente attrezzati sul piano delle tutele economico-normative. Per quanto il meccanismo dovrebbe essere sorvegliato dal governo (ma è poi un bene?), non sembra si possa escludere che il sistema sia lasciato a una sorta di anarchia, che diventa facilmente “legge del più forte”, alla cui stregua il contratto più diffuso può essere un contratto più conveniente per le imprese a prescindere dalla legittimazione degli agenti che lo hanno stipulato. Staremo a vedere l’esito parlamentare, pur sapendo che non si tratta, ad oggi, di un tema centrale e prioritario nell’indirizzo politico della maggioranza ed è perciò verosimile che l’approssimarsi della scadenza per l’attuazione della Direttiva non determini alcuna accelerazione nell’iter .
Ad ogni modo, prescindendo dalle proposte formalmente incardinate in Parlamento, si può ritenere che se a un intervento legislativo, a livello domestico, si darà corso, esso potrà tenere in grande considerazione la presenza della Direttiva Europea pur mantenendo il contratto collettivo al centro della scena.
I motivi sono tanti: l’art. 17 della stessa impone, per il suo corretto recepimento e attuazione, che i paesi debbano segnalare alla Commissione tutti gli interventi normativi che intersechino le materie di cui alla stessa. Questo può innescare un meccanismo di scambio e confronto con le istituzioni europee che fino ad oggi non esisteva. La trasmissione anticipata alla Commissione può produrre interferenze – se non politicamente cogenti, almeno persuasive – importanti. E sappiamo bene quanto questo accada in molti ambiti del governo economico dei paesi dell’Unione: ce lo insegna la limitazione della sovranità monetaria e fiscale che la costruzione europea ha prodotto nei confronti degli Stati.
Inoltre, la Direttiva, anche nello stesso articolo 4, fornisce importanti input al rafforzamento della contrattazione e al sostegno ai sindacati rappresentativi: sono le quattro lettere in precedenza riportate. Non a caso si può ritenere che il piano di azione per il rinforzo contrattazione collettiva, a cui solo formalmente sembrerebbe che l’Italia non sia tenuta (cfr. il Considerando 25 e il secondo paragrafo dell’art. 4), potrebbe in realtà essere una opportunità anche per il nostro paese.
Proprio le proposte di legge che erano e sono in discussione guarda(va)no in molti casi a un contratto collettivo rafforzato. Quindi questa indicazione offre un assist all’obiettivo di dare un supporto al c.d. contratto leader, per evitare il dumping fra contratti e per proteggere quei settori dove l’80% di copertura non c’è proprio e/o si raggiunge solo con contratti concorrenti al ribasso, quando non corsari .
Ancora, proprio il problema della diffusione non omogenea della copertura contrattuale potrebbe emergere in maniera ancor più nitida se il monitoraggio interno, istituzionalmente richiesto dalla nuova normativa europea (all’art. 10), venisse effettuato in maniera rigorosa: per ora lo fanno alcuni osservatòri e centri di ricerca, qualcosa ha fatto il CNEL (in modo poco convincente ), ma altro sarebbe se lo facesse il Ministero del lavoro con strumenti penetranti (e non, per intendersi, con il solo censimento dei flussi UNIEMENS o procedure di similare opacità) . L’art. 10 al paragrafo 2, lettera c), prevede proprio degli obblighi di questo tipo anche per chi ha un modello come il nostro. Vi si trova il dovere di comunicare dati e informazioni:

c) per la tutela garantita dal salario minimo prevista esclusivamente dai contratti collettivi: i) le retribuzioni più basse previste dai contratti collettivi che coprono i lavoratori a basso salario o una loro stima, se le autorità nazionali competenti non dispongono di dati accurati, e la percentuale di lavoratori da esse coperta o una loro stima, se le autorità nazionali competenti non dispongono di dati accurati; ii) il livello dei salari versati ai lavoratori non coperti dai contratti collettivi e il suo rapporto con il livello dei salari versati ai lavoratori coperti dai contratti collettivi.

Operando scrupolosamente in quest’ottica, cosa si potrebbe scoprire?
Per esempio, qualcosa sui gap salariali di genere potrebbe emergere: ancorché si tratti di un problema multifattoriale che ha origini e ragioni anche sfuggenti, raramente imputabile a espliciti differenziali di trattamento nei contratti, è comunque una questione collegata anche alla forza effettiva dei minimi salariali e alla povertà.
O ancora, qualcosa sulle retribuzioni mediamente più basse nelle catene degli appalti dove spesso difetta la corrispondenza fra categoria merceologica e contratto collettivo applicato (e del resto tale problema, per il quale qualcosina di recente il legislatore ha provato a fare senza risolvere il problema alla radice, non è affrontato funditus nemmeno dalla direttiva, che qualcosa dice sugli appalti pubblici, ma non sulle esternalizzazioni e sugli appalti privati).
Altro aspetto: la Direttiva, se se ne leggono in modo combinato e accorto le previsioni, in più punti evoca meccanismi elastici di adeguamento dei salari. È normale: occorre ricordare che il salario minimo non sempre è anche un salario giusto e adeguato. Da questo punto di vista la capacità elastica dei salari è molto importante e, per quanto le dinamiche inflazionistiche vadano tenute sotto controllo, l’adattabilità dei salari reali è molto importante, per le categorie economicamente più fragili è anzi un elemento vitale.
Lo testimonia anche l’art. 5, paragrafo 2, dedicato ai criteri nazionali di fissazione del salario legale (per i paesi che lo adottano). Essi dovranno tenere conto anzitutto de:

a) il potere d’acquisto dei salari minimi legali, tenuto conto del costo della vita; b) il livello generale dei salari e la loro distribuzione; c) il tasso di crescita dei salari; d) i livelli e l’andamento nazionali a lungo termine della produttività.

Inoltre, al quarto paragrafo chiarisce che a tal fine gli Stati:

possono utilizzare valori di riferimento indicativi comunemente utilizzati a livello internazionale, quali il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio, e/o valori di riferimento indicativi utilizzati a livello nazionale.

Di fatto, nella stessa Direttiva c’è dunque un riferimento implicito all’utilizzo degli indici Istat e della soglia di povertà (parametro, del resto, ormai impiegato anche dalla giurisprudenza, quantomeno in combinato con altri). Se l’Italia interverrà con una legge, sia pure una legge che tenga il contratto collettivo al centro del sistema, dovrà porsi anche questo problema.
Perché è vero che in certi settori (si pensi alla dinamica di adeguamento salariale della contrattazione nazionale nell’industria metalmeccanica privata, che anche nel 2024 ha dimostrato una certa tenuta ) la forza sindacale riesce a salvaguardare il potere d’acquisto, ma altrove la capacità di rivendicazione collettiva autonoma di salari dignitosi è molto indebolita essendo la manodopera progressivamente più ricattabile e sostituibile .
Inoltre, anche categorie spesso fragilissime come i lavoratori migranti non sono in grado di organizzarsi e agire in giudizio per chiedere direttamente al giudice il rispetto dell’art. 36 Cost. come altri lavoratori stanno invece facendo .
Per queste ed altre ragioni un intervento normativo che tragga linfa anche dalla Direttiva, di sostegno forte alla contrattazione più credibile, possibilmente comunque con la fissazione di una soglia legale minima , potrebbe essere giuridicamente più solido e più protetto da eventuali rischi di contrasto con l’art. 39 Cost. (in quanto legittimato da alcune indicazioni sovranazionali di rango primario in tema di rafforzamento della contrattazione), oltre che politicamente auspicabile se non vogliamo rassegnarci al fatto che Gianna – che tanto bene faceva a non cercare il suo pigmalione – smetta definitivamente di difendere il suo salari

 

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