testo integrale con note e bibliografia
1. Fra i tanti fenomeni di questo periodo storico così difficile un rilievo particolare andrebbe riconosciuto alle “grandi dimissioni”. Questo scritto, dedicato ad un giurista del nuovo secolo con uno sguardo sempre rivolto al futuro qual è stato Riccardo Del Punta, prende spunto da un volume di Francesca Coin in cui si affronta il tema dell’abbandono e della disaffezione al lavoro, che finora, in verità, non ha attratto granchè l’attenzione – se non in circoli molto ristretti – nella riflessione giuslavorista . Eppure è un fenomeno che ci riguarda da vicino, per le indubbie connessioni con la stessa cultura giuslavorista – intrisa di quella che Aris Accornero ha definito “l’ideologia del lavoro” , carattere forse addirittura fondativo o comunque basilare del bagaglio culturale del diritto del lavoro.
Il rifiuto del lavoro salariato da parte di un numero crescente di persone in età lavorativa, che lasciano il proprio lavoro spesso senza cercarne un altro, potrebbe indurre a credere che si stia realizzando un distacco ancora più netto dai paradigmi “laburisti” storicamente egemoni, fondati sul rapporto vita-lavoro inculcato dal capitalismo post-ottocentesco, con la nascita della grande industria e del lavoro salariato di massa, già messo in crisi dal cosiddetto “post-fordismo”. Del resto, più di quarant’anni fa proprio Accornero, nel suo volume appena citato, parlava di “crisi della categoria lavoro” come fenomeno “che attraversa il corpo delle società contemporanee agendo in profondità ed esplodendo in superficie”.
I numeri sono auto-evidenti: oltre cinquanta milioni negli Stati Uniti hanno abbandonato il proprio lavoro nel solo 2022, con un aumento esponenziale negli ultimi anni (basti pensare che nel 2013 si erano registrate circa 13 milioni di dimissioni ) mentre in Italia nello stesso anno si sono avute più di due milioni di dimissioni, in continua crescita di anno in anno . L’Italia è un caso a sé stante che finora nessuno è riuscito a spiegare del tutto, visto che, diversamente dagli USA che si trovano in una situazione di pieno impiego, all’abbandono del lavoro salariato da parte di tanti lavoratori fa riscontro un mercato del lavoro asfittico con una quota molto alta di disoccupati (oltre cinque milioni). Un numero altissimo di lavoratori (circa un terzo della forza lavoro) risulterebbe poi impegnato nella ricerca di un nuovo impiego, per motivi diversi, ma in gran parte collegati all’insoddisfazione per il proprio lavoro, anche se, paradossalmente, sembrano esserci oggettive difficoltà in molti settori di reperire manodopera (qualificata e non), come ha evidenziato il rapporto OCSE del gennaio 2024 sull’Italia . Secondo l’OCSE le dimissioni dall’impiego in Italia sono in costante aumento dal 2015 in avanti, fino a superare nel 2023 il 2,5% su base annua (percentuale calcolata sul numero complessivo di posti occupati). Al tempo stesso sale il cosiddetto Labour Leverage Ratio, coefficiente che misura il rapporto fra dimissioni e licenziamenti come causa di risoluzione anticipata del rapporto di lavoro (più che raddoppiato dal 2014 al 2023) . Anche l’INPS certifica un aumento costante delle dimissioni volontarie dal 2019 in avanti (+ 14% nel 2021, + 26% nel 2022) . Del resto tutti gli studi in materia attestano un aumento del fenomeno, non collegato ad una specifica congiuntura ma iniziato già da vari anni . Sono dati liberamente interpretabili, ovviamente, e possono essere letti sia come ritirata dei lavoratori dal mercato del lavoro che anche come “rimescolamento”, ossia come ricerca di un migliore impiego, per quanto il tasso di ricollocazione non sia molto elevato, in realtà coinvolgendo poco più del 60% dei lavoratori dimissionari . In ogni caso, sono numeri che certificano quanto meno insoddisfazione e disaffezione per il proprio impiego e, almeno in parte, una tendenza all’abbandono del lavoro salariato .
Nel suo libro Francesca Coin ci parla di questo problema con dati di prima mano e con un’analisi interessante, che mette al centro il rapporto con il lavoro nel mondo d’oggi. Il focus del volume è principalmente sulla crisi del capitalismo occidentale che corre fra due momenti con una valenza simbolica molto forte, ossia fra l’implosione del sistema finanziario del 2007-2008 e l’epidemia del 2019-2020: quando inizia l’“epoca delle catastrofi”, secondo Roberto Esposito, ossia delle crisi non più rimediabili (o molto difficilmente superabili) . E’ dunque in un contesto estremamente complesso e difficile che va calata la “fuga dal lavoro salariato” che interessa l’Occidente capitalistico. La riflessione che si propone in questo breve saggio avrà il seguente svolgimento: dopo aver fornito una sintesi più concreta del fenomeno, si cercherà di calarlo all’interno delle coordinate giuslavoriste, tenendo conto anche del dibattito costituzionale sul “dovere di lavorare” e sulla matrice “laburista” del diritto del lavoro, proseguendo un dialogo con Riccardo Del Punta, purtroppo interrotto, ma non con le sue stesse conclusioni: la via d’uscita che si propone non è quella liberale, temperata e densa di civiltà giuridica che lui proponeva, ma la critica ai modelli sociali egemoni a cui prima si accennava, per una nuova cultura del lavoro – o per meglio dire, provocatoriamente, del “non-lavoro”.
2. E’ bene chiarire, prima di entrare nel vivo della nostra analisi, che quando si discute di “rifiuto del lavoro”, viene messo in questione il “dovere di lavorare”, su cui si fonda la nostra stessa formazione sociale. Naturalmente non ci si riferisce qui all’obbligazione di lavorare derivante dal contratto individuale di lavoro. Trattando questi aspetti, la discussione si sposta sul terreno – ben diverso – dei comportamenti devianti di carattere individuale che integrano un inadempimento contrattuale, violando gli obblighi sanciti dalla disciplina giuslavorista. Qui si discute invece del dovere di lavorare come limite del non-lavoro, che esprime la disaffezione collettiva dal lavoro, che si è manifestata nel tempo con comportamenti di assenteismo di massa o di nomadismo e/o distacco dei lavoratori dal lavoro, come “crisi di disamoramento” .
Francesca Coin nel suo volume richiama Hirschman e la sua nota teoria sulle diverse strade che può prendere l’insoddisfazione e l’alienazione del lavoratore, fra protesta (voice) e defezione (exit): una scelta, aggiunge, che dipende dalla loyalty, un terzo concetto fondamentale che può essere tradotto come “lealtà”, “fedeltà” o anche “fidelizzazione”. Nella pratica, come sappiamo, il conflitto è i modi attraverso il quale i lavoratori hanno contrapposto al potere dell’impresa capitalistica il contropotere di classe, per migliorare le proprie condizioni di lavoro. Tutto il diritto sindacale italiano si è costruito su questi presupposti. L’abbandono, la fuga, l’esodo non hanno mai rappresentato una scelta privilegiata, anche di fronte alle più dure condizioni di lavoro. Ma com’è riuscito il capitalismo a convincere i lavoratori a rimanere nonostante tutto “fedeli”? Abbiamo dato per scontato che i lavoratori, fra le diverse opzioni, scelgano sempre la prima, ossia la costruzione di un potere sindacale organizzato, senza considerare che questa è stata semmai la caratteristica di un particolare modello di capitalismo, che, come spesso capita nel pensiero occidentale ed anche ai giuslavoristi, abbiamo elevato ad universale.
In realtà, come ci racconta il libro della Coin, le cose non sono andate sempre così. Nella fase iniziale dello sviluppo industriale l’ideologia del lavoro era molto debole e la “dedizione” molto scarsa, tanto da diffondersi fenomeni di fuga dal lavoro sotto forma di dimissioni volontarie, assenteismo e allontanamento dalle fabbriche. Uno dei problemi più importanti per la nascita della grande industria è stato proprio questa costante emorragia. Per ridurre il turn-over le imprese furono costrette ad introdurre forme di retribuzione diretta, indiretta e differita, calcolata sull’anzianità. Racconta Francesca Coin che Ford, per contrastare l’abbandono del lavoro (che era arrivato al 370%) e un assenteismo altrettanto elevato, fu costretto ad introdurre il cosiddetto sistema del “Five-dollar”, raddoppiando i salari e diminuendo l’orario di lavoro a otto ore al giorno . Fu la strada che il nascente capitalismo industriale scelse, forse l’unica a sua disposizione, per avere una manodopera più stabile, dando avvio ad una serie di riforme del lavoro, con garanzie non solo economiche ma estese ai diritti individuali e alla tutela sindacale che interessarono un po' ovunque, quasi interrottamente fino agli Settanta-Ottanta del Novecento, i paesi occidentali. In tal modo riuscì la difficile alchimia della fidelizzazione dei lavoratori, quanto meno nei settori centrali del mercato del lavoro, ottenendo anche un notevole grado di stabilità produttiva.
Con lo smantellamento del sistema di garanzie e tutele che aveva caratterizzato il periodo keynesiano il lavoro subirà com’è noto importanti trasformazioni, diventando “mobile” e precario. La fedeltà diventa “unilaterale” e priva di una ragione di scambio: “i lavoratori” – scrive Francesca Coin – “devono dimostrare devozione al lavoro, mentre le aziende possono assumerli per licenziarli quando vogliono, in una relazione usa e getta fondata, in maniera strutturale, sull’infedeltà”. Il vecchio “contratto sociale” può considerarsi oramai tramontato e il concetto stesso di fedeltà relegato nell’archivio storico del capitalismo occidentale.
Come sostiene Accornero, la crisi del lavoro nel post-fordismo investe il fatto-lavoro “come ideale e come merce” : cambiano le condizioni materiali e crolla l’ideologia del lavoro, insieme a tutti i suoi corollari. Nella fuga dal lavoro salariato non è facile dire se le cause sono da rintracciare unicamente nella precarietà e nelle contro-riforme sociali messe in atto dopo l’epoca fordista-keynesiana, o c’è dell’altro, che attiene ad un cambio di rotta generale e a nuovi modelli culturali . Anche perché nella complessità storica e sociale insita nell’evoluzione del capitalismo occidentale, non si può negare che la fine del pieno impiego e della stabilità del posto di lavoro, con la forte contrazione della forza lavoro necessaria, le nuove relazioni salariali e lo smantellamento dei diritti acquisiti, sono coincisi con una nuova prospettiva caratterizzata da quella che Wartzman ha ribattezzato come The End of Loyalty . Dopo l’“età dell’oro”, in cui il lavoro era stato fidelizzato attraverso il do ut des di cui si è detto in precedenza, la crisi del rapporto con il lavoro si può leggere anche come crisi qualitativa dell’occupazione disponibile e della considerazione sociale del lavoro . Naturalmente non mancano ancora altre letture, finanche chi ha collegato il rifiuto del lavoro a nuove domande esistenziali, al nuovo rapporto con la sfera lavorativa, di cui parleremo in seguito. Ma la questione forse più interessante è comprendere la risposta data alla disaffezione al lavoro salariato, con la fine della “formula di pace” socialdemocratica , ossia come è stata ottenuta fedeltà e lealtà da parte dei lavoratori nei confronti dell’impresa nel nuovo contesto, che vede il depauperamento delle garanzie sociali, retributive e normative offerte alla classe lavoratrice come contropartita al suo impegno e alla sua dedizione al lavoro. Nel suo volume la Coin richiama a tal proposito l’employee engagement, ossia la tendenza indotta all’interiorizzazione da parte del lavoratore di sentimenti di “felicità” o almeno di soddisfazione individuale per il fatto stesso di essere produttivo ed utile (secondo Wartzman, ironicamente, la formula magica era “Take This Job and Love It”), realizzando un rapporto empatico fra lavoro e capitale fondato sulla valorizzazione, almeno apparente, del suo ruolo nella sfida competitiva sul mercato concorrenziale, indipendentemente dal riconoscimento di adeguate condizioni retributive, professionali e di contesto. Secondo questa corrente di pensiero alla mancanza di sicurezza si è risposto dunque con l’arma molto sofisticata del coinvolgimento e della partecipazione dei lavoratori, trasformando il rapporto di lavoro in una sorta di irenica unione felice, fatta di reciprocità e di obiettivi comuni, di fiducia e cooperazione, allo scopo di aumentare o almeno preservare la produttività e i profitti aziendali. Si potrebbe parlare di soft power, di potere persuasivo, ma bisogna ricordare che il soft power nasce pur sempre dall’hard power, così come il potere persuasivo dal potere coercitivo.
Alcuni autori come Mandell, nel suo The Corporation as Family, ricollegano il nuovo spirito collaborativo e partecipativo (ed anche il welfare aziendale) alla rifondazione post-keynesiana delle imprese capitalistiche occidentali, “plasmandole sul modello della famiglia vittoriana” e creando un singolare connubio di “amore e precarietà”, tanto da prodursi forme di lavoro gratuito e semi-gratuito, insicurezza ed uno sfruttamento intensivo del lavoro, fino a sconfinare nel tempo libero, utilizzando “risorse emotive”. Ma anche questo filo si è spezzato. Il deterioramento delle condizioni di impiego, a cui corrisponde un enorme plus-valore per l’impresa capitalistica che ha accumulato in tal modo profitti immeritati, non poteva che far risaltare l’illusorietà del nuovo ruolo del lavoratore nell’impresa e la matrice ideologica della “filosofia” partecipativa.
Certamente uno dai maggiori fattori di disaffezione e rifiuto del lavoro salariato è rappresentato dalle condizioni materiali come le retribuzioni molto basse, specialmente in alcuni settori, tanto basse da non essere considerate un corrispettivo adeguato all’impegno e ai sacrifici richiesti. Si può dire, anzi, che “la classe precaria a basso salario sia la protagonista delle Grandi dimissioni” . Ma sono anche i cambiamenti nella produzione e nel lavoro, trasversali a molti settori, a costituire un fattore disincentivante all’impegno lavorativo. Il riferimento più comune, di cui si parlava in precedenza, è alla spinta insistente – una “spinta gentile” ma determinata - a lavorare sempre di più, “a essere always on e sempre disponibili, incluso la sera, nei festivi e nei fine settimana”: tema a lungo sottovalutato, che ha provocato un enorme allontanamento dei lavoratori, soprattutto giovani, e un distacco oramai definitivo dall’ideologia del lavoro novecentesca basata su un’etica del lavoro smentita clamorosamente nei suoi presupposti di fondo dal capitalismo stesso, unilateralmente .
Il rapporto di lavoro, idealizzato come una meta per le giovani generazioni, appare spesso nella sua concretezza come “una relazione abusiva, priva di reciprocità”, un contesto in cui i rapporti non si sviluppano su un piano di parità ma restano sbilanciati e in qualche caso assumono tratti dispotici. Non a caso intellettuali come Hugh Collins si sono interrogati criticamente sul carattere illiberale del contratto di lavoro (tanto da chiedersi se il contratto di lavoro non sia, realisticamente, “calculated to destroy liberty, equality, privacy, and other liberal values” ) mentre altri, come Elisabeth Anderson, addirittura suggeriscono che i rapporti di lavoro potrebbero essere considerati “as a form of dictatorship” . Non molto diversamente, va detto, da quanto sosteneva lo stesso Kahn Freund nel suo Labour and the Law, molti anni prima . La conclusione di Collins è drastica: “without such laws in place, the institution of the contract of employment will remain inherently incompatible with liberal values”; ma quando la legge arretra, torna in auge in modo non più sorvegliato il vecchio dispotismo padronale. E’ quindi contestabile o almeno discutibile l’idea che il capitalismo neoliberale sia portatore di un cambiamento di fondo tanto da produrre in modo generalizzato o comunque esteso, nell’impresa che produce valore, un “attivo coinvolgimento del lavoro qualitativo e cognitivo” in senso reale e concreto. In verità, è forse più giusto dire che il lavoro, con la sua perenne connessione a sistemi automatizzati e digitali, esige dal lavoratore un superiore livello di conoscenza e “alfabetismo” informatico ed un comportamento adesivo, una partecipazione convinta all’impresa , ma nel contesto di un riduzione e non di un ampliamento degli spazi di libertà, indipendenza ed autonomia rispetto al potere datoriale, che, anzi, diventa più pervasivo, incontrollato, capace di insinuarsi in ogni momento della vita quotidiana, nel lavoro come nel tempo di (apparente) non-lavoro .
Non è solo questione di salari poveri: la disposizione al sacrificio può dirsi oggi profondamente cambiata, soprattutto nelle nuove generazioni, che fanno i conti con aspettative decrescenti e vengono immessi in un sistema produttivo che chiede una partecipazione totale ma senza corrispettività. Da questo punto di vista il fenomeno del rifiuto del lavoro e l’abbandono di massa del lavoro salariato, più che “l’ingresso nell’età dell’anti-ambizione” sembrano rappresentare una sorta di lotta silenziosa, di sciopero generale “non ufficiale”, come afferma Robert Reich , “teso a rinegoziare il confine di ciò che è lecito e ciò che non è più accettabile” nel rapporto di lavoro, che va di pari passo con la ripresa del conflitto sociale e delle lotte sindacali . Potrebbero essere il preludio di un cambiamento culturale e antropologico, rinnovando le propensioni individuali verso il lavoro e mettendo in discussione uno dei pilastri del capitalismo occidentale, ossia la relazione salariale . Ma non è solo un problema limitato ai paesi geograficamente appartenenti al mondo occidentale. Anche altri paesi che hanno in comune con l’Occidente il richiamo ossessivo alla crescita economica – secondo una concezione tipicamente “sviluppista” - e dove da tempo si convive con un capitalismo aggressivo e iper-produttivista (causa, fra l’altro, di grandi problemi alla salute dei lavoratori secondo l’ILO ), movimenti o controculture della “sottrazione” aprono una crepa nell’etica del lavoro. Un approccio filosofico diverso, non razionalista e non propenso a coniugare incessantemente vita e lavoro, è del resto presente da sempre nella cultura orientale (e può essere incarnato oggi dal pensiero attuale di Byung-Chul Han e dal suo “invito” a fermarsi, a rallentare, a decrescere ). Quanto al caso dell’Italia, le condizioni lavorative soprattutto delle fasce marginali del mercato del lavoro (giovani, donne, migranti) sono all’insegna della precarietà oramai da decenni e proprio questo “immobilismo” sembra essere all’origine, prima ancora di altri fattori, della “fuga dal lavoro” in un paese a così alta disoccupazione. Come negli altri paesi, le “Grandi dimissioni” non sollevano soltanto interrogativi sulle evidenti incongruenze del rapporto fra l’impegno lavorativo richiesto e le condizioni contrattuali proposte in cambio, ma testimoniano anche, implicitamente, una critica sociale nei confronti del lavoro nell’epoca neoliberale, che molti, anche fra i giuslavoristi , si ostinano a non voler vedere.
3. Una delle critiche contro l’istituzione del reddito di cittadinanza – insieme alla nota polemica contro gli abusi consentiti dal D.L. n. 4/2019 – è stata quella di contribuire ad allontanare i giovani dal lavoro, anzi a disincentivare la ricerca di un lavoro, con discorsi che sembrano tratti da vecchie teorie ottocentesche, come quella di chi riteneva che la disponibilità al lavoro operaio potesse derivare esclusivamente (o quasi) dall’ “imperativo della necessità”. Del resto anche la legislazione sembra procedere su questa linea di tendenza, discriminando fra occupabili e non occupabili, come se anche nella cultura di governo si fosse registrata un’improvvisa regressione.
Con il dibattito sollevato dal reddito di cittadinanza e dalla successiva abrogazione dello stesso, in nome dell’occupabilità, tornano a farsi sentire tematiche che sembravano relegate in momenti lontani nel tempo, come quella sul “dovere di lavorare”, su cui si è dibattuto a lungo nella Costituente e poi formulato nell’art. 4, 2° comma, della Costituzione come “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Una formula vaga, meno diretta ed incisiva, ma con un riferimento alla condizione di cittadinanza che rendeva ben comprensibile il bilanciamento fra diritti e doveri di cui si nutre nella Costituzione il rapporto fra individuo e stato, fra vita e lavoro. Mancini, nel suo commento all’art. 4, ritenne che nella disposizione si potessero individuare due diversi “segni ideologici, poiché da un lato “ad essere massimizzata è la libertà del singolo”, la sua autodeterminazione, ma dall’altro c’è la socialità, tanto da allargare “il campo dei comportamenti censurabili in chiave di parassitismo e di devianza” . Va detto che furono proprio gli esponenti della sinistra storica di orientamento marxista ad assumere una posizione molto ferma, nell’ottica di definire un vero e proprio obbligo di lavorare per tutti i cittadini, salvo gli inabili, con sanzioni per i renitenti al lavoro. Il sintetico resoconto che fa Somma del dibattito nella Costituente è in tal senso significativo : fu grazie agli esponenti del mondo cattolico che si riuscì a temperare la matrice ideologica socialista e comunista, da cui scaturiva la volontà di imporre un dovere in termini giuridicamente efficaci ed esigibili. Pur ammettendo che una vera e propria costrizione a lavorare, ossia un obbligo al lavoro “forzato” non poteva ritenersi ammissibile né eticamente né giuridicamente, da parte di uno schieramento piuttosto ampio, che vedeva nel lavoro il cuore del patto di cittadinanza, si sostenne l’esigenza di sanzioni indirette (ma non meno efficaci), come quella di escludere gli oziosi e i vagabondi dalle misure assistenziali previste per gli inabili al lavoro o per chi fosse sprovvisto dei mezzi necessari a sopravvivere (tanto da potersi dire, a contrario, che chi è abile al lavoro non ha diritti e non può essere “mantenuto” a carico dello stato e della collettività ). Addirittura, in una prima stesura dell’art. 4 della Costituzione era stato inserito un comma, poi cancellato dall’assemblea, che prevedeva l’adempimento del dovere di lavorare come condizione per l’esercizio dei diritti politici . Queste posizioni – per le quali si vedano nell’Assemblea costituente le dichiarazioni di insospettabili personalità della sinistra politica – ebbero uno sviluppo successivo; fu questa la “norma programmatica”, più che del diritto al lavoro, ad essere raccolta tempestivamente dal legislatore italiano nei bui anni Cinquanta, tanto che già con la l. 27 dicembre 1956 n. 1423 si adottarono misure nei confronti degli “oziosi e i vagabondi abituali validi al lavoro”, ritenendo la resistenza al dovere di lavorare un comportamento anti-sociale: ai reprobi veniva riservata la “sorveglianza speciale della pubblica sicurezza” con obbligo di attivarsi alla ricerca di un lavoro sotto pena dell’arresto. . La linea era dunque quella dell’emarginazione dei diversi e delle fasce marginali, della colpevolizzazione dei poveri e dei renitenti al lavoro, in accordo con la mentalità di quegli anni, che non si poneva in nessun modo il problema della integrazione degli emarginati. Anzi le disposizioni in parola consentirono agli organi di polizia, come osserverà Federico Mancini, di “fabbricare uno stereotipo dell’asociale o del socialmente pericoloso che serve in modo egregio al controllo dei sottoproletari disadattati e dei dissenzienti” (che oggi si ripropone) .
Scrivendo a ridosso del ’68, Mancini comprese come il problema fosse diventato molto più complesso con l’emergere del “dissenso” e di “quella disaffezione per il lavoro e per la sua disciplina a cui nessuna società industriale sembra sfuggire”. Nel dovere di lavorare poteva in effetti rintracciarsi un’ideologia risalente “al nucleo della teoria weberiana sul rapporto tra etica protestante e spirito del capitalismo”, che aveva dato inizio “a quel processo di esaltazione del lavoro” che costituiva la nuova teologia della nascente borghesia, e che, poco dopo, attecchirà anche nel movimento operaio grazie all’interpretazione in chiave economicista “del concetto marxiano di sviluppo delle forze produttive” da parte dei teorici della Seconda Internazionale . Ma era un’ideologia che i movimenti avrebbero dissacrato e messo in crisi.
E’ poi prevalsa nel nostro ordinamento un’interpretazione generalmente cauta da parte della dottrina post-costituzionale e maturò, nei confronti dell’emarginazione e della devianza, un atteggiamento molto diverso . Si dovettero comunque attendere oltre trent’anni per veder abrogare la legislazione repressiva, con la legge 3 agosto 1988 n. 327, ma si era già in altra epoca e in altro clima culturale (post ’68) che aveva visto la fine dell’isolamento e della segregazione dei “diversi”, anche grazie alla legge Basaglia del 1980, passando dal regime illiberale degli anni cinquanta alla più matura considerazione del disagio sociale e del dovere dei pubblici poteri di provvedere al reinserimento degli emarginati . Ma ancora oggi residua e pare rinnovarsi un “odio dei poveri”, tanto da rivedersi all’opera dispositivi che, si è notato, “colpiscono chi non rientra in un modello ideale di cittadinanza e di produttività sociale” .
La questione merita un commento critico. Nel movimento operaio storico e nell’arco di forze progressiste che hanno svolto un ruolo fondamentale nel tratteggiare i caratteri della democrazia italiana, sono sempre convissute, rispetto al lavoro come “valore”, due diverse linee. La prima, certamente maggioritaria, legata all’affermazione del lavoro come chiave risolutiva dei problemi della società italiana, tanto da creare una vera e propria “mitologia” del lavoro, coesistita tuttavia a lungo con la critica marxiana al lavoro estraniato ed alienato, fonte dello sfruttamento e dell’oppressione delle classi subalterne: una contraddizione rimasta irrisolta e rimossa, la cui soluzione veniva implicitamente rinviata al futuro cambio di sistema (“a profetismo dogmatico, volontarismo romantico”, commenta sarcasticamente Accornero) . L’ideologia del lavoro si inseriva in un progetto storico di emancipazione e progresso realizzato gramscianamente attraverso l’alleanza dei produttori, con il fine di creare un blocco sociale egemone, nascondendo in tal modo la “negatività” del lavoro ed esaltandolo in quanto strumento di realizzazione dell’essenza stessa dell’uomo, in base ad una concezione del lavoro che si potrebbe definire effettivamente “idealistico-naturalistica” . Come ha osservato Accornero, nell’ideologia socialista e comunista il lavoro come “valore” precedeva logicamente lo sfruttamento capitalistico che rende il lavoro alienato al lavoratore, così che esso conservava integre le sue potenzialità liberatrici per consentire alla classe subordinata di passare dal “regno della necessità” al “regno della libertà” (quando il lavoro diventa il “primo bisogno della vita stessa” ).
A questa posizione della sinistra storica si è contrapposta una diversa (seppure minoritaria) corrente politico-culturale, alquanto critica dell’idea ortodossa del graduale sviluppo delle forze produttive, visto come la principale via di progresso ostacolata solamente dall’anarchia del mercato e dalla ineguale distribuzione della ricchezza sociale, attorno a cui era stata costruita la “glorificazione socialista del lavoro”, come l’ha definita Accornero. Posizione, a ben vedere, molto vicina all’elevazione del lavoro a “dovere sociale”, che da altro versante faceva la sua apparizione nell’ideologia borghese, che vedeva nel lavoro lo spirito del capitalismo, annunciando la nuova etica del lavoro weberiana, in una comune “deificazione dello sforzo laborioso” .
Si trattava di una diversa visione del lavoro, storicizzata e critica, che era in realtà di Marx stesso, che nelle sue opere fu “assai più attento alla faccia negativa del lavoro – quella salariata, l’unica ben visibile – anch’egli per denunciarne la condizione, ma ancor più per rivelarne l’inestricabile intrinsecità storica con il capitale e con il suo modo di produzione” .
La contraddizione fra il lavoro come fulcro del progetto di emancipazione della classe subordinata e la critica al lavoro alienato insito nel capitalismo industriale del XX secolo sarebbe rimasta irrisolta e celata fintanto che risulterà credibile proprio quel collegamento ideale fra lavoro e liberazione del lavoro che è stato alla base della corrente politico-culturale maggioritaria nella sinistra storica di stampo marxista, fra realtà ed utopia. Ma è una contraddizione che tornerà a manifestarsi in modo dirompente con la fine del taylor-fordismo e con la frammentazione in mille pezzi della classe operaia, che non potrà mai più farsi “classe generale”, tanto da veder decadere il suo profilo ideologico e la stessa missione di fare del proprio lavoro, attraverso la riappropriazione del processo produttivo, il cuore pulsante del progetto storico di emancipazione della classe. D’ora in avanti, spento questo faro, del lavoro risalterà il lato in ombra, quello “negativo” dell’alienazione del lavoro e del depauperamento dell’uomo che lavora, di pari passo alla distruzione della ricchezza socio-politica del ruolo della classe operaia nelle società dell’Occidente capitalistico.
4. Il tema del “rifiuto del lavoro salariato” riappare negli anni Settanta e Ottanta, quasi a segnalare in Italia come altrove l’avvento della società post-fordista. Ne parla Mancini – che prima di essere un giuslavorista era un fine intellettuale del suo tempo - collegando il rifiuto del lavoro produttivo alla “rivolta contro il lavoro” dei giovani, giustificata dalle nefaste conseguenze “del nostro modo di produzione…[che] ci porterà ad abitare un mondo sovraffollato, inquinato, spoglio di risorse”, tanto da poter dire – sono le parole di Federico Mancini - che “progresso vuol dire oggi arresto della crescita, sviluppo zero” . Temi che saranno ripresi e riproposti negli anni successivi da altri intellettuali come Serge Latouche, diventato popolare per la sua teoria, spesso malamente intesa e finanche dileggiata, della “decrescita” .
È in questa fase storica che una minoranza visionaria ma protagonista del cambiamento culturale e ideologico, destinata nel tempo a immedesimarsi nella classe “creativa” di cui parla Paolo Perulli , inizia a pensare al rifiuto del lavoro in termini non astratti ma di vera vita vissuta senza il lavoro, creando spazi liberati dove si potessero sperimentare nuove forme di socialità: un’utopia incarnata dai movimenti giovanili alternativi e dalla cosiddetta “controcultura”, che mettevano in discussione radicalmente il modo di produzione del capitalismo industrialista e la gabbia del lavoro salariato a vita, preparando il terreno, inconsapevolmente, all’ideologia della flessibilità e a nuove categorie di riferimento, come il lavoro creativo, la rivincita dell’individuo sul collettivo e finanche il sogno della “fine del lavoro” come obbligazione sociale. Molte di queste pratiche si diffusero, in Italia e in Europa, durante gli anni Ottanta. Ma sono queste solo alcune delle tendenze profonde nate nella crisi iniziata negli anni Settanta, che hanno lasciato solchi profondi nella cultura del lavoro. Un'altra corrente che ha contribuito a mettere in discussione la società del lavoro deriva dalla critica al paradigma della crescita illimitata di intellettuali come Vandana Shiva ed altri, in una linea di pensiero che si ricollega all’elaborazione primordiale di Marcel Mauss e al pensiero ecologista radicale di autori come Illich, Caillè ed altri, fino al celebre Latouche, citato in precedenza, prendendo le distanze dalla separazione “cartesiana e baconiana” dalla natura determinata dallo sviluppo capitalistico, come scrive Vandana Shiva, che crea nuove gerarchie e una divisione del lavoro in cui l’unico lavoro, o per meglio dire l’unica fatica riconosciuta come produttiva è quella riferibile alla “diseconomia dell’avidità e dell’estrazione”, mentre tutto il resto, dal lavoro delle donne a quello dei contadini, viene considerato “non-lavoro” .
Senza tornare a Lafargue , è possibile rintracciare un filo rosso nella storia del “rifiuto del lavoro”, che collega differenti eventi e lotte politiche a partire dagli anni Sessanta, fino ad arrivare ai movimenti no-global e alle mobilitazioni di Seattle (1999) e Genova (2001): sono fermenti e novità emersi nella crisi del compromesso socialdemocratico e dell’orizzonte disegnato dal “socialismo realizzato di stato” – con la sua esaltazione del lavoro, non dissimile, a ben vedere, nell’ideologia borghese, anzi ancora più rigida - a cui le giovani generazioni guardavano con crescente estraneità (e finanche ostilità).
Ma se si vuol stabilire un momento cruciale sul piano teorico, forse si dovrebbe tornare all’operaismo di Raniero Panzieri e soprattutto di Mario Tronti, il quale riteneva che il rifiuto di produrre rappresentasse la più grande forza che la classe operaia potesse mettere in campo, contestando l’etica del lavoro della sinistra “ortodossa” ed introducendo nel dibattito politico non l’obiettivo di una generica alleanza dei produttori, ma il rifiuto dei lavoratori per la propria condizione materiale e per il proprio lavoro come destino imposto dalla società capitalistica . Da questo punto di vista, l’operaismo, in realtà già con Panzieri e Rieser, portava una critica molto radicale alla visione “apologetica” dello sviluppo tecnico-scientifico, tipica del marxismo tradizionale. La rottura era molto radicale, poiché con la teorizzazione del rifiuto del lavoro veniva superata di fatto un’intera tradizione del movimento operaio storico, in cui, osserva Accornero, al centro c’era un lavoratore “che reclamava il suo ruolo con orgoglio”.
Anche il movimento femminista, durante quegli anni, cominciò ad interrogarsi sulle questioni del lavoro (e del non-lavoro) delle donne. Partendo dall’analisi della condizione femminile e dalla “crisi dei rapporti di genere”, ricollegata alla crisi della società patriarcale, alcune correnti del movimento femminista arrivarono a teorizzare - in risposta alla doppia oppressione, patriarcale e classista, delle donne - il rifiuto del lavoro di cura e domestico come rifiuto del ruolo disconosciuto e invisibile ad esse assegnato per “la riproduzione sociale, la sostenibilità economica del sistema e la sopravvivenza della specie” . La critica al “destino naturale” delle donne e la lotta per il salario diventavano così momenti di critica militante del ruolo femminile, in quanto legato alla duplice obbligazione di lavorare all’interno della produzione capitalistica e fare di sé e del proprio corpo uno strumento di riproduzione. In definitiva, era la contestazione radicale di un sistema in cui tutte le attività e relazioni anche affettive venivano trasformate in lavoro gratuito . Si ricusava, da parte dei movimenti femministi, l’organizzazione sociale che relegava il lavoro di cura nel non-lavoro, considerandolo un’attività naturale delle donne e un impegno gratuito ; ma che ad un’analisi più profonda appariva, non diversamente dal lavoro propriamente detto, come un contributo essenziale al processo di valorizzazione . Negando il salario e trasformando il lavoro domestico in “atto d’amore” si sanciva il ruolo ancillare delle donne nella riproduzione della forza lavoro, tanto da adibirla a “servire fisicamente, emotivamente e sessualmente il lavoratore maschio”. Il rifiuto del lavoro domestico (“completamente naturalizzato e sessualizzato”, per farne un attributo tipicamente femminile) e la stessa rivendicazione del salario, finivano quindi per disvelare la “finzione” che giustificava la trasformazione del lavoro femminile in non-lavoro , con il duplice fine di ghettizzare il lavoro delle donne nella sfera familiare e, come sottolinearono le femministe, in modo tale da liberare “the man from these functions so that he is completely free for direct exploitation” .
Lungi dall’essere isolate in un determinato periodo storico, queste tendenze hanno avuto importanti sviluppi nel mettere in discussione l’artificiosa e forzosa separazione tra la sfera della produzione di merci e la sfera della riproduzione, intesa quest’ultima come “non-lavoro”, quindi, di fatto, proprio per questo sfruttata come “inestimabile fonte di produzione di valore”, come se si trattasse di cose naturali . All’invenzione del lavoratore salariato corrisponderà l’invenzione della famiglia nucleare su cui il capitalismo fordista fin dagli inizi del XX secolo ha costruito la sua fortuna, alla mistificazione del ruolo delle donne l’identificazione del “lavoro” esclusivamente come lavoro salariato: una divisione di carattere sessista che sarà recepita, paradossalmente, anche dal movimento operaio, che accetterà “..the dichotomy of unpaid vs. paid work, as well as that of family vs. market” . Il filone “laburista” della sinistra storica non riuscirà mai a vedere il lavoro nascosto dietro il non-lavoro delle donne: nella sua prospettiva politica c’era soltanto l’operaio salariato, maschio e capo-famiglia, e il lavoro di produzione delle merci, la produzione per il mercato. Non a caso l’art. 29 della Costituzione, votato da tutte le forze politiche cattoliche, socialiste e comuniste nell’Assemblea costituente, definiva la famiglia come “società naturale”, tanto che i rapporti all’interno della famiglia venivano considerati delle obbligazioni naturali “that excludes any contamination woth economic exchanges” . Le donne, in definitiva, rimanevano estranee al progetto di organizzazione della classe e private del potere che agli operai derivava “dal riconoscimento del loro lavoro e del contratto sociale insito nel rapporto salariale”. Sarà anche questo un nodo a lungo irrisolto e una contraddizione rimossa dall’orizzonte della sinistra storica: in realtà, come osserva Joanne Conaghan, una giurista femminista, “the distinction between paid and unpaid labour…is not natural or inevitable but constructed and correspondent with the particular configuration of social and work relations which emerged with industrial capitalism” .
Ma anche il lavoro femminile era destinato a cambiare nel tempo seguendo le trasformazioni sociali, come osserveranno i sociologi attenti alla composizione del lavoro, come Massimo Paci, con riferimento allo sviluppo della società italiana nella “Terza Italia” . Con la crisi del fordismo la separazione fra produzione e riproduzione comincerà a sfumare e dal regime “gender-segregated” si passerà ad una compenetrazione fra lavoro domestico e lavoro produttivo, anche se il lavoro gratuito delle donne resterà sullo sfondo come fonte da un lato di produzione di valore e dall’altro di indiretto auto-finanziamento della famiglia stessa . Saranno proprio i movimenti femministi a segnalare, con la loro nascita, la crisi dell’organizzazione sociale basato sullo “scambio” fra salario maschile e lavoro gratuito delle donne. Tuttavia l’ingresso in massa delle donne nel mercato del lavoro – la loro “fuga” dal lavoro domestico - sarebbe avvenuto paradossalmente proprio nel momento in cui, con la svolta neoliberale, il lavoro salariato iniziava a perdere le caratteristiche di sicurezza e stabilità e si attuava, con la crisi dello stato sociale, un gigantesco disinvestimento nella spesa pubblica per la riproduzione (scuola, sanità, assistenza sociale, ecc.).
Alla ristrutturazione dell’economia globale seguirà la ristrutturazione anche del lavoro riproduttivo, che cambierà ancora una volta il ruolo femminile e la stessa natura del lavoro domestico, superando la vecchia dicotomia e, in parte, collocando nelle relazioni di mercato il lavoro di cura (caregiving), che proprio per questo sarà interessato da grossi processi di svalorizzazione . La fine dell’old gender order non porta l’agognata liberazione delle donne ma ”new forms of subjection and exploitation” : il mercato “diventa la grande madre”, scrive Silvia Federici , nascondendo il carattere “co-dependent” del lavoro produttivo (paid, salariato) e del lavoro riproduttivo (non pagato, unpaid). Non cambia neppure tanto l’ideologia del lavoro, anche perché l’acquisto del lavoro di cura sul mercato non è permesso a tutti, così che la vecchia divisione del lavoro resta ancora in piedi per un’ampia fascia di popolazione femminile, a cui spetta ora il ruolo sempre più diretto e richiesto nella produzione (con salari bassi) e la riproduzione (come lavoro gratuito) producendosi una netta distinzione di classe ed anche culturale con i ceti più benestanti .
Ma lo “strabismo” non sarà un deficit visivo soltanto del movimento operaio, contagiando anche il diritto del lavoro, riproponendo inerzialmente ed in modo sempre meno credibile “the paid work paradigm of current labour law”, così trascurando completamente il lavoro gratuito di riproduzione, per quanto sia sempre più evidente, come scrive Joanne Conaghan, che “the current conception of labour which underpins labour law is historically contrived and not universally prescribed” .
Dal pensiero femminista – che ha messo in discussione la concezione del lavoro e la teoria economica classica, ponendo interrogativi importanti su quali siano le attività che meritano un reddito – nasce dunque la consapevolezza del salario come spartiacque artificioso tra lavoro e non lavoro, potere e mancanza di potere . Tale riflessione è innaturale e forse urticante per la tradizionale visione laburista, anche di stampo marxista, che ha sempre considerato il lavoro delle donne come non-lavoro, inerente alla sua natura, e quando si è posto il problema del risarcimento delle donne e del riconoscimento della “parità” lo ha sempre fatto nell’ottica dell’inserimento nei rapporti di produzione, come “diritto al lavoro”, e non piuttosto come riconoscimento che il non-lavoro delle donne è in realtà a tutti gli effetti un’attività per la riproduzione che crea valore ed anzi essenziale proprio nell’ambito di quei rapporti economici da cui le donne sono state escluse per tanto tempo .
5. Come hanno notato alcuni studiosi, con la crisi del vecchio modello sociale fordista e industrialista il lavoro invisibile e non riconosciuto “è uscito dalla dinamica domestica affermandosi con prepotenza all’intero sistema economico”. Proprio nei processi di digitalizzazione e frammentazione del lavoro si insinuano le più svariate forme di gratuità del lavoro: “la gratuità rimanda alla vita messa al lavoro, al lavoro non riconosciuto della vita” , estendendosi a tutta la società “l’appropriazione gratuita da parte dell’economia di competenze maturate in ambito extra-lavorativo” . Si spezza, in modo sempre più netto, il rapporto fra occupazione e salario, fra tempo libero e tempo di lavoro, fra lavoro e non-lavoro, anche se il paradigma del lavoro salariato resta ancora, paradossalmente, il modello politico-giuridico del diritto del lavoro.
L’influenza della rivoluzione tecnologica, dell’avvento del capitalismo delle piattaforme e dell’intelligenza artificiale nella produzione e nei servizi, del “comando” algoritmico sul lavoro vivo lungo tutta la catena di produzione di valore, ha un impatto straordinario e performante, cambiando totalmente la natura stessa del lavoro e i confini con il tempo libero, inteso come non-lavoro: se da un lato il lavoro non garantisce più un’occupazione stabile e adeguatamente retribuita, dall’altro la produzione di valore tracima al di fuori del lavoro ed invade il tempo di non-lavoro, tanto da potersi parlare effettivamente di “lavoro gratuito”, basato sull’appropriazione dei dati e delle informazioni come sostiene Zuboff , che non è un processo molto diverso da ciò che accade nella produzione materiale, se le informazioni sono la “nuova merce” del capitalismo digitale. Di fatto, la creazione di valore si trasferisce dall’uomo alla macchina algoritmica, che incorpora il lavoro vivo, tanto da ridurre il valore del lavoro stesso, che quasi scompare. Ma il punto cruciale pare essere non tanto l’assorbimento da parte delle macchine delle funzioni e delle prestazioni svolte dal lavoratore, ossia la riduzione del lavoro necessario, quanto il cambiamento che riguarda le fonti del valore, ossia la sconnessione, come ha chiarito Castel, della produzione di valore dal lavoro classicamente inteso. L’estrazione di valore avviene oggi, grazie alla connessione quasi permanente in rete, sia nel tempo di lavoro che durante il tempo di non lavoro, direttamente “dagli atti della vita quotidiana” : la produzione capitalistica non si limita più ad estrarre valore dal lavoro salariato o dal lavoro contrattualizzato, “ma si estende in maniera crescente anche al consumo e al tempo libero, fino a trasformare in tempo di lavoro qualsiasi ritaglio di tempo vitale” . Da qui il passaggio, sottolineato da Christian Marazzi, di quote sempre più consistenti di attività lavorativa dalla sfera della produzione (dove veniva assicurata dal lavoro salariato) alla sfera del consumo e nel tempo di non-lavoro, dove si forma la nuova figura del “lavoratore inconsapevole” o lavoratore “a sua insaputa”, che produce mentre consuma o che partecipa attivamente ma inconsapevolmente alla produzione di ciò di cui si serve. Si tratta di uno sforzo produttivo ulteriore e non remunerato, sia che avvenga come attività distolta dalla produzione e messa sulle spalle del consumatore (come avviene ad esempio tutte le volte in cui viene richiesto al consumatore di svolgere parte dell’attività precedentemente inserita nell’organizzazione del lavoro) sia nel senso della valorizzazione di tutte le informazioni fornite dall’utente, ignaro produttore di valore per il capitale, nel momento in cui è connesso alla rete . L’estrazione di valore si estende così a tutti gli ambiti della vita, è la vita stessa a essere messa al lavoro.
Alla captazione del valore dalla vita stessa, dalla “folla indistinta”, si aggiunge la gig economy, l’economia dei lavoretti e la precarizzazione estesa dei lavori, a tal punto estesa da determinare svalorizzazione e finanche annientamento della relazione salariale. La stessa fascia dei lavoratori marginali che costituiscono l’esercito dei woorkig poors può dirsi vittima della gratuità del lavoro, nella misura in cui al differenziale rispetto al salario adeguato corrisponde una quota di lavoro non pagata e offerta gratuitamente: “tutto ciò che non è dato al salariato è dato gratuitamente” . Insomma fra salario, lavoro e non-lavoro c’è una relazione molto complessa che continua a svilupparsi anche nell’era algoritmica e nel lavoro digitale. Non dunque “fine del lavoro”, che vorrebbe dire identificare la caratteristica distintiva del lavoro (creare valore economico) con una particolare forma di lavoro, ma al contrario estensione del lavoro vivo in tutti gli ambiti dell’esistenza: sempre meno lavoro salariato, sempre più lavoro invisibile e non riconosciuto. Non dimenticando che anche nel lavoro salariato si assiste ad un incunearsi del lavoro gratuito e non riconosciuto, sotto varie forme, dallo sfruttamento lavorativo all’abbattimento degli ambiti separati di lavoro e tempo libero, dallo sconfinamento del lavoro oltre gli obblighi contrattuali alla pervasività delle nuove tecnologie, che si insinuano fra tempo di lavoro e non-lavoro, senza contropartita retributiva. Il lavoro gratuito è lavoro produttivo non pagato a cui si aggiungono le nuove forme di lavoro tramite piattaforma, “una nuova economia che permette contemporaneamente di creare occupazione nella gig economy in cambio della cessione gratuita di dati e quindi di valore” . Fondato sulla stabilità, il lavoro nell’epoca fordista vedeva la rigida definizione dei tempi di lavoro, dei livelli retributivi e della carriera professionale ; la riconfigurazione del lavoro nel post-fordismo crea un lavoro in cui prevale la destrutturazione temporale, la scomposizione dei tempi di vita e di lavoro e la loro continua sovrapposizione (domestication) . L’evoluzione successiva sembra andare ancora di più nella direzione di uno sviluppo verso forme di lavoro “allargato”. Mobilità e innovazione sono le principali richieste del capitalismo globalizzato, che vuol dire anche aumento del rischio, indeterminatezza e individualizzazione del lavoro, tanto da far crescere l’insicurezza , e naturalmente lavoro gratuito, messa al lavoro della vita stessa.
In un contesto di crescita delle disuguaglianze , la crisi del lavoro sembra rappresentare, come sostiene Marazzi , una nemesi per il capitalismo occidentale, che ha distrutto la classe operaia fordista ma con un effetto boomerang per la sua stessa sopravvivenza e sviluppo, ritrovandosi ora nella difficoltà di contraddire obiettivi che farebbero il suo stesso interesse, come sarebbe una più equa distribuzione della ricchezza. Attraverso la “desalarizzazione”, la “decontrattualizzazione” e le misure capillari di precarizzazione del lavoro, si dissolve la possibilità di integrare la classe subordinata nel circuito economico. Resta da capire a questo punto come ricostruire la condizione di corrispettività rispetto alla disponibilità al lavoro, senza tornare anacronisticamente al rapporto salariale “fordista” in una società oramai “post-salariale”. E’ il grande tema ineludibile del reddito di base, su cui si dovrebbe aprire un confronto aperto e propositivo anche nell’ambito giuslavorista, impegnato invece sulla questione del salario minimo, che, per quanto rilevante e positiva, è una risposta ancora nell’ottica del giusto rapporto lavoro-salario.
Il capitalismo delle piattaforme ha completamente soggiogato il lavoro distruggendo il rapporto salariale per ragioni collegate alla natura stessa della prestazione richiesta al lavoratore digitale. La frammentazione tipologica, la temporaneità dell’impiego e le altre forme di lavoro precario contribuiscono anch’esse all’istituzione della società post-salariale. Il salario è sempre meno collegabile alla carriera, all’anzianità di servizio e alla acquisizione di professionalità, è sovradeterminato da limitazioni temporali che non consentono l’ascesa professionale, oppure svincolato da fonti eteronome e liberamente pattuito nella fase genetica del contratto di lavoro non subordinato, o ancora dipendente dalle occasioni di lavoro, dalle singole somministrazioni di lavoro a favore di terzi, con contenuti contrattuali incerti destinati a concretizzarsi in base alle caratteristiche dell’azienda utilizzatrice, quando non collegato, come nel lavoro irregolare, ad una relazione salariale addirittura invisibile e inconoscibile. Tornando alle “grandi dimissioni”, si potrebbe dire, come sostengono alcuni, che esse trovino la loro reale spiegazione come fenomeno nel fatto che oggi “la disutilità di un’ulteriore unità di prestazione lavorativa non è più pareggiata dall’utilità che è possibile ricavare dal reddito addizionale” , ossia alla “produttività marginale”, ma per il lavoratore.
Dalla precarietà e dalla dissoluzione dell’impiego stabile deriva una rottura profonda, uno “scivolare dal piedistallo”, come ha osservato con espressione immaginifica Accornero. La relazione lavoro-identità, già messa in crisi dalla fine del fordismo, sembra svanire completamente nella società consumeristica, dove la ricerca di un’identità sociale avviene “attraverso le scorciatoie del non- lavoro” e la stessa produzione di valore si realizza in una sfera che è al di fuori del lavoro in senso proprio, che Gorz ha definito tempo libero alienato . L’impossibilità di identificarsi nel lavoro getta le persone in un mondo nel quale “la scala dei valori si sconnette dalla scala dei lavori”: il lavoro cessa di essere fonte di legittimazione sociale . Ma questa sconnessione, questo offuscamento dell’identità, non è senza conseguenze anche sulla scala dei desideri e della scelta fra lavoro e non-lavoro, tanto più che è venuta meno anche la promessa di fondare sul lavoro l’identità collettiva .
Sono cambiate completamente le coordinate di riferimento e la natura stessa del rapporto fra lavoro e cittadinanza, come ci ha insegnato Romagnoli , il dovere di lavorare è rimasto senza un corrispettivo e si assiste ad un cambiamento fondamentale, “alla riduzione dell’inclusione sociale a inclusione nel mercato”, distruggendo il vecchio patto di cittadinanza. Allo svanire del compromesso keynesiano si sono dissolti, come per una sopravvenuta mancanza di “realismo”, anche nozioni e concetti come quello del “dovere di lavorare”, inteso come dovere da parte del singolo di non sottrarsi alla “attivazione”, per la mobilitazione delle energie di lavoro socialmente necessarie. Il tormentato sviluppo della società dell’informazione sembra ora fare un salto in avanti, nel senso della scomposizione del rapporto lavoro-non lavoro in tutti gli ambiti della vita, trasformandola in una scacchiera su cui ogni mossa produce valore e creando un sovrapporsi apparentemente caotico di tempo libero e tempo di lavoro, di gratuità e redditività, di dono e appropriazione.
6. Ma che fine fa il lavoro come obbligazione sociale? In realtà si tornerà a parlare di “dovere di lavorare” recentemente con l’entrata in vigore del reddito di cittadinanza, dando l’impressione, in verità, di una reazione irrazionale alla crisi del lavoro e, per altro verso, di un’opposizione ideologica alla disconnessione della tutela del reddito della classe subordinata dal lavoro. Il reddito è sembrato realmente “fumo negli occhi” per l’esasperato produttivismo dell’era neoliberale e, al tempo stesso, ostico per la mentalità della sinistra italiana e del sindacalismo confederale, in cui il mito del lavoro è ancora largamente presente.
Concretizzare l’antica aspirazione allo ius existentiae indipendentemente dal lavoro, è alla base invece della più radicale corrente di pensiero che fa riferimento a Van Paris e Vanderborght, a Bronzini e Fumagalli . Il tema del reddito diventa così uno dei terreni che consentono di ricomporre le figure sociali frammentate, senza confondere il reddito di base incondizionato con le politiche attive del lavoro tipiche dei sistemi di workfare . La critica sociale sottesa a queste teorie ha come punto centrale l’ineludibile passaggio ad una diversa fase dei rapporti di produzione, in cui il reddito garantito è (anche) remunerazione del lavoro che si nasconde nel non-lavoro, nella creazione di valore con modalità spesso non visibili, coinvolgendo la vita stessa nella sua essenza e dissolvendo i luoghi di lavoro e il perimetro tradizionale dell’orario lavorativo
Ma la riforma, per quanto avesse un evidente fondamento costituzionale e nelle Carte dei diritti , ha resistito poco tempo alle tendenze regressive e all’insofferenza di molte forze politiche. Il D.L. n. 4/2019 è stato abrogato dal governo Meloni e sostituito con due distinte misure: l’assegno di inclusione e il cosiddetto “supporto” per la formazione e il lavoro, rispettivamente per gli “occupabili” e i “non occupabili” a vario titolo inabili al lavoro (l. 4 maggio 2023 n. 48). Niente reddito per chi può lavorare, anche se non lavora (o è da considerarsi diversamente al lavoro, come le donne e tutti quelli che svolgono un’attività di produzione di valore al di fuori dello schema del lavoro salariato). L’ostilità ideologica verso la possibilità di utilizzare il reddito come strumento per sottrarsi al lavoro non è stata del resto mai superata. In bilico fra workfare e welfare, la stessa disciplina del reddito di cittadinanza mirava fondamentalmente all’attivazione ed a realizzare il “dovere di lavorare” più di quanto sia dato evincere dalla violentissima campagna scatenata contro la misura del reddito. Lo dimostrano, come si è già accennato, le disposizioni che condizionavano il reddito alla “dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro” da parte di tutti i componenti del nucleo familiare, l’obbligo di adesione ad un percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo e di sottoscrizione del cosiddetto “patto per il lavoro”. La ricerca attiva del lavoro costituiva in quest’ottica la reale contropartita del reddito, insieme all’immediata disponibilità e ai percorsi personalizzati di inserimento al lavoro, con l’obbligo del beneficiario di partecipare ai progetti “utili alla collettività” dei Comuni.
E’ stata una breve parentesi, che tuttavia aveva fatto sperare in un cambio di paradigma da parte della legislazione, se non altro disincentivando proposte lavorative “indecenti”, non rispettose di condizioni di lavoro costituzionalmente legittime: vale a dire che legittimava a certe condizioni il non-lavoro, la scelta di sottrarsi al dovere di lavorare. In realtà già il governo Draghi, in due tornate – una prima volta con la legge di bilancio 2022 e una seconda con la legge di bilancio 2023 - aveva introdotto misure restrittive, proprio nell’ottica di impedire la sottrazione all’obbligazione di lavorare (riducendo prima da tre a due le offerte di lavoro congrue, poi prevedendo che il rifiuto anche solo di una offerta di lavoro congrua dovesse comportare la decadenza dal reddito).
Soltanto come provvedimento eccezionale e temporaneo è stato concepibile nell’ordinamento italiano scollegare il reddito dal dovere di lavorare, come è avvenuto nel periodo del Covid con le misure di sostegno al reddito (denominato come “reddito di emergenza”) ai sensi dell’art. 82 D.L. n. 34/2020.
Le misure poi approvate dal Governo Meloni (l’assegno di inclusione e del cosiddetto supporto alla formazione ) sembrano dirette, come osserva Alessandro Somma, a “punire coloro i quali si reputa abusino delle misure di sostegno alla povertà, ovvero che si accontentano delle limitate risorse messe a disposizione dei pubblici poteri pur di non impegnarsi nella ricerca di un’occupazione”; la logica è che il diritto va collegato alla meritevolezza del soggetto, introducendo una vera e propria “moralizzazione del discorso dui poveri”, con una “esaltazione dello Stato attivatore nella sua essenza di dispositivo punitivo, o se si preferisce abilitante nella misura in cui si caratterizza per il ricorso a modalità coercitive di inserimento lavorativo” . Fino al punto di consentire allo Stato di ingerirsi nell’utilizzo fatto dal singolo dell’assegno ricevuto, onde verificare se le spese effettuate sono coerenti con le finalità ammesse, collegando il sostegno all’approvazione del comportamento individuale del singolo .
In definitiva, la cultura neoliberale di governo è stata costantemente ispirata dal principio di corrispettività fra benefici concessi e comportamenti individuali, considerando il non-lavoro una sorta di stigma, di condizione non innocua per l’ordine sociale, fino ad escludere permanentemente da qualsiasi sostegno non soltanto chi si sottrae volontariamente al lavoro, ma anche chi, pur essendo “occupabile”, non ricerca (o non trova) un’occupazione, quale che sia. Secondo alcuni, si dimostra qui “la volontà di governare, selezionare, premiare o punire chi non rispetta un prontuario di prescrizioni”, per inseguire il mito “di uno Stato sociale basato sul cittadino operoso, e non sul diritto all’esistenza di tutti e di ciascuno” .
Il reddito, abbiamo detto, non è mai stato accolto con favore in Italia, anzi ha sollevato molte perplessità sia negli schieramenti politici che sindacali. Se si può comprendere l’ostilità delle componenti più conservatrici dello schieramento politico e del mondo intellettuale, meno comprensibile è la freddezza delle componenti più progressiste, forse per l’atavico spirito laburista o come scrive Ferraro per il rimpianto per una mitica “età dell’oro” che le spinge ancora a guardare con ostilità “qualsiasi proposta innovativa che voglia spostare l’asse gravitazionale delle tutele”, per introdurre “sistemi più avanzati di sicurezza sociale” . Si può riprendere, anche se in una chiave diversa, la critica di Riccardo Del Punta ai giuslavoristi “ortodossi”, incapaci di uscire dall’orbita del sistema di tutele novecentesco e non disponibili a “correzioni di rotta” rispetto al “modello antropologico e culturale di riferimento”, costruito attorno ad un lavoratore subordinato (maschio, adulto, nativo) che tendeva a realizzarsi nel lavoro e ad organizzarsi come soggetto nella dimensione collettiva .
In una vasta area trasversale il lavoro salariato resta, per motivi diversi, centrale all’interno delle coordinate culturali giuslavoriste, perdendo di vista la rarefazione della soggettività e la perdita di senso del rapporto lavoro-salario-produzione. E torna a presentarsi il dovere di lavorare, che riappare nelle cronache giuridiche e mediatiche con toni ancora più stringenti ed imperativi di come era stato concepito nel dibattito della Costituente, come dovere di carattere essenzialmente morale, che, peraltro, segue e non precede il diritto al lavoro. Una svolta, fra l’altro, piuttosto anacronistica, in nome dell’obbligazione di produrre e lavorare, proprio mentre il “lavoro” sta morendo.
7. Naturalmente, in linea di principio nessuno ammetterebbe (ed a ragione) che sia consentito a chiunque, anche in età lavorativa ed abile al lavoro, di sottrarsi al dovere di contribuire al progresso della società. Eppure è proprio la società ad indurre le persone a non considerare più il lavoro come una componente necessaria della propria vita e della stessa organizzazione sociale, a rinnegare l’idea stessa del lavoro come elemento ordinatore della società . Da un lato si vorrebbe disciplinare l’esistenza delle persone “in nome del lavoro, della responsabilità e dell’emancipazione” , dall’altro si costruisce un orizzonte in cui l’identità è fondata sul non-lavoro, la produzione di valore avviene al di fuori del lavoro e si sta speditamente andando verso una società “post-salariale”. Il dovere di lavorare si trasforma così in finzione, quasi simulatorio di un comportamento sociale atteso ma non dovuto, con la perdita di senso del “dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” solennemente enunciato dall’art. 4 della Costituzione, visto che, oltre tutto, il lavoro socialmente necessario si realizza e si produce sempre di più al di fuori del lavoro umano come l’abbiamo sempre inteso. Non sembra potersi dire, quindi, che le grandi dimissioni dimostrano addirittura la libertà del lavoratore di scegliersi il datore di lavoro, la sua conquistata maturità e forza contrattuale, contravvenendo ai dati di realtà, alla fenomenologia del lavoro, alla sua estesa precarizzazione e frammentazione, pur con diversa intensità e diffusione .
C’è da chiedersi piuttosto cosa sia accaduto dopo la fine dell’industrialismo e del taylor-fordismo, con la mutazione antropologica che aveva comportato nel lavoro umano e nella figura del lavoratore. La grande promessa della dottrina neoliberale era stata proprio quella di restituire al lavoratore la sua natura di “demiurgo”, come scriveva Gramsci, in cui “la personalità del lavoratore si riflette nell’oggetto creato”; modelli cooperativi, autonomia e coinvolgimento dei lavoratori dovevano esprimersi in tutti i settori e in tutte le attività umane, in modi diversi ma sempre riformulando il lavoro come lavoro creativo ed intelligente, ispirandosi alle teorie partecipative e al mito dell’autorealizzazione, del lavoratore imprenditore di se stesso, idealizzando l’impresa flessibile e sconfessando la forma gerarchica e l’alienazione del lavoro nella grande fabbrica . Ma il grande fallimento della teoria neoliberale del lavoro è che ancora oggi resta irrisolto il problema di come coniugare concettualmente precarizzazione dei rapporti di lavoro e partecipazione, lavoro povero e coinvolgimento dei lavoratori, in definitiva come spiegare che ad una presunta qualità democratica, aperta dell’impresa partecipata, ritenuta da acutissimi giuslavoristi “in pieno rilancio” – tanto da parlare di “adesione consapevole, volontaria e consensuale di persone fidelizzate, che diventano parte integrate di una missione comune” - si associ non il miglioramento ma il peggioramento delle condizioni di lavoro, sotto ogni latitudine .
Dopo aver demolito una certa idea di lavoro, nell’era della precarietà e del lavoro gratuito l’unica ideologia rimasta appare dunque l’ideologia dell’impresa e al mito del lavoro sembra sostituirsi la positività dell’impresa con le nuove mitologie sorte intorno ad essa, come quella sull’impresa “partecipata”. Ma della nuova ideologia si può dire quello che si diceva della vecchia ideologia del lavoro, diventata “solo retorica… che alimenta l’autoinganno” : nell’impresa oggi non c’è più ma meno libertà, meno potere del lavoro vivo nella produzione, il rapporto è sempre più individualizzato e l’assoggettamento alla tecnologia digitale, che introietta la funzione di direzione e comando, è “non solo del lavoro come oggetto ma anche del lavoratore come soggetto” .
La critica al lavoro salariato è insita, come osserva Accornero, nella critica al taylorismo, che con la sua organizzazione scientifica del lavoro aveva messo al centro “il lavoro….asservito, plagiato e sussunto – come diceva Marx – entro un apparato capace di imprigionarlo”. Sganciato dalle rigide regole dello scientific management, il capitalismo neoliberale ha prodotto il lavoratore flessibile di cui parla Sennet ed il suo alter ego del lavoratore precario che Guy Standing considera fuori dal patto di cittadinanza - “vite da scarto” le ha definite Baumann - senza un progetto di emancipazione nel lavoro o fuori dal lavoro. Dopo l’epoca del lavoro inteso più come diritto che come dovere - un diritto non tanto simbolico - siamo passati ad un capitalismo che ha assunto forme diverse, che hanno prodotto “più spesso uno scoraggiamento che non una promozione al lavoro”, come Accornero con il suo acume intravedeva già nel 1980, notando come “fra lavoro e non lavoro si sono in sostanza incuneate mille forme di quasi-lavoro”.
Oggi più che mai abbiamo nuovamente bisogno di realismo nella visione del lavoro e del non-lavoro , per collocarli nel loro tempo reale, nel loro spazio vero e nella crisi odierna di certezze e valori, per tornare ad una critica sociale come critica “pratica” dopo la fine dell’ideologia del lavoro ed il fallimento dell’ideologia dell’impresa. Molti, ancora oggi, si sentono orfani del vessillo del lavoro, del mito e della cultura del lavoro, tanto che l’eclissi del lavoro gli appare come crisi di civiltà, senza vedere che la nostra è già una società post-lavoristica e post-salariale (ed è anche “post-soggetto” ). Viene così messa in discussione la stessa relazione salariale, che o non c’è (come nel lavoro gratuito di cura e nella produzione di valore attraverso le piattaforme digitali, nel lavoro autonomo e nelle diverse aree in cui è disabilitata la funzione protettiva del diritto del lavoro) oppure vive solo in una parte del mondo della produzione, nei settori centrali e più garantiti del mercato del lavoro, mentre si allarga l’area del lavoro precario in cui il salario è disconnesso dalle sue “normali” determinanti (anzianità, tempo pieno di lavoro, professionalità, progressioni di carriera, ecc.) e non garantisce il reddito necessario, spesso acquisito al di fuori del lavoro, grazie alla gig economy.
8. Nella polemica di Riccardo Del Punta nei confronti dell’ortodossia giuslavorista ci sono quindi sacrosante critiche all’immobilismo ideologico, ai riferimenti socio-politici datati, idealizzati e assunti come immodificabili della dottrina più vicina alla visione tradizionale del vecchio movimento operaio, in cui, notava Del Punta, “prevalgono coloriture preoccupate e talora persino nostalgiche . A questa posizione, attaccata all’idea del lavoro come baricentro ineliminabile della società e del modello di tutela , e quindi del sistema giuslavorista, Egli opponeva, accogliendola, una linea “riformista” più duttile, in grado di salvare il nucleo fondante del diritto del lavoro dai venti impetuosi della globalizzazione, adattandolo ai cambiamenti, attraverso, in sostanza, la storicizzazione del diritto del lavoro tutelare e “la combinazione di libertà (sostanziale) ed eguaglianza di opportunità” . Tuttavia, in questo modo alla crisi del “lavoro” (come soggetto e come ideologia) si dava una risposta elusiva dei nodi giganteschi e dei problemi dell’economia globalizzata, della sua conclamata crisi (crisi “di sistema”), e si dimenticavano, eliminandole dal campo del possibile e dello sperimentabile, altre visioni della crisi e altre prospettive normative, meno “permeabili” . Per dirla con il linguaggio preferito da Riccardo, la trama delle premesse epistemologiche ed ontologiche restava la stessa: chiusa una crisi se ne apriva un’altra più grande ancora.
Quanto al lavoro, all’avvento della società post-industriale non è seguita la progettazione di una tutela estesa ed uguale per tutte le forme di lavoro instabile, frammentato, temporaneo, intermittente, ibrido, ma piuttosto la centralità dei problemi del mercato e della gestione efficiente dell’impresa come dimensione essenziale della regolazione, immaginando idealisticamente “una progressiva riconciliazione fra un diritto ancora votato alla tutela, ma sulla base di logiche nuove, e le esigenze del sistema economico” . Posta in questo modo la questione della crisi del diritto del lavoro dell’epoca keynesiana, il cambio di paradigma delle tutele del lavoro sul mercato, di cui tanto si è parlato, non poteva esserci, innanzitutto per la non comprensione da parte del diritto vigente e dei suoi interpreti del lavoro nella società post-industriale del XXI secolo, del rapporto fra sfera del lavoro e sfera del non-lavoro, come pure dei caratteri reali della relazione salariale nel sistema del lavoro precario. I meccanismi socio-economici che producono la svalorizzazione del lavoro non sono indipendenti dal diritto e per smontarli serviva una riconsiderazione critica del contributo del diritto del lavoro, con i suoi assetti giuridici ed ideologici, al peggioramento delle condizioni della classe subordinata, cosa molto difficile proprio per le posture idealistiche (e narcisistiche, bisogna dire) sopra ricordate, che a prescindere dalla loro verità hanno assunto nella comunità dei giuslavoristi il carattere di una sorta di “autoconvalida” - come spiega (ma in altro contesto) Gregory Bateson il formarsi di convinzioni profonde su presupposti empirici e fattuali molto fragili.
Come si è cercato di dimostrare in questo saggio, andrebbero completamente ridiscussi i “confini” delle attività che giustificano ed anzi esigono un reddito garantito. Per quanto non si possa qui approfondire, andrebbe ripreso e portato fino in fondo il discorso sul fondamento costituzionale del superamento del lavoro salariato come ambito di tutela esclusivo o privilegiato, prendendo atto della crisi irreversibile e definitiva della subordinazione : suggerimento che peraltro è ben lungi dall’essere seguito e assecondato dalla politica del diritto egemone, oggi come ieri. La prospettiva di estendere le tutele soffre del resto di un gradualismo selettivo anacronistico e riduttivo, stante la poliedricità del lavoro nella società dell’informazione, che si articola in un linguaggio comune e si presenta oggi veramente “come forza produttiva posseduta dal capitale per natura”, come preconizzava Marx, almeno in questo illuminante.
Anche i nuovi modelli culturali recepiti dal discorso giuridico avrebbero bisogno di essere sezionati, analizzati e confrontati con il rigore della ricerca empirica, non diventare una nuova premessa epistemologica astratta e speculativa. La “sostenibilità” – entrata nel gergo consuetudinario anche del discorso giuridico – sembra oggi diventare, nel deserto di proposte alternative di “governo” della crisi, la nuova ideologia sostitutiva e surrogatoria dopo il prosciugarsi delle risorse dei suoi precursori, il lavoro e l’impresa, e farsi strumento di approvazione e conferma di un sistema che resta uguale a se stesso, senza mettere in discussione la contraddittorietà dello sviluppo sostenibile, semplice aggettivazione di uno sviluppo “inceppato” incapace di produrre redistribuzione e benessere ma solo crescita disuguale . Con la crisi profonda che attanaglia il sistema capitalistico globale assume tratti irrealistici e va trasformandosi in mere politiche di aggiustamento (come nel caso del PNRR) che tendono a normalizzare il discorso sulla sostenibilità, perdendo ogni capacità trasformativa . Ancora una volta, l’ideologia dominante economicista si appropria di concetto emancipativi per perpetuare lo status quo. Siamo ovviamente lontanissimi dal discorso di Marcuse, ossia dal tentativo, oggi del tutto ignorato, di guardare agli spazi naturali e all’ambiente per modellare realtà diverse da quelle dominate dalla razionalità tecnologica, indirizzando la progettualità “verso una mera riduzione del numero e dell’intensità delle esternalità negative del modello di sviluppo” . Tanto che al tema della sostenibilità non è corrisposta un’evoluzione reale e politica, né sul piano ambientale né sociale, anzi si può dire che essa sia stata assorbita negli schemi economici e produttivi, nascondendo e mistificando i quesiti radicali posti dal cambio di paradigma, in nome di una teoria conservativa di un modello di capitalismo che sopravvive consumando tutte le risorse, ambientali ed umane, addirittura mercificando la stessa sostenibilità come un brand di successo e consumistico .
Quanto al diritto del lavoro, non sembra ancora uscito dall’ideologia della transizione “da un’epoca nella quale ci si era potuti concentrare sulla redistribuzione, a una in cui si doveva tornare ad occuparsi della crescita” , ora rilanciata in una sua poco credibile versione “sostenibile”, senza fare i conti con il suo più pesante fardello ideologico, rappresentato dalla “naturalizzazione” e universalizzazione del modello di sviluppo presente, rifiutando di storicizzarlo e relativizzarlo. Mi sembra questo il punto debole dei pur importanti tentativi revisionisti dei fondamentali del diritto del lavoro , contribuendo così indirettamente a rilegittimare, per quanto possibile, un sistema insostenibile, in nome paradossalmente della “sostenibilità”.
Preferibilmente la discussione andrebbe focalizzata sulle azioni possibili e necessarie e, fra l’altro, sul problema del potere, sulla disuguaglianza e la miseria prodotte dal diritto neoliberale e su tutte le altre questioni – come il reddito universale ed incondizionato – che appaiono oggi cruciali per difendere la società dal “cybercapitalismo”, che assume sempre più le forme simulatorie di capitalismo woke . Manca all’appello, nella discussione sul futuro del diritto del lavoro, la linea critica, non identificabile con la difesa delle posizioni conquistate durante gli anni d’oro, ma rimasta minoritaria, che ha mosso obiezioni fondate al “dogma della crescita accelerata”, in nome del quale si è prima “sacralizzata” la società industriale e ora la tecnologia digitale e l’intelligenza artificiale, rinunciando “al valore etico per il valore della tecnica” . E’ una linea di pensiero risalente ma poco considerata anche dalla sinistra giuridica, che aveva compreso per tempo la minaccia tecnocratica e i pericoli insiti nella “fede utilitaristica”, come l’ha definita Ivan Illich, non riconoscendosi nel modello socialdemocratico della vecchia sinistra e men che meno nel socialismo realizzato di stato, ma assente nel dibattito giuslavorista, forse ingiustificatamente, tenendo conto delle radicali critiche che provengono anche dal mondo cattolico e dalle sue voci più alte al modello sociale ed economico occidentale, delle speranze di cambiamento delle giovani generazioni, per quanto frustrate.
La trasformazione del lavoro in lavoro “sociale” non identificabile nel vecchio regime della fabbrica fordista – dove, per riprendere una celebre espressione marxiana, “l’ordine del capitalista sul luogo di produzione diventa indispensabile come l’ordine del generale sul campo di battaglia” – si è risolta nel rimescolamento di lavoro salariato e lavoro gratuito, di lavoro e non-lavoro, ma non ha visto in campo (se non molto timidamente) la critica giuslavorista per proporre i necessari antidoti per difendere la classe precaria. Per quanto si manifestino tendenze all’allargamento della protezione, parlare di reddito sganciato dal lavoro è ancora tabù e la costituzione resta costituzione del lavoro, cioè del rapporto di lavoro salariato, che rappresenta oramai solo un pezzo del contesto globale da cui si estrae valore. Se lo schema “laburista” è stato sicuramente centrale nella storia italiana e nella stessa costituzionalizzazione repubblicana, non si può negare che la disintegrazione della società del lavoro e della sua soggettività lo ha completamente ripudiato e demolito. Certo, oggi nessuno disconosce la crisi del lavoro, ma assenti sono le condizioni culturali ed ideali per aprire una nuova stagione “tutelare” di cui pure si avverte la necessità – per i nuovi lavori come per l’apparente “non-lavoro” – come si è visto emblematicamente nella triste vicenda italiana del “reddito”, sparito dal dibattito pubblico. “Lavoro” e “classe” sono scomparsi insieme, ma per il diritto del lavoro sembra svanire solo quest’ultima, tanto da potersi dire che oggi la costituzione materiale del lavoro non è più, molto nettamente, in accordo con la sua costituzione formale, giacché la realtà della produzione di valore – da cui nascono rapporti di potere che hanno valenza estesa nel mondo globalizzato – non dipende più dalla relazione di lavoro salariato assorbendola in una dimensione più ampia. Ma ciò nonostante, la prima, la costituzione materiale, continua ad essere non “codificata”, fuori dal quadro prospettico interposto fra il diritto del lavoro e il suo oggetto.