TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa. - 2. La perdurante ragione della mancata attuazione dell’art. 39 Cost. - 3. Il problema del concorso-conflitto tra contratti applicabili nel medesimo ambito. -4. I contenuti della proposta del TU del 2014 non risolvono il problema del dumping contrattuale. - 5. La premessa necessaria della misurazione della rappresentanza di entrambe le parti. -6. Cosa può dire la legge di riforma costituzionale. - 7. I commi 2 e 3 dell’art. 39.
1. Ho molto apprezzato entrambe le relazioni ma, per una questione di tempo, vorrei concentrarmi su un aspetto affrontato in quella Pier Antonio Varesi: la mancata attuazione dell’art. 39 Cost. e i suoi effetti sul sistema delle relazioni sindacali.
Come lui scrive, la mancata attuazione del sistema elaborato dal legislatore costituente per garantire l’efficacia generale del contratto collettivo nazionale è un fatto ormai da tutti accettato. Questo fatto, però, come vedremo, non è affatto privo di conseguenze nell’attuale panorama economico/sociale.
Varesi ricorda che a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge n. 1027 del 1960 e dell’accantonamento della proposta del CNEL del 1960 per attuare l’art. 39 Cost., da lui analizzata nel dettaglio, si è aperta una fase di “stallo” legislativo in materia sindacale . In Parlamento, osserva ancora Varesi, non è emerso il consenso necessario per l’attuazione dell’art. 39, Cost., non essendosi mai formate maggioranze favorevoli alla modifica di tale norma; e in ogni caso non potevano essere adottate leggi ordinarie che si allontanassero dallo schema tracciato dal Costituente. Come ricorda Varesi, l’art. 39 Cost. ha comunque esercitato un particolare tipo di efficacia: “quella impeditiva di una legislazione difforme” . Ricorda ancora Varesi che solo negli anni ottanta il tema è ripreso nella proposta di riforma costituzionale elaborata dalla c.d. Commissione bicamerale Bozzi. La Commissione, istituita nel 1983, opera per poco più di un anno e conclude i lavori presentando una relazione conclusiva il 29 gennaio 1985 contenente anche (timide) proposte di modifica della norma costituzionale. Le successive leggi o proposte di riforma della Carta costituzionale, ivi compresa quella ultima del 2016 Boschi/Renzi, non hanno più preso in considerazione modifiche all’art. 39 Cost.
2. Come osserva Ichino, in riferimento a questi anni , il sistema italiano di relazioni industriali mostra ancora con evidenza le cicatrici prodotte dal fallimento del processo di unificazione sindacale avviato nel c.d. “autunno caldo”. Ma è sulla mancata attuazione dell’art. 39 Cost. che lo stesso Ichino mette a fuoco l’effetto negativo della norma che, per come è scritta, non consente l’attribuzione dell’efficacia erga omnes neppure al contratto sottoscritto dalle confederazioni sindacali maggiori in modo unitario.
La norma nasce con un difetto o, meglio, con una contraddizione interna: l’articolo 39, comma 4 della Costituzione ancora troppo legato alla cultura corporativa, prevede soltanto una contrattazione di livello nazionale ad opera di un «parlamentino» composto in proporzione al numero degli iscritti a ciascuna associazione sindacale operante nel settore interessato. Nel disegno costituzionale, dunque, l’efficacia generale del contratto collettivo presuppone la predeterminazione per legge del «settore» o «categoria sindacale» cui il contratto si applica. Questa previsione, tuttavia, confligge con il primo comma dello stesso articolo 39, che sancisce la libertà sindacale, così riservando al libero gioco dell’associazione il compito di definire l’ambito di applicazione del contratto di volta in volta stipulato e, dunque, consentendo che la geometria dei settori contrattuali vari in conseguenza di quel libero gioco.
In altre parole: a norma del comma 1 la categoria sindacale non preesiste al contratto collettivo, ma è il contratto collettivo che la determina liberamente, di volta in volta; invece per attuare il comma 4 è necessario precostituire (o “perimetrare” come si direbbe adesso) una categoria a livello nazionale in riferimento alla quale una rappresentanza sindacale unitaria composta in proporzione al numero degli iscritti di ciascun sindacato registrato sia abilitata a stipulare il contratto collettivo nazionale con efficacia erga . A differenza del sistema corporativo, nel sistema costituzionale non è più la categoria che preesiste al contratto collettivo ma è il contratto collettivo che preesiste alla categoria e ne determina gli ambiti (Corte cost. n. 70/1963). Non mi sembra che questo problema sia né affrontato né risolto dai progetti di legge per l’attuazione della seconda parte dell’art. 39 più recenti: né da quello presentato dalla CGIL nella “Carta del lavoro”; né da quello proposto dalla rivista “Diritti lavori mercati” .
3. Grazie a questa aporia costituzionale, e al principio di libertà sindacale che nessuno intende ovviamente mettere in discussione, siamo così giunti ad avere 866 contratti collettivi nazionali depositati al CNEL . Il fatto non è irrilevante: se è pur vero che per gran parte questi contratti rispondono a effettive esigenze dei settori di riferimento, ancorché estremamente frammentati, resta il problema del dumping salariale che questa modalità di contrattazione ha generato e che tutti, anche i sindacati dei lavoratori, preferiscono tollerare per paura di mettere in discussione il modello sindacale extralegislativo costruito in questi settantatré anni di inattuazione dell’art. 39 seconda parte: arrivando a considerare quest’ultimo un “baluardo contro i tentativi di limitare la libertà sindacale attraverso la legge ordinaria” . Ma ora che un intervento eteronomo c’è stato – mi riferisco ovviamente all’art. 8 della l. 148 del 2011 - stravolgendo non solo le regole sui rapporti tra legge e contratto collettivo ma anche le regole dei “demandi” negoziali nel rapporto – pretesamente gerarchico - tra contratti collettivi di diverso livello; ora che il tabu dell’efficacia erga omnes del contratto aziendale e territoriale è stato superato grazie alla forza della legge che, con un sano realismo, ha consentito alle parti sindacali di costruire un dritto del lavoro “sartoriale” rispondente alle reali esigenze delle singole imprese; ora che tutto questo è già accaduto, se si vuole davvero ancora riconoscere uno spazio regolatorio/acquisitivo alla contrattazione nazionale, che rischia di essere travolta dai rapporti di forza post pandemia nei quali è estremamente indebolito il ruolo del sindacato, bisogna intervenire sul piano legislativo.
Cosa si può fare? È possibile una riforma a costo zero della Costituzione, approfittando del Governo di larghe intese e del processo attualmente in corso per dare slancio al Paese dopo la pandemia, per far approvare una riforma della Costituzione che preveda l’abolizione del quarto comma dell’art. 39 Cost. o la sua sostituzione con una disposizione che attribuisca alla legge ordinaria il compito di stabilire i presupposti per l’attribuzione al contratto collettivo nazionale di una efficacia generale nel settore per il quale esso è stato stipulato. Per togliere di mezzo quel comma sbagliato, un feticcio che ci impedisce di rispondere con una legge sindacale alle esigenze socio-economiche di una stagione lontana anni luce da quella in cui è stata varata la seconda parte dell’art. 39, occorre una legge costituzionale votata, in seconda lettura, da almeno i due terzi di ciascuna delle Camere. Impresa quasi impossibile si direbbe: ma il contesto politico attuale consente di farlo se le parti sociali, consapevoli delle difficoltà che stanno vivendo dopo la pandemia, lo chiedono unitariamente almeno con vigore pari a quello con cui hanno chiesto e ottenuto le proroghe del blocco dei licenziamenti. Insomma, bisogna approfittare di un’occasione storica, quasi irripetibile, che potrebbe consegnare al sindacato cacciato nell’angolo dalla grave recessione post pandemica l’occasione per garantirsi un nuovo protagonismo grazie a una contrattazione collettiva con efficacia generalizzata, nel rispetto dei principi di democrazia, libertà di associazione e pluralismo sindacale.
È già successo nel 2001 con la riforma dell’art. 117 della Cost. sul riparto di competenze tra Stato e Regioni e nel 2012 con la riforma dell’art. 81 a proposito del pareggio di bilancio.
4. Una volta abolito il comma 4 dell’art. 39, o sostituito nel modo di cui ho sopra detto, si potrebbe recepire attraverso una legge ordinaria il sistema elaborato dalle parti sociali nel T.U. del 2014 sia per la certificazione della rappresentanza minima necessaria per stipulare il contratto collettivo nazionale sia per garantire l’efficacia generale dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da soggetti effettivamente rappresentativi.
Dopo anni di discussioni e di lotte sindacali, a partire dal caso FIAT e dalla rottura dell’unità sindacale già in atto dal 2009, le maggiori confederazioni sindacali e associazioni imprenditoriali si sono dotate, con il “Testo Unico” del 2014, di regole molto ragionevoli ispirate al principio democratico per cui a decidere, in materia contrattuale, deve essere chi rappresenta la maggioranza degli interessati. Onde il contratto collettivo nazionale, per avere efficacia generale, deve essere stipulato da sindacati che accettino di sottoporsi alla misurazione della loro rappresentatività e risultino maggioritari. La parte imprenditoriale, secondo questo “ordinamento intersindacale” non è libera di stipulare con chi vuole, ma si obbliga a stipulare solo con il sindacato o la coalizione sindacale che, nell’ambito della categoria cui il contratto si riferisce, abbia una rappresentatività maggioritaria. Di più: per essere efficace nei confronti di tutta la categoria il contratto collettivo deve essere approvato dai lavoratori mediante un referendum. È quello che è avvenuto quest’anno per il rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici.
Il problema è che oggi questo ordinamento si applica soltanto a chi volontariamente vi si assoggetti, aderendo agli accordi interconfederali da cui è nato il Testo Unico del 2014. Chi lo rifiuta può dunque stipulare contratti collettivi concorrenti, che in molti casi producono un pesante effetto distorsivo sul mercato del lavoro: un vero e proprio dumping contrattuale, reso possibile dall’assenza di una legge che regoli la materia. D’altra parte, come abbiamo visto, una legge ben fatta non può essere emanata per via della norma costituzionale sbagliata: inattuabile, ma che pur inattuata ha il potere di impedire qualsiasi soluzione diversa. Per questo occorre correggerla. E proprio questa stagione politica di “larghe intese” potrebbe essere il più propizio per farlo.
5. Il sistema delle relazioni industriali mostra quindi di aver trovato un modo per rispettare il principio maggioritario sancito nella Costituzione per dare attuazione ed efficacia generale al contratto collettivo, ancorché per via negoziale: e mostra anche di aver saputo risolvere il problema di individuare il soggetto sindacale con cui trattare per evitare che il datore di lavoro possa scegliere il sindacato più gradito. A tal fine il sindacato ha accettato di farsi misurare. Nel Testo Unico sulla rappresentanza del 2014 il criterio elaborato è dato dalla combinazione del dato associativo e del dato elettorale. Ma nulla vieta che una legge futura tenga conto del solo dato associativo, nel caso in cui manchi il dato elettorale, o viceversa, per semplificare la misurazione. Il meccanismo elaborato dalle parti sociali rafforza l’unità di azione sindacale dando vita a un sindacato autorevole che contratta sulla base di regole condivise. Nel 2018, con il c.d. Patto per la fabbrica, questo percorso è stato rafforzato con la proposta di misurazione della rappresentanza anche di parte datoriale.
Il problema ancora non risolto, perché di fatto non è risolvibile, è quello della definizione dei perimetri categoriali cui il contratto collettivo si riferisce, la cui soluzione è affidata dal c.d Patto per la fabbrica del 2018 al CNEL al fine di «garantire una più stretta relazione fra CCNL e reale attività dell'impresa» (v. punto 4 del Patto del 2018) e per contrastare la proliferazione di contratti collettivi per il medesimo ambito o perimetro contrattuale.
Ci sono tuttavia seri dubbi circa la possibilità che questa perimetrazione venga mai attuata: lo stesso CNEL riconosce il problema della frammentazione contrattuale e riconosce quanto “sia vana la pretesa di predefinire, sia a livello autonomo, sia a livello eteronomo, in modo rigido a monte ampi perimetri settoriali della contrattazione collettiva”.
In ogni caso anche l’eventuale perimetrazione lascerebbe comunque irrisolto il nodo relativo alla delimitazione dell’ambito di applicazione dei contratti collettivi negoziati al di fuori del sistema elaborato dal T.U..
6. Per superare lo stallo si deve sostituire il quarto comma dell’articolo 39 con uno che reciti più o meno così: “La legge stabilisce i requisiti affinché il contratto collettivo sia efficace in tutta la categoria alla quale esso si riferisce”. Si eliminerebbe in questo modo il contrasto con il principio di libertà sindacale sancito dal primo comma: verrebbe infatti ribadito il principio, contenuto implicitamente nel primo comma dell’art. 39, per cui è il contratto collettivo a dar vita alla “categoria sindacale”, e non viceversa. Per attuare questo particolare “demando” ed evitare di lasciare totalmente libero il legislatore di determinare i requisiti dell’efficacia generale del contratto collettivo si potrebbe individuare già nella legge di riforma costituzionale il criterio maggioritario come criterio guida per selezionare le organizzazioni sindacali e datoriali abilitate a conferire al contratto nazionale efficacia erga omnes.
Per garantire il pluralismo sindacale caratteristico del nostro sistema di relazioni industriali e l’esigenza di avvicinare quanto più possibile il contratto collettivo alle caratteristiche particolari di determinate categorie, poi, la legge ordinaria potrebbe recepire le regole contenute nel Testo Unico interconfederale del 2014, precisando che
a) nel caso di conflitto fra due contratti collettivi riferiti alla stessa categoria, si applichi quello le cui associazioni firmatarie su entrambi i lati siano maggiormente rappresentative, secondo i criteri del Testo Unico;
b) nel caso in cui, nell’ambito di una categoria per la quale è stato stipulato un contratto collettivo nazionale con efficacia generale, venga stipulato un nuovo contratto collettivo riferito a una categoria più ristretta, la verifica della maggiore rappresentatività, effettuata sempre secondo i criteri previsti nel Testo Unico, deve essere riferita alle imprese e ai lavoratori appartenenti a quest’area.
Così, per esempio, se accadesse che nel settore del terziario – coperto da un contratto collettivo stipulato da Cgil, Cisl, Uil e Unione del Commercio, sicuramente maggioritarie nel settore – venisse stipulato un contratto collettivo nazionale riferito a un’area più ridotta, quale potrebbe essere quella della sola grande distribuzione, la verifica della maggiore rappresentatività dovrebbe essere effettuata in riferimento a questa “categoria”, individuata dal nuovo contratto.
L’applicazione di questa regola conserverebbe alla contrattazione il potere di individuare caso per caso i confini della categoria o del settore purché a stipulare siano alle associazioni stipulanti maggioritarie opportunamente misurate. E consentirebbe di risolvere un altro problema cruciale: quello dei rinvii – oggi frequentissimi – della legge alla contrattazione collettiva in funzione integrativa o derogatoria. Sono sempre più numerose le norme che abilitano la contrattazione sindacale comparativamente più rappresentativa a disciplinare, anche su delega della legge, aspetti cruciali della disciplina del rapporto di lavoro. È quello che è successo, per esempio, nel recente caso del contratto collettivo nazionale dei ciclofattorini che eseguono consegne a domicilio attraverso piattaforma digitale, dove il contratto stipulato dal sindacato maggiormente rappresentativo in quel settore specifico ha determinato lo standard retributivo minimo sfruttando una possibilità di deroga al criterio generale consentita dalla legge.
Stabilire per legge quale sindacato può negoziare contratti collettivi nazionali abilitati a dettare la disciplina del contratto di lavoro addirittura in modo prevalente rispetto a quella legale renderebbe possibile anche dare piena attuazione alle indicazioni dell’Unione Europea in materia di salario minimo nei settori non coperti dalla contrattazione collettiva (la proposta di direttiva europea sul salario minimo richiede una copertura del 70 per cento della contrattazione collettiva per evitare il ricorso alla legge); alla indicazione della retribuzione, compresi l’importo di base inziale e ogni altro elemento costitutivo della stessa, al più entro una settimana dall’inizio del rapporto di lavoro, e tutte le condizioni di lavoro disciplinate dalla contrattazione collettiva come richiesto dalla a direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell'Unione europea; così come consentirebbe di conoscere in anticipo e con certezza le «condizioni di lavoro e di occupazione» del lavoratore in distacco transnazionale di cui alla direttiva (UE) 2018/957 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 giugno 2018; o ancora l’adozione di un sistema oggettivo affidabile e accessibile che consenta di conoscere la collocazione e la durata della prestazione di ciascun lavoratore o le modalità per la loro variazione; o per esercitare il diritto alla disconnessione come richiesto dalla proposta di direttiva europea, salvaguardando in questo modo il peculiare equilibrio tra legge e contrattazione collettiva, caratteristico del nostro sistema di relazioni industriali.
7. Resta da dire dei commi 2 e 3 dell’art. 39 Cost., altro scoglio su cui si è incagliata l’attuazione della norma. Per l’efficacia erga omnes del contratto collettivo nazionale la norma costituzionale richiede la registrazione del sindacato e l’adozione di statuti interni a base democratica. Per la loro attuazione può essere attribuito al CNEL con legge ordinaria il compito di provvedere alla registrazione e al controllo delle finalità democratiche degli statuti: cosa che, come pure è stato osservato, non dovrebbe spaventare più nessuno. Oppure, come è stato proposto, questo compito può essere demandato a un’apposita commissione che dovrà valutare la mera sussistenza di alcuni presupposti oggettivi. In alternativa, anche questi commi si possono abolire contestualmente alla riscrittura del comma 4.

 

 

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