testo integrale con note e bibliografia

1. In un’opera, giunta alla terza edizione, di impostazione sociologica e di particolare completezza, G. Cavalca, E. Mingione ed E. Pugliese, in Il lavoro. Dalla rivoluzione industriale alla transizione digitale, affrontano la questione dell’attuale transizione del lavoro a partire dalle principali cause che hanno messo in crisi il mondo novecentesco del «lavoro astratto»: la globalizzazione e la rivoluzione digitale. Il libro si articola in nove capitoli, che in genere trattano la materia con un metodo teorico e storico, assai utile alla valutazione dei problemi, e una conclusione: Affermazione e declino del lavoro dell’era industriale, L’evoluzione storica del lavoro, L’organizzazione del lavoro nelle imprese, Il mercato del lavoro e le sue categorie, Sistemi occupazionali e disuguaglianze, La disoccupazione, Sindacato e conflitto, Il lavoro nei sistemi di welfare, Lavoro e migrazioni, Riflessioni conclusive: globalizzazione, digitalizzazione e crisi.
Quanto agli effetti della globalizzazione, gli autori insistono sulla demolizione di tutti i cardini del lavoro della società industriale, costruita sullo scambio fordista tra ubbidienza e stabilità-sicurezza. Ed infatti oggi il mondo del lavoro, non solo dipendente, si presenta, in massima parte, come caratterizzato da eterogeneità, frammentazione e precarietà; diminuzione dei diritti e delle protezioni; indebolimento della rappresentanza; crescita delle disuguaglianze nazionali e internazionali. Tutto questo è prima di tutto una conseguenza della globalizzazione e della cultura neoliberista che l’ha sostenuta, cioè dell’affidamento dello sviluppo sociale al libero gioco del mercato su scala globale, con le delocalizzazioni e le complesse catene del valore (ancorché oggi in presenza di segni importanti di «de-globalizzazione»), che ha ridotto l’occupazione industriale nei paesi più ricchi, compensata dall’incremento di quella nei servizi, e creato una «nuova classe operaia» di centinaia di milioni di persone nei paesi del Sud, poco protetta, poco pagata e senza rappresentanza. E soprattutto, come già ricordato, precarietà, con disparità crescenti di reddito e standard di vita, nei paesi più ricchi. Tutto questo, in una logica di riduzione costante delle regole e tutele del lavoro dipendente, anche per ciò spinto ad accettare salari fortemente contenuti, fino ad una crescita rilevante del “lavoro povero”, ed a forme di rigetto di massa dei lavori svolti (great resignation). Se a questo si aggiunge la crisi demografica dei paesi più ricchi e le pressioni migratorie, che danno vita a un mercato nero del lavoro, spesso gestito dal caporalato, con lavori di netta impronta servile, si capisce la complessità di un quadro che secondo gli autori potrebbe mettere in crisi la stessa «tenuta del patto sociale».
Per quanto riguarda l’altra causa della complessa situazione in cui si trova il lavoro, cioè la digitalizzazione dell’economia, una volta constato che non conduce ad una jobless society, nel libro viene analizzata, come un fattore che di per sé - insieme alla robotica e all’AI - attenua il valore e l’importanza della creatività, problematizza l’autonomia del lavoro dipendente e di quello autonomo, pur determinando un aumento della produttività. Un fattore, cioè, capace di causare, per larghe fasce di lavoro, una separazione tra produttività e qualità (“decenza”, IOL), del lavoro, ovvero processi strutturali di polarizzazione sulla base della professionalità. Contemporaneamente gli autori sottolineano che «i lavoratori più scolarizzati e professionalizzati» danno vita ad una «tensione» conflittuale nei confronti delle forme di controllo e di codificazione con cui la digitalizzazione tende a governare i processi produttivi di tutti i lavori. Uno strato di lavoratori che riesce a sfruttare a proprio vantaggio le «potenzialità di emancipazione» (François Vatin, p. cit., p. 233) della rivoluzione tecnologica. La quale, perciò, contribuisce in modo particolare alla «dualizzazione» del mondo del lavoro in termini di reddito e di valorizzazione della professionalità. Complessivamente, quindi, «l’esito immediato non è la disoccupazione tecnologica di massa, ma la diffusione del lavoro flessibile, precario e disomogeneo e l’aumento incontrollato della disuguaglianze», che lascia «aperta la questione dell’impatto che potranno avere le mobilitazioni per contrastare le disuguaglianze e conferire al lavoro una connotazione equa e sostenibile»; nonché per trovare nel lavoro il «senso profondo dell’impegno e della responsabilità verso la collettività», e verso se stessi, come hanno posto con evidenza le «grandi dimissioni» (Idem, p. 241).

2. Dobbiamo ora chiederci quali siano gli strumenti concettuali che l’analisi sociologica degli autori può offrire ad una volontà che intenda intervenire a favore della condizione del lavoro. Il libro contiene numerosi spunti in questo senso, ed alcuni li abbiamo già rilevati. Vorremmo approfondirne altri a partire dai problemi dell’organizzazione del lavoro e del mercato del lavoro, temi a cui il libro dedica il terzo ed il quarto capitolo, per terminare con la loro lettura alla luce del concetto chiave con cui nel primo capitolo si apre il libro, quello di «lavoro astratto».
Il tema dell’organizzazione del lavoro ruota attorno a due fondamentali questioni: la produttività e la democrazia industriale. Si può aggiungere che i processi produttivi di una impresa sono tanto migliori quanto capaci di conciliare, anche attraverso patti industriali, questi due lati dell’attività. Per quanto riguarda la democrazia industriale, la sua realizzazione non è indifferente alla stessa democrazia della società, perché il non riconoscimento, dei diritti di cittadinanza nei luoghi di lavoro, oltreché avere una incidenza negativa sul senso del lavoro, determina un vulnus nei diritti e nell’identità personale di chi lavora che indebolisce significativamente la democrazia stessa, proiettando l’eterodirezione subita nel lavoro sull’intera esistenza del lavoratore e sull’organizzazione sociale.
Si tratta della contraddizione posta dal lavoro subalterno che la nostra società vive in maniera crescente sin dall’XI secolo. Quando si constatò che contrattualizzare il lavoro emancipato dalla servitù secondo il modello della locatio operarum (proposta dal riscoperto codice di Giustiniano), sollevava la contraddizione tra la libertà del lavoratore e la subalternità del rapporto di lavoro. Infatti l’organizzazione del libero lavoro locato veniva attuata sulla base del tradizionale paradigma del lavoro servile, inconciliabile con la libertà individuale. Una contraddizione evidenziata e condannata anche da I. Kant nel 1879 (Metafisica dei costumi) e successivamente portata ai suoi estremi dal fordismo che dell’ubbidienza passiva ha fatto l’anima del lavoro industriale.
Interessante è la ricostruzione, attuata dagli autori, del dibattito che il fordismo ha sollevato su questi temi, in particolare la sottolineatura della riscoperta del «fattore umano» (E. Mayo) e l’emergere nel post-fordismo della questione del «controllo» (R. Edwards) – questioni in cui rinveniamo la contraddizioni della sopravvivenza del paradigma del lavoro servile, che i secoli, le rivoluzioni politiche e quelle tecnologiche non sono riuscite a superare, anche se, ovviamente, i termini della questione sono cambiati. Tra questi termini va annoverata la «partecipazione», cioè la forma di democrazia industriale che anche la nostra Costituzione prevede (ancorché inattuata), la quale viene giustamente e ripetutamente citata dagli autori alla luce della rivoluzione digitale. Sinteticamente: la fine della «riduzione delle operazioni produttive al solo aspetto fisico materiale» (come A. Gramsci definisce il fordismo); l’economia della conoscenza e la valorizzazione del capitale intellettuale; quindi la «ricomparsa della persona nel lavoro» (B. Trentin); la cultura manageriale della «deverticalizzazione»; l’esigenza di coinvolgimento e di fidelizzazione all’impresa (anche per ammortizzare i capitali investiti nella formazione); l’affermarsi di forme di lavoro, come lo Smart Working, centrate sugli obiettivi. Insomma l’insieme degli elementi che vanno in direzione di una maggiore «autonomia» (come gli autori riconoscono) nelle attività lavorative, nella manifattura e nel terziario, che tipo di «controllo ammettono»? La direzione sembra andare verso un controllo dei risultati e una maggiore autonomia delle modalità di raggiungerli, da una parte; e di una «algoritmizzazione» degli altri («dualismo» e «segmentazione» del mercato del lavoro), dall’altra. E in questo secondo caso, la digitalizzazione permetterà un controlla capillare di ogni aspetto dell’attività, una sorta di neo-taylorismo? Facendo, così, fare un passo indietro anche alle forme di democrazia industriale e di partecipazione sin qui realizzate, come il Mitbestimmung?
Non è facile rispondere a questo interrogativo, fondamentale non solo per le sorti della democrazia e dell’identità e libertà personali nel lavoro, ma condivido il non pessimismo aprioristico degli autori. Alle loro considerazioni vorrei aggiungere una osservazione, sempre in chiave di partecipazione. Si può notare, infatti, che la digitalizzazione potrebbe anche essere l’occasione di nuove e più avanzate forme di partecipazione anziché di controlli di natura distopica, perché in fondo le macchine, anche quelle più autonome, possono sempre essere costruite e impiegate in maniere alternative. Questo dipende dalla volontà della proprietà e dall’organizzazione dei lavoratori che possono misurarsi in maniera dialettica con la direzione d’impresa. Voglio dire, più precisamente, che per poter controllare il lavoratore formalmente libero, ancorché sottomesso alla persistente cultura del paradigma servile, la macchina digitale deve organizzare, codificare e memorizzare una grande quantità di dati, raccolti, tra l’altro, attraverso una continua «sorveglianza» (S. Zuboff). L’ AI è decisiva in questo processo di predisposizione di tutti gli elementi necessari per controllare e valutare digitalmente in tempo reale il lavoro. Però in questo modo: 1) L’ AI predispone tutti i dati utili anche per una partecipazione. I dati utili al controllo fanno parte di quelli su cui esercitare la partecipazione. È solo un problema di accesso, che nell’economia della conoscenza non può più essere negato in nome di inferiorità culturali. Un accesso da concedere anche per ragioni di diritto: i dati sono in gran parte frutto di una sottrazione, gratuita e in genere incontrollata, di elementi appartenenti alla vita privata del lavoratore, e impiegarli per dirigere e controllare unilateralmente il lavoro rappresenta un’organizzazione peggiore del taylorismo, che almeno dichiarava e otteneva volontariamente dagli operai i dati necessari al loro comando. Negare l’accesso, su cui costruire la partecipazione, è negare al lavoratore il controllo dei dati della propria vita. 2) Il limite delle AI è che esse lavorano per inferenza dai dati posseduti (N. Cristianini), la loro creatività (di tipo statistico) è un fatto di connessione di dati non prodotti dall’AI. Al lavoro viene sempre di più richiesta la capacità di problem solving, di creatività, di innovazione, ed in questo senso il lavoro è in grado di portare nella partecipazione punti di vista diversi e originali.
Riassumendo e avanzando brevemente altre osservazioni circa la digitalizzazione: 1) il tipo di controllo dei risultati cui è portata la digitalizzazione lascia al lavoro spazi nuovi di autonomia nelle attività, ma anche di colonizzazione del tempo di vita; 2) il controllo dei risultati appare differente dal controllo tayloristico: non si controlla, come in questo, il corpo, cioè i momenti fisici del processo per assicurare il risultato, ma non si può neppure controllare la mente con la precisione del corpo; 3) la codificazione e l’archiviazione dei dati tratti dalle attività lavorative possono facilitare la partecipazione, questo può aprire ad una battaglia di tipo nuovo per la democrazia industriale; 4) la raccolta di dati da parte della AI facilita la produttività e questo andrebbe riconosciuto (anche economicamente) anche perché è a disposizione dell’impresa; 5) questa disponibilità, in linea di principio, dei dati rappresenta una forma oggettiva di nuova cooperazione nel lavoro; d’altra parte l’algoritmo può frantumare il lavoro fino ad un caporalato digitale sulla base del lavoro a chiamata; 6) tra lavoratore e macchina si apre un circolo di dati sottratti e impiegati, che richiedono sempre più dati nuovi e più creativi, che rappresenta un pericolo per la salute del lavoratore; 7) questo circolo che accresce la produttività “aumenta” anche le capacità del lavoratore purché la codificazione approntata dalla macchina sia di proprietà del lavoratore e non solo dell’impresa; 8) la possibilità dell’impiego di AI personali, che potrebbe facilitare questo tipo di “aumento”, dovrebbe essere generalizzata; 9) in generale l’organizzazione digitale può facilitare il trattamento del lavoratore come una “cosa” in un calcolo: decisiva la partecipazione anche da questo punto di vista
La realizzazione degli aspetti potenzialmente positivi richiede volontà politica e accortezza produttiva, ma non sono lati alternativi: potrebbero ricongiungersi in vista di un superamento del paradigma servile e la creazione di una partecipazione nel lavoro. L’ alternativa potrebbe essere negativa per la produttività richiesta dal digitale e veramente distopica sul piano della democrazia. Chi fermerebbe il controllo digitale sulla “soglia” del lavoro? Se Norberto Bobbio poneva il problema di una democrazia che si fermava sulla “soglia” della fabbrica, oggi sembra porsi il problema inverso, e maggiormente negativo, di una illibertà che a partire dai luoghi di lavoro si diffonde nella società.

3. Infine il problema, sollevato dagli autori all’inizio del volume, con quale lavoro abbiamo a che fare nelle trasformazioni in atto. Il ragionamento svolto dagli autori rimane coerentemente all’interno della scienza sociale e si confronta, prima di tutto, con la crisi del lavoro uscito dalla rivoluzione industriale settecentesca, il «lavoro astratto». Ma offre anche elementi e pone interrogativi sulle trasformazioni in corso, in particolare alla luce della rivoluzione digitale. La tesi degli autori è la seguente: «Il consolidamento e la diffusione del lavoro astratto mercificato costituiscono il cambiamento sociale più importante prodotto dalla rivoluzione industriale. Come vedremo […] la transizione digitale oggi sta alterando significativamente il lavoro astratto e i confini tra autonomia e dipendenza dei lavoratori […] e questo passaggio potrebbe costituire una nuova transizione del lavoro moderno» (Idem, p. 21). Direi che la questione del superamento del «lavoro astratto» viene lasciata aperta, mentre si sottolinea che questa forma di lavoro, posta al centro della moderna società industriale, è stata il fattore essenziale della sua costruzione.
Il concetto di «lavoro astratto» proposto dagli autori, indipendentemente dalla denominazione di origine marxista, è interessante e viene impiegato in maniera originale, in particolare è un’idea di lavoro di cui essi compiono una parziale difesa sociale. Ma che cos’è, più precisamente, il «lavoro astratto»? Rielaborando idee di K. Marx (in particolare dei Manoscritti economico-filosofici del 1844) e di K. Polanyi (La grande trasformazione), l’astrattezza consiste nella separazione tra l’attività e lo scopo del lavoro, ovvero nell’assenza del controllo del processo produttivo da parte del lavoratore (che garantisce l’identità e l’autonomia del lavoratore), al punto che l’attività e la capacità lavorativa possono essere vendute sul mercato del lavoro come una merce. Mercificazione e astrattezza del lavoro sono connesse ed entrambe prodotte, su larga scala sociale, dalla rivoluzione industriale sulla base del macchinismo e della subordinazione al comando del capitale. Una misura sociale tale da determinare di fatto una nuova classe (il proletariato) e una forma sociale (la società industriale). È evidente, come pensano anche Marx e Polanyi, che questo lavoro, il nuovo lavoro prodotto dalla rivoluzione industriale, rappresenta la trasformazione, attraverso i processi di astrazione ricordati, del lavoro artigianale e di quello autonomo contadino. Quanto alla valutazione positiva del «lavoro astratto», essa coincide con la critica delle trasformazioni intervenute con la globalizzazione che abbiamo ricordato di sopra, le quali hanno messo in crisi e in larga misura demolito le conquiste di stabilità, diritti e sicurezze (parzialmente anche del welfare) conquistate dal «lavoro astratto» nella società industriale anche per la forza contrattuale di questo lavoro. Conquiste che il mondo del lavoro e il sindacato, indeboliti dalla globalizzazione, riescono oggi difficilmente a mantenere.
A partire da questa analisi si pone un’alternativa cui mi sembra difficile sfuggire. Dato che la globalizzazione e la caduta del muro di Berlino (1989) rappresentano, ciascuna a suo modo, la stessa sconfitta storica del «lavoro astratto», o si pensa che possa esistere un’altra e più avanzata forma di lavoro, che possa fuoriuscire dalle trasformazioni in corso, oppure si dovrà ammettere, per la prima volta nella nostra civiltà, l’uscita del lavoro dalla scena, culturale e politica, della storia – cioè l’effettiva fine del lavoro, ovvero la sua riduzione a mero fatto privato. E quindi mettere in conto l’inizio di una nuova civiltà senza lavoro, che ovviamente nessuno ci garantisce possa essere migliore.
Nel libro che stiamo discutendo non ci sono tesi a favore di una fine economica o occupazionale del lavoro, né di una sua scomparsa quale elemento caratteristico della nostra civiltà . A sua volta la discussione pubblica, ancorché spesso in forme poco chiare e animata da interessi determinati, sta parlando molto di lavoro senza prevederne alcuna fine. Tuttavia, la discussione a favore di un nuovo lavoro caratterizzato dall’idea che in esso la «libertà viene prima» (B. Trentin), cioè dal superamento dell’astrattezza connessa all’eterodirezione, tarda ad emergere come sarebbe necessario. In questo senso, al significato sociale del «lavoro astratto», opportunamente sottolineato dagli autori del libro, occorre, mi sembra, associare una riflessione che ricerchi, a partire dalla persona che lavora, l’idea di un lavoro concreto, che non sia una riformulazione del lavoro autonomo contadino o artigianale. E che sfidi l’idea neo-liberista che intende superare il lavoro subordinato in nome di un lavoro che ricava il salario dall’investimento individuale sul proprio capitale umano, in cui, cioè, il salario sarebbe il rendimento di tale investimento, e la subordinazione trasformata in un’autonoma attività capitalistica.
Prima di tutto occorre sottolineare che la grande stagione della socialità del «lavoro astratto», centrata sull’idea di “classe”, a causa dei processi di de-ideologizzazione (A. Accornero) e di «individualizzazione» (U. Beck), non sia oggi più sostenibile. Come non sia sufficiente fermarsi alla soggettivazione individuale dei processi produttivi che richiedono, produttivamente e socialmente, nuove forme di cooperazione tra persone e non tra «lavoratori astratti» unificati dall’omogeneità astratta dei comportamenti di un lavoro ripetitivo e parcellizzato. Occorrono, cioè, forme di «solidarietà delle diversità» (B. Trentin) e di capacità di «vivere insieme, uguali e diversi» (A. Touraine), che aprano a nuove dimensioni sociali oltre il collettivo sociologico e l’individualismo concorrenziale. Ovvero, l’idea di uguaglianza in nome della quale il «lavoro astratto» ha combattuto le iniquità della società industriale non è più proponibile, va integrata con quella delle uguali opportunità, che la democrazia non ha saputo realizzare in maniera sufficiente e che oggi appaiono ulteriormente ridotte. Quanto al fatto che nel lavoro sia ricomparsa la persona, con la sua attività e diversità, con una soggettività autonoma ed aperta liberamente agli altri, apre l’opportunità di ancorare le attività produttive ad una nuova libertà del lavoro dipendente.
Giustamente gli autori rilevano la crisi dell’eterodirezione del lavoro salariato e l’assottigliamento delle differenze tra questo tipo di lavoro e quello autonomo. Come, per altro, si deve rilevare, soprattutto a causa dei processi digitali e del lavoro cognitivo, l’assottigliarsi delle differenze tra “lavoro manuale” e “lavoro intellettuale”. Tutto questo va nella direzione, mi sembra, di una maggiore autonomia (puntualmente rilevata nel libro) di molti lavori digitalizzati, come ad esempio per lo smart working, e questo pone il problema del superamento del contratto finalizzato a stabilire l’erogazione di un certo numero di ore astrattamente uguali di lavoro. Il lavoro concreto è quello in cui la persona, impiegando le proprie capacità, autorealizza la propria identità professionale senza necessità, come accade per l’artigiano o il contadino, di essere proprietario dei mezzi e del risultato; risultato alla cui definizione, e a quella del processo che lo deve produrre, essa partecipa.
Rimane il punto, cruciale, del mercato. È possibile pensare ad un lavoro concreto, in cui cioè non ci sia la separazione (coercitiva) tra attività e risultato del salariato tradizionale, in presenza di un mercato del lavoro in cui il lavoratore venda le proprie capacità per potersi comprare ciò di cui ha bisogno per vivere? Perché se questo non è possibile cadremmo nell’alternativa di ammettere solo o «lavoro astratto» o artigiani, contadini e le altre attività autonome della moderna società. In questo senso la difesa dell’artigiano di Richard Sennett, piuttosto che portare elementi per una rappresentazione del futuro, dimostra quanto certi paradigmi siano profondamente radicati nel nostro modo di pensare, ma anche il pericolo che essi possano suggerire atteggiamenti difensivi e conservatori, in questo caso riconducibili alla difesa dell’«azione» (discorso) nei confronti della società industriale svolta da Hanna Arendt.
Si potrebbe distinguere tra struttura e modalità. Ovvero l’esistenza strutturale di un mercato del lavoro, ma governato da regole stabilite consensualmente (diritto del lavoro) che garantiscano determinate tutele e determinati diritti in maniera più avanzata dall’attuale. Questa possibilità può essere ritenuta più o meno accettabile a seconda dell’idea che abbiamo del mercato del lavoro. Precisamente, questo mercato è la causa del lavoro astratto, cioè del lavoro come merce, come ritiene Polanyi, oppure i processi che hanno determinato il lavoro astratto e quelli che hanno determinato il lavoro come merce sono distinti e storicamente autonomi? Processi che il capitalismo ha unificato, anche grazie al macchinismo, dando vita al nuovo lavoro salariato come forma fondamentale del lavoro sociale? Qualcosa di inedito sul piano quantitativo, ma la cui natura non è storicamente inedita. In alternativa, l’uscita dal «lavoro astratto» è pensabile solo abbattendo il mercato, ma l’esperienza del socialismo reale dimostra che ciò non elimina il «lavoro astratto».
Di qualitativamente inedito il capitalismo avanza una nuova organizzazione del lavoro formalmente libero, il Gesamtarbeiter, come dimostra egregiamente Marx nell’undicesimo capitolo del primo libro del Capitale . Una organizzazione che crea il «lavoro astratto» di massa, un lavoro che presuppone una socialità apparente di lavoratori tra loro estranei perché dominati dal capitale e privi dell’autonomia necessaria allo svolgimento, in cooperazione, di un lavoro concreto. Quanto all’idea del lavoro come merce, essa è frutto della società mercantile e non della rivoluzione industriale. Hobbes nel Leviatano (1651) definisce il lavoro una «merce scambiabile con altri beni, alla stregua di ogni altra cosa» . E i Livellatori, i primi socialisti moderni, difendono la vendibilità del lavoro, proprietà del lavoratore, e perciò il diritto di questi ad eleggere i rappresentanti mediante suffragio universale . Il lavoro come merce presuppone la proprietà del lavoro, ovvero la libertà del lavoratore, in una cultura in cui la proprietà fonda la libertà, in particolare, secondo J. Locke, se frutto del lavoro. In altre parole, il capitalismo risolve la contraddizione sorta nell’XI secolo tra libertà e subalternità dominando e organizzando la proprietà del lavoro resa universalmente disponibile dalla sua vendita come merce, perché il lavoratore non la può impiegare autonomamente per l’assenza della proprietà dei mezzi di produzione. Ma non è il mercato che la trasforma in «lavoro astratto» bensì l’organizzazione del lavoro come Gesamtarbeiter. Quindi non appare decisivo abbattere il mercato per approdare ad un lavoro concreto, autonomo e creativo. Decisivo risulta, anche attraverso la partecipazione, cambiare l’organizzazione del lavoro, la vera causa del «lavoro astratto». Questo senza bisogno di negare che la mercificazione contribuisca a determinare il carattere astratto di un lavoro il cui nesso tra attività e scopo è separato dall’organizzazione. Ovviamente andrebbero considerati gli effetti della rivoluzione politica francese su questi elementi, perché tale rivoluzione, basando la cittadinanza sul lavoro, solleva la contraddizione del «lavoro astratto» non solo nei confronti dell’unità della persona che lavora, ma anche di quella tra cittadino e lavoratore (subordinato, astratto e venditore di sé). Ma la conquista della cittadinanza “lavoristica” fa risaltare ancora di più come l’astrattezza, recepita, approfondita e governata dalla mercificazione, sia prodotta dall’organizzazione del lavoro. E quindi come ogni mutamento per affermare un “lavoro concreto” debba partire dal cambiamento di questa organizzazione, che come abbiamo detto è stata portata al suo compimento dal “lavoro astratto” fordista. E la sua messa in crisi dalla riproposizione della persona nel lavoro. Ma ancora non abbiamo un modello di organizzazione del “lavoro concreto”.

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