testo integrale con note e bibliografia

1. Il triangolo istituzionale del giudizio di legittimità in via incidentale in prospettiva diacronica. 2. Le critiche di ingerenza della Corte nella sfera di discrezionalità legislativa. 3. Le sentenze sostitutive e l’interpretazione costituzionale. 4. Smantellamento o correzione della legislazione sulla tutela contro i licenziamenti illegittimi? 5. La giurisprudenza più recente. 6. Gli interventi della Corte nel quadro dei rimedi ai licenziamenti illegittimi.

1. Da tempo gli sviluppi della giurisprudenza costituzionale si lasciano padroneggiare solo per singoli settori, di regola seguiti continuativamente da cultori delle relative discipline più che da costituzionalisti. E’ un risvolto della diffusione del nostro diritto costituzionale – un segno per questo verso di salute, non di crisi –, che solo così può diventare ius quo utimur della convivenza civile, in luogo di quell’insieme di precetti astratti, calati dall’alto, che a lungo ne costellò l’immagine nel panorama delle scienze giuridiche.
Solo quando si passa dall’esame del merito della giurisprudenza alla ricerca del ruolo della Corte nell’assetto dei pubblici poteri che da essa si ritenga di poter desumere, traspare la maggiore continuatività con cui il costituzionalista ne segue l’evoluzione.
Questa duplice prospettiva va tenuta tanto più presente, ove si consideri che i cultori delle diverse discipline guardano inevitabilmente anche alle conseguenze degli indirizzi di merito della Corte sui suoi rapporti col Parlamento e coi giudici. Si tratta di una storia avviata nel 1956 per quanto riguarda i giudizi di legittimità delle leggi in via incidentale, ossia nell’esercizio della competenza della Corte che più delle altre ne ha contrassegnato l’identità. In quella sede la Corte si è sempre trovata e si trova in un triangolo, disegnato dal legislatore costituzionale là dove ha conferito ai giudici il potere-dovere di sollevare la questione di legittimità costituzionale, e ha attribuito alla Corte il monopolio dell’annullamento delle leggi e degli atti aventi forza di legge che abbia giudicato costituzionalmente illegittimi.
Questo triangolo fornisce le invarianti minime di diritto positivo intorno a cui fluisce la dinamica dei rapporti fra le istituzioni collocate ai suoi angoli. Esso non può esaurire quella dinamica, anzitutto perché la Costituzione è un testo costruito intorno a princìpi, e perciò suscettibile a maggior ragione di interpretazioni diverse prima di essere applicato, che proprio la Corte è chiamata ad operare. E intorno alle invarianti accennate si è costruito nel corso del tempo un insieme di regole, di tecniche decisorie, di canoni interpretativi, che possono dirsi più o meno consolidati – si pensi per es. alle alterne vicende dell’invito rivolto ai giudici a ricercare l’interpretazione conforme a Costituzione prima di sollevare questione di legittimità costituzionale –, ma che non possono essere semplicemente ignorate, come se ci trovassimo nel 1956.
Così, l’accusa rivolta alla Corte di esorbitare dalle sue funzioni per assumere indebitamente quelle del Parlamento perde senz’altro credito ove venga supportata solo col fatto che la Corte ha adottato tipologie di sentenze interpretative di accoglimento come le sostitutive o le additive, che fanno parte dell’arsenale delle sue pronunce dagli anni Settanta del secolo scorso, o col fatto che ha operato bilanciamenti fra princìpi costituzionali, che almeno esplicitamente (perché l’implicito ricorso ad essi è ben più risalente) troviamo legittimati come tecniche di giudizio dagli anni Novanta del secolo scorso. Né gli indirizzi sulla irragionevolezza come limite al potere discrezionale del legislatore in sede di giudizio incidentale si possono confondere, come pure talvolta si legge, con quelli relativi all’ammissibilità del referendum abrogativo sulle leggi, le cui diverse rationes sono riconducibili a diverse competenze intestate alla Corte.
Lo stesso divieto di invadere la discrezionalità legislativa posto alla Corte dall’art. 28 l.n. 87 del 1953, che è comunque legge di rango ordinario, va visto alla luce di queste premesse generali, le quali invitano a tener conto di una serie di variabili, nonché a storicizzare e a contestualizzare il più possibile il giudizio del commentatore.

2. La recente giurisprudenza sulla disciplina delle misure di contrasto ai licenziamenti illegittimi, a più riprese criticata da una parte dei giuslavoristi per ingerenza nelle scelte legislative, merita di venire esaminata alla luce di simili avvertenze, senza peraltro nulla togliere all’eventuale fondamento di critiche di merito agli indirizzi maturati dalla Corte.
La giurisprudenza oggetto delle prime critiche comprendeva le sentenze n. 194 del 2018, che accoglie la questione di legittimità della normativa che faceva ricorso al solo criterio dell’indennità di servizio ai fini del computo dell’indennità da corrispondere al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, n. 150 del 2020, che accoglie la questione relativa alla previsione del meccanismo automatico di determinazione di tale indennità per violazione dei requisiti di forma, e n. 59 del 2021, che accoglie la questione relativa alla prevista facoltà, anziché all’obbligo, per il giudice di reintegrare il lavoratore ove accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Confermano e sviluppano l’indirizzo sentenze emesse nel 2022 , e nel 2024 , ad alcune delle quali faremo riferimento più avanti.
Le critiche mosse alla Corte di ingerenza nella discrezionalità legislativa vanno distinte in due gruppi. Critiche di merito, compendiabili nell’accusa di aver volutamente “smantellato il Jobs Act”, e critiche al ricorso a tipologie di pronunce sostitutive che esorbiterebbero dai poteri della Corte. La distinzione, pur utile concettualmente, riguarda dunque i profili – sostanziale-contenutistico nel primo caso, formale-procedurale nel secondo – dell’unico addebito alla Corte di aver fatto politica sostituendosi al Parlamento.

3. Le critiche al ricorso alle pronunce sostitutive si fondano sul mero rilievo che la Corte avrebbe indebitamente “creato” una normativa destinata a sostituire quella dettata dal Parlamento e contestualmente dichiarata incostituzionale .
Come si accennava, nella giurisprudenza costituzionale il ricorso alle sentenze sostitutive, come alle additive, risale agli anni Settanta del secolo scorso. E, nell’un caso come nell’altro, la loro giustificazione è stata a lungo condizionata all’ipotesi che l’innovazione introdotta dalla Corte, lungi dall’essere mera espressione di una sua inevitabilmente arbitraria creatività, riflettesse l’obbligo di attuare la Costituzione, possibile solo tramite l’adozione di quello specifico dispositivo. Mi riferisco alla tesi delle “rime obbligate”, all’epoca avanzata da Vezio Crisafulli, e da allora punto di riferimento di un dibattito scientifico talora molto acceso oltre che di sviluppi giurisprudenziali assai ricchi. Non è possibile ripercorrerli in questa sede, né accennare alle ragioni del recente superamento delle “rime obbligate” da parte della stessa Corte. Ma basterà ricordarli per desumerne che ogni eventuale giustificazione del ricorso alle sentenze sostitutive (e additive) va collegata all’onere per la Corte di dimostrarne la necessità al fine di far valere la Costituzione nel caso al suo esame. Il che comporta l’ulteriore conseguenza, per il commentatore, di non potersi accontentare di rilevare il ricorso a una od anche più sentenze sostitutive, come nell’indirizzo giurisprudenziale in esame, per denunciare l’indebita ingerenza della Corte nella sfera discrezionale del legislatore. Una volta che lo abbia rilevato, il commentatore non dovrà cioè non porsi in primo luogo la questione del fondamento di tale ricorso nei termini ora indicati, per concludere nel senso di quell’ingerenza solo dopo averne riscontrato l’eventuale carenza.
Non sembra che ciò sia avvenuto. Talvolta i critici della giurisprudenza in esame hanno denunciato, con toni oltretutto scandalizzati, l’ingerenza della Corte nella sfera legislativa per il solo ricorso a quella tecnica decisoria. Altre volte, almeno in riferimento a una pronuncia, hanno precisato che la critica di ingerenza “non può mettere nell’ombra l’importanza dei princìpi affermati nella sentenza n. 59 del 2021 e della loro proiezione sistematica nell’area delle tutele contro il licenziamento illegittimo nonché della loro connessione finalistica con il diritto al lavoro sancito nell’art. 4 co. 1 cost.” . In particolare, con la sentenza citata, si avrebbe “La riaffermazione della natura rigorosamente personalistica del diritto al lavoro non solo quale facoltà o libertà di lavorare ma anche quale garanzia della dignità della persona e, in particolare, della pretesa all’occupazione. Un diritto di cittadinanza sociale come tale comprensivo sia dell’interesse collettivo alla promozione dell’occupazione sia dell’interesse individuale del lavoratore alla conservazione del posto” .
Un simile giudizio positivo, che ha direttamente a che vedere con l’interpretazione del testo costituzionale, convive tuttavia nel commento con una critica rivolta al ricorso a una pronuncia di tipo sostitutivo, senza indicare come la Corte avrebbe potuto diversamente far valere quella sua assai apprezzata interpretazione.
Lo stesso criterio andrebbe impiegato in riferimento alla ricollocazione compiuta dalla Corte del ruolo del giudice comune, ossia al terzo elemento del triangolo di cui si parlava all’inizio.
Si è ritenuto “curioso” che mentre le sentt. nn. 194 del 2018 e 150 del 2020 aumentano la discrezionalità del giudice nella valutazione dei parametri cui ancorare la tutela risarcitoria, la sent. n. 59 del 2021 la riduce, sottraendo al giudice la possibilità di scegliere fra tutela risarcitoria e tutela reale in caso di manifesta insussistenza delle ragioni poste alla base del licenziamento . Ma la “curiosità” dipende da un travisamento. La Corte non ha mai affermato, neanche nella sua giurisprudenza pregressa, che nel campo delle modalità di tutela dai licenziamenti illegittimi la discrezionalità legislativa è assoluta . Il costante orientamento, ribadito anche nella giurisprudenza più recente, secondo cui al riguardo il legislatore deve operare “un bilanciamento ragionevole” fra gli artt. 4 e 41 Cost., non significa affatto che si tratta di “un campo non presidiato da vincoli costituzionali” , ma l’esatto contrario.
Eppure la Corte non ha mancato di precisare che in “una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima. All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pur essa imposta dal principio di eguaglianza” (sent.n. 194 del 2018).
Come è stato detto molto bene, “Il richiamo ai valori costituzionali non economici permette alla Corte di tener conto del pregiudizio effettivamente sofferto dal lavoratore illegittimamente licenziato, pregiudizio certamente non identificabile soltanto con riferimento all'anzianità di servizio, e di restituire al giudice la naturale discrezionalità valutativa.”
Pur senza impiegare il termine “automatismi”, la pronuncia ben può collocarsi nell’ampio filone giurisprudenziale che colpisce i casi in cui la legge impugnata configura “un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono diverse”, dove “all’irragionevole automatismo legale occorre dunque sostituire, quale soluzione costituzionalmente più congrua, una valutazione concreta del giudice” (fra le altre, sent.n. 7 del 2013) .
Ciò che conta, in ogni caso, è che l’automatismo si dimostri sfornito di giustificazione costituzionale. Su questa premessa, la maggior discrezionalità conferita al giudice nella individuazione dei criteri cui commisurare l’indennità in caso di licenziamento illegittimo risponde alla stessa ratio con cui la Corte ha imposto al giudice di reintegrare il lavoratore in mancanza di giustificato motivo oggettivo (sent.n. 59 del 2021) e ha escluso che l’insussistenza del fatto quale presupposto del licenziamento illegittimo debba essere “manifesta” (sent.n. 125 del 2022), così del pari riducendo il margine discrezionale del giudice. Nella prima pronuncia, proprio confrontando la fattispecie al suo esame con quelle oggetto delle sentt. nn. 194 del 2018 e 150 del 2020, la Corte ha anzi chiarito appositamente che “la diversa tutela applicabile – che ha implicazioni notevoli – discende invece da un criterio giurisprudenziale che, per un verso, è indeterminato e improprio e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento”, senza contare che “nel demandare a una valutazione giudiziale sfornita di ogni criterio direttivo – perciò altamente controvertibile – la scelta tra la tutela reintegratoria e la tutela indennitaria, la disciplina censurata contraddice la finalità di una equa ridistribuzione delle ‘tutele dell’impiego’ enunciata dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge n. 92 del 2012”.

4. Come anticipato, l’accusa rivolta alla Corte di aver compiuto scelte politiche con le sentenze in esame si regge però anche su un argomento contenutistico, quello di aver proceduto allo smantellamento del Jobs Act, che ove fondato basterebbe a giustificarla.
Per accertarne il fondamento, occorrerà ricercare i passaggi allo scopo più rilevanti nelle pronunce di cui trattasi, a partire dalla prima. Qui la Corte rigetta la censura di violazione del principio di eguaglianza ratione temporis nei confronti della disciplina impugnata ancorando la ragionevole differenziazione fra lavoratori assunti prima e dopo la sua entrata in vigore alla dichiarata finalizzazione de “la predeterminazione e l’alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato” allo scopo di “favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro per chi di un lavoro fosse privo, e, in particolare, a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato” (sent.n. 194 del 2018, § 6.).
La Corte non si è dunque limitata ad escludere scrutini sul rispetto dell’eguaglianza ratione temporis, come ha fatto tante altre volte sulla scorta dell’argomento, più o meno espresso, che ogni scelta del legislatore, dunque la sua stessa capacità di innovare al diritto oggettivo, comporta giocoforza una differenziazione in ragione del tempo. La Corte ha invece esaminato la ragionevolezza della scelta legislativa compiuta nella specie, e in particolare del fine così perseguito. Con esito positivo.
E’ vero che censure fondate sulla lesione dell’eguaglianza e della ragionevolezza in quanto tali sono state accolte, e che i termini del bilanciamento vi vengono esposti in maniera più sfumata, connotandosi la misura dell’indennità “oltre che come certa, anche come rigida, perché non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio” (§ 12.1). Nondimeno la diversa prospettazione dei termini del bilanciamento corrisponde all’oggetto delle censure. Se al momento di valutare la violazione dell’eguaglianza ratione temporis la Corte poteva addurre la congruità della differenziazione operata all’obiettivo generale perseguito dalla legge, nell’esaminare la disparità di trattamento fra lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore della legge in ragione di “un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse”, lo scrutinio doveva concentrarsi sulla violazione del nucleo primario, soggettivo, dell’eguaglianza, e non poteva pertanto non diventare più stretto.
Si passerebbe allora da uno scrutinio deferential, come quello che per le ragioni esposte non può non riguardare le differenziazioni ratione temporis, a uno strict scrutiny, che presuppone un particolare sospetto nei confronti delle classificazioni legislative, impiegato espressamente dalla Corte in altre occasioni? Certo è che essa non ha affatto rimosso dalla sua valutazione l’obiettivo del Jobs Act, ma lo ha solo bilanciato diversamente con l’eguaglianza a seconda del profilo di cui si è detto. Il tutto sullo sfondo della necessità di comporre un pur variabile equilibrio fra i princìpi di cui agli artt. 4 e 41 Cost.
E’ vero che lo stesso obiettivo della normativa impugnata, la promozione di nuova occupazione, avrebbe potuto essere visto nella prospettiva costituzionale dell’art. 4. Esso sarebbe stato così considerato frutto della necessità di bilanciare direttamente fra loro i due aspetti di quel “diritto di cittadinanza sociale” che come abbiamo visto si comporrebbe, secondo Edoardo Ghera, “sia dell’interesse collettivo alla promozione dell’occupazione sia dell’interesse individuale del lavoratore alla conservazione del posto”. La Corte si è tenuta ben lontana da questa prospettiva, tanto nella sentenza del 2018 quanto a maggior ragione nelle successive, nelle quali la questione verteva direttamente sull’art. 18 dello Statuto. Il che avrebbe fatto emergere quella contrapposizione fra estensione della tutela reale dai licenziamenti illegittimi e riuscita delle politiche attive del lavoro da cui erano partiti gli estensori del Jobs Act, e che è rimasto il fulcro della polemica politica in proposito.
Comunque, che la Corte abbia evitato di spingersi in tale direzione non rileva dal punto di vista degli effetti delle pronunce finora esaminate. Dalle quali non si ricava quell’opera demolitoria che talvolta viene loro imputata, bensì una correzione di tiro in ordine alla disciplina della tutela reale e una più robusta modifica della tutela indennitaria, l’una e l’altra inseribili nel quadro della riforma del 2015.

5. Lo conferma la sent.n. 7 del 2024, dove la Corte era chiamata a pronunciarsi sulla disciplina delle tutele avverso i licenziamenti collettivi illegittimi. Essa ne trae l’occasione per ricostruire compiutamente l’evoluzione di quella relativa ai licenziamenti individuali, posta a termine di raffronto, e soprattutto della propria giurisprudenza. E’ significativo che si rilevi il passaggio “dal regime ampio e uniforme della tutela reintegratoria, in vigore per molti anni (dal 1970 fino al 2012), ad uno differenziato secondo la ‘gravità’, in senso lato, della violazione che inficia la legittimità del licenziamento (intimato dopo il 18 luglio 2012) e, per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, ulteriormente differenziato con un maggior restringimento dell’area della tutela reale ed ampliamento di quella indennitaria, quest’ultima poi rinforzata in termini quantitativi dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito (e quindi a partire dal 12 agosto 2018). E’ questa una disciplina composita, differenziata ratione temporis (…..) e declinata in diversi regimi di tutela, la cui complessa e complessiva articolazione segna la difficoltà di un processo riformatore in un ambito – quello dei licenziamenti individuali e collettivi – di elevato impatto sociale”.
Le reazioni della stessa Corte vengono viste nei termini di una “complessiva reductio ad legimitatem”, conforme all’assunto per cui “Ribadito che non vi è un’esigenza costituzionale che reclami la reintegrazione in ogni caso di licenziamento illegittimo, potendo la tutela essere anche indennitaria di natura compensativa, si ha comunque che l’adeguatezza e sufficiente dissuasività del sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi vanno valutate nel complesso e non già frazionatamente, tenendo quindi conto della gradualità e proporzionalità della sanzione che il legislatore, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, ha previsto come differenziata, conservando la reintegrazione (unitamente ad un indennizzo senza tetto massimo) per i casi di più gravi violazioni, quali quello del licenziamento nullo o discriminatorio, e riservando agli altri casi la tutela indennitaria (con un tetto massimo) secondo il più incisivo criterio risultante dalle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020”.
Su questa premessa, l’orientamento che ritiene ragionevole “modulare le conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati al fine di rafforzare le opportunità d’ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione” ben può estendersi ai licenziamenti collettivi, giustificando così la limitazione dell’innovazione normativa ai nuovi assunti. Anche per i licenziamenti collettivi, la Corte fa dunque leva sullo “scopo dichiarato nella legge delega di favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di ‘nuovi’ assunti, accentuandone la flessibilità in uscita con il riconoscimento di una tutela indennitaria predeterminata, risultando indifferente rispetto a tale fine che il recesso sia individuale o collettivo”.

6. Vi è chi ha previsto un progressivo consolidamento del “nocciolo duro del ciclo di riforme realizzato, la pluralità dei rimedi a fronte delle diverse fattispecie di licenziamento”, escludendo un “ritorno alla pratica e all’ideologia dell’unità del rimedio reintegratorio”, e assegnando il contributo maggiore a tale consolidamento al “lavorìo ortopedico della Corte costituzionale sull’assetto regolativo esistente” .
Da una complessiva valutazione dello “stato dell’arte della disciplina rimediale prevista per il licenziamento di natura disciplinare illegittimo dopo le riforme del cd. ‘ciclo liberista’” , risulterebbe che “la riforma ‘neoliberista’ (intesa come la sommatoria di Fornero più Jobs Act) con riguardo al licenziamento, è stata ampiamente ritoccata da vari decisori (il legislatore, la Corte costituzionale, la Corte di Cassazione) e ha, pure, trovato un assestamento dinamico; ciò a conferma (…..) del pluralismo giuridico come dato culturale certamente dominante nell’ordinamento italiano caratterizzato da una articolazione diffusa di poteri e contropoteri” .
Nel confutare l’ipotesi dello smantellamento, il giudizio sposta utilmente il terreno delle valutazioni dalla secca alternativa fra osservanza delle attribuzioni giurisdizionali e invasione della sfera di discrezionalità del legislatore a una più ampia indagine sui circuiti di formazione delle decisioni nel nostro assetto istituzionale. Non per nascondere la questione dell’eventuale eccesso di attivismo giudiziale, ma per dar conto del contesto in cui collocarla nell’effettività. Non per legittimare a tutti i costi l’esistente, ma per spiegare compiutamente i dilemmi che stanno dietro agli stessi bilanciamenti in presenza della segnalata “difficoltà di un processo riformatore in un ambito – quello dei licenziamenti individuali e collettivi – di elevato impatto sociale” (sent.n. 7 del 2024).
In condizioni simili, il rimprovero alla Corte di fare politica pecca di astrattezza.
Una volta ritenuto che “Il legislatore, pur potendo adattare secondo una pluralità di criteri, anche in considerazione delle diverse fasi storiche, i rimedi contro i licenziamenti illegittimi, è chiamato a salvaguardarne la complessiva adeguatezza, che consenta di attribuire il doveroso rilievo al fatto, in sé sempre traumatico, dell’espulsione del lavoratore” (sent.n. 150 del 2020), quali conseguenze ne può trarre la giurisdizione costituzionale? La Costituzione le impone forse di adeguarsi passivamente ai mutamenti legislativi intervenuti “in considerazione delle diverse fasi storiche”? O non l’autorizza piuttosto a calibrare il senso e la portata dei propri princìpi onde farli valere in consonanza coi tempi, a costo di procedere ad ogni eventualmente necessaria reductio ad legitimitatem della normativa di volta in volta impugnata?
Nel primo caso i princìpi costituzionali verrebbero sterilizzati in nome di un’incontaminata neutralità della giurisdizione costituzionale rispetto ai cambiamenti storico-politici, nell’altro continuerebbero ad essere applicati anche alla luce di tali cambiamenti. Dove si vede per giunta come l’approccio realistico, tradizionalmente ascritto a quanti vanno a caccia di impropri interventi politici della Corte, dovrebbe casomai attribuirsi a quanti continuino a intendere il rapporto fra stabilità e mutamento nel prisma della Costituzione.

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