testo integrale con note e bibliografia

1. LA FINE DELL’ORARIO STANDARD E I NUOVI PATTERN TEMPORALI

La lotta dei lavoratori per aumentare il “tempo liberato” è durata oltre un secolo, tra il 1886 della marcia di Chicago e le 35 ore della legge Aubry del 2000, e ha avuto innanzitutto una forma universalistica: si parlava di riduzione generalizzata proprio perché riguardava tutti i lavoratori, passando attraverso settori e occupazioni. All’inizio del Millennio, in tutti i Paesi ad economia avanzata gli orari contrattuali si erano assestati tra le 35 e le 40 settimanali e la settimana ridotta a cinque giorni. Il tema dell’orario era stato declinato fino ad allora quasi esclusivamente come riduzione della “durata” della giornata e della settimana lavorativa. Nel momento in cui, per più ragioni, la lotta aveva perso la sua forza di movimento collettivo, per gli orari di lavoro incomincia una nuova stagione, quella della flessibilità, che riguarderà soprattutto la “collocazione” dell’orario all’interno della giornata, della settimana o dell’anno. Riguarderà in parte ancora la durata dell’orario, seppure in forme inedite e contradditorie rispetto al vecchio obiettivo della riduzione generalizzata: parliamo in questo caso del part time di quote crescenti di lavoratrici, ma anche, all’opposto, della forte espansione delle ore straordinarie in alcuni settori (Ponzellini, 2021).

Nella manifattura, la flessibilità degli orari guidata dai mercati
Se il fordismo aveva avuto come riferimento per la produttività il p/h (prodotto per ora lavorata) perché la produzione di massa si basava su cadenze obbligate dalle macchine e al lavoro erano richieste prestazioni standardizzate, il post-fordismo e la sua “specializzazione flessibile” (Piore e Sabel, 1984) deve fare i conti, più che con una attenta organizzazione della produzione, con l’accresciuta competizione dei mercati e per questo va a cercare la produttività del sistema in modi più sofisticati, ovvero chiedendo al lavoro da un lato maggiore specializzazione e dall’altro maggiore adattamento. Anche l’orario ne viene coinvolto. Intorno agli anni Ottanta non solo si registra l’aumento dei turni di lavoro (turnistiche basate su tre, quattro e anche cinque squadre per coprire le 24 ore e, sempre più spesso, anche le giornate prefestive e festive) allo scopo di sfruttare al meglio gli impianti di fronte a tecnologie più costose ma, nel giro di un decennio, in quasi tutti i settori manifatturieri si arriva anche a instaurare la multiperiodalità degli orari (una flessibilità su base annua che contempla periodi caratterizzati da settimane a 32 ore contro periodi caratterizzati da settimane a 48), allo scopo di rispondere ai ritmi stagionali della produzione e, in seguito, sempre di più per legare il lavoro ai picchi e ai flessi dell’andamento del mercato e delle commesse, risparmiando sui costi di magazzino: stava nascendo il just in time. Lo schema organizzativo tipico del fordismo - un luogo unico (la fabbrica) e un orario uguale per tutti (le otto ore al centro della giornata) - che aveva permesso, insieme alla prima fase della automazione delle macchine, il balzo in avanti della produttività industriale novecentesca è definitivamente superato. La produttività va conquistata nei margini: le fabbriche si delocalizzano, gli orari di lavoro si flessibilizzano e nascono nuovi pattern temporali del lavoro (Ponzellini, 2020).

Straordinari e part time: la nuova coppia nella articolazione della “durata” dell’orario
Gli orari saranno sempre meno uguali anche dal punto di vista del numero di ore lavorate. Infatti, all’imperativo della flessibilità della produzione e al riassestamento dei mercati corrisponde in Italia negli stessi anni quel rallentamento della crescita dei salari (anche a seguito degli accordi interconfederali di politica dei redditi) che, visto nell’ottica delle trasformazioni degli orari di lavoro, sembra avere esito in una accresciuta propensione al lavoro straordinario. Il fenomeno si diffonde soprattutto tra lavoratori maschi e in alcuni settori, come l’edilizia e l’industria meccanica (ma anche altrove, fino alla pubblica amministrazione): si consolida così per molti lavoratori una sorta di abitudine all’aumento dell’orario giornaliero (almeno un’ora in più) o settimanale (il lavoro al sabato per la mezza giornata o per l’intera). Anche se osteggiati dai sindacati, gli straordinari entrano nel reddito medio di fatto di una quota cospicua di lavoratori e in molti casi finiscono anche per costituire una forma (un po’ primitiva) di politica discrezionale dei capi, che assegnano le ore straordinarie come benefit. Inutile dire che, per evidenti ragioni, la gran parte delle donne quando può cerca di sottrarsi a questa pratica che diventa uno dei fattori, certo non l’unico, del differenziale salariale di genere. Tant’è vero che negli ultimi decenni del Novecento, quando rilevano gli orari teorici previsti dai contratti, le statistiche fotografano anche per l’Italia una realtà formale di progressiva riduzione dell’orario di lavoro, probabilmente per effetto di aumento ferie e permessi (Eurofound, vari anni) ma, contemporaneamente, segnalano un aumento medio delle ore effettivamente lavorate (Olini, 1998): la regolazione contrattuale degli orari di lavoro appare ormai inclinata ad accettarne ogni flessibilità, purché adeguatamente retribuita da indennità e maggiorazioni.
Altra, e opposta con riferimento al genere, è la vicenda del part time. In quegli stessi anni emerge infatti una domanda di flessibilità dell’orario per la vita personale che corrisponde spesso al desiderio (e anche al bisogno) di molte donne di partecipare al mercato del lavoro ma anche alla loro impossibilità ad accettare l’orario delle otto ore standard per via degli impegni famigliari tradizionalmente a loro attribuiti. La quota del part time sarà per molti anni esigua in Italia - da un certo punto in avanti con una grossa componente di part time involontario - e solo recentemente si allineerà ai valori europei raggiungendo ad oggi quasi un terzo della popolazione lavorativa femminile (Eurostat, 2023a). All’inizio, il part time sarà applicato quasi esclusivamente come mezza giornata lavorativa (4 ore, quasi sempre di mattina), nel tempo si articolerà sia in termini di durata (salendo spesso fino a 24, 28 e fino a 30 ore settimanali) sia in termini di collocazione (part time verticali o misti). Qui la vicenda del part time ci interessa nella misura in cui una flessibilità (almeno inizialmente) richiesta dal lavoro si somma alle varie flessibilità richieste dall’impresa descritte sopra, come fattore di complessiva “de-standardizzazione” dell’orario di lavoro (Chiesi, 1985). Seppure per molte donne il part time, può avere davvero rappresentato una prima fase, transitoria, dell’evoluzione della partecipazione al mercato del lavoro (Bosch, 1999), è certo che, a confronto della grande lotta novecentesca per la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, la scelta (quasi sempre obbligata) di molte donne al part time appare piuttosto una soluzione di ripiego: una riduzione individuale dell’orario penalizzata dal punto di vista salariale. Comunque, degli schemi di flessibilità dell’orario resi possibili dai contratti part time si appropriano ben presto le imprese (come vediamo nel paragrafo che segue).

2. L’ORARIO COME FATTORE DI POLARIZZAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO

La diversificazione dell’orario tra i settori e il ruolo centrale del part time
La de-standardizzazione degli orari passa anche attraverso il diversificarsi della organizzazione dei processi nei diversi settori che, a partire dagli anni Ottanta, vede soprattutto separarsi il pattern dell’orario industriale da quello dei servizi. Nei servizi, infatti, l’orario di attività – aperture commerciali o orari di servizio - è quasi sempre superiore alle 8 ore giornaliere e spesso non copre solo cinque giorni la settimana ma sei e, a volte, anche sette giorni: detto in altri termini, gli orari di servizio e gli orari di lavoro sono di fatto “disaccoppiati”. Il processo di disaccoppiamento si è compiuto velocemente. In particolare, in Italia gli orari di apertura commerciali hanno ampliato progressivamente la durata giornaliera e settimanale (le domeniche) fino a raggiungere nel 2012 la completa deregolamentazione, mentre nei servizi alle persone, nei call centre, nei fast food e nei servizi stagionali del turismo si lavora ormai quasi ovunque sette giorni su sette per 12-18 o anche 24 ore. La necessità di far combaciare le aperture commerciali e dei servizi con gli orari di lavoro richiede già di per sé una complessa organizzazione dei turni di lavoro ma a questo va aggiunto il fatto che in molte attività il flusso giornaliero e settimanale della clientela varia nelle diverse ore del giorno e nei diversi giorni della settimana e varia di conseguenza anche il fabbisogno di personale: quindi, come si dice tecnicamente, è necessario far coincidere gli orari di lavoro con le “curve di carico” programmate per il servizio (Pero, 2017). È questa complessità organizzativa che farà emergere il part time come leva fondamentale per l’organizzazione degli orari, perché moduli di quattro, cinque o sei ore sono evidentemente più fungibili di quelli di otto. Attualmente, la gran parte delle attività di servizio, a cominciare da quella di vendita, si avvalgono di complicati schemi di part time su base giornaliera e settimanale. E qui, sicuramente, si è consumato il definitivo superamento dell’orario standard fordista.
Frattanto, il terziario ha superato il settore industriale come numero di occupati ma è diventato, ad esclusione dell’area dei servizi alle imprese, anche il comparto dove si addensano la gran parte dei lavori poco qualificati, una maggioranza di occupazione femminile e, come si è detto, i contratti di lavoro part time. Gli schemi di orario part time di cui abbiamo parlato sono con evidenza “fragili” dal punto di vista organizzativo, perché non reggono varianze e imprevisti: assenze non pianificate del personale, eventi non programmati (persino variazioni del meteo) che possono aumentare o ridurre il numero di clienti nel negozio, le code agli sportelli o le chiamate in coda agli operatori. Le variazioni non previste della domanda di personale si scaricano sui lavoratori e sulle lavoratrici chiedendo loro un adattamento dei loro orari che spesso risulta in una perenne impossibilità di programmare la loro vita personale: impegni familiari, impegni scolastici e possibilità di un secondo lavoro (Fullin, 2020; Dordoni, 2020). Ai bassi redditi connessi al part time e alla scarsa qualificazione dei lavori si aggiunge così in questa area del mercato del lavoro anche una difficile qualità della vita. Lo sanno bene, per esempio, le operatrici delle cooperative di servizi domiciliari che hanno paghe part time ma giornate lunghissime trascorse in giro per le città. Quantomeno negli ultimi due decenni il part time ha quasi completamente smesso di costituire una misura di welfare finalizzata ad una maggiore conciliazione tra lavoro e vita personale e familiare e ha assunto l’aspetto dei lavori dequalificati e di basso reddito che richiedono grande flessibilità personale, dei lavoretti saltuari, dei gig works sulle piattaforme, dei lavori a tempo pieno regolarizzati per metà: insomma della platea inquietante dei working poor (Ponzellini, 2021).

I lavoratori della conoscenza e le long hours
Ha avuto una storia diversa l’orario nei lavori cognitivi. Ormai da diverso tempo la gran parte dei nuovi assunti laureati nel settore privato sa di essere a disposizione del capo indipendentemente dall’orario di lavoro. Non solo, la competizione per la carriera premia la disponibilità alla presenza in ufficio fino a tardi (che, oltretutto, certamente discrimina chi ha impegni di cura) e produce uno spontaneo prolungamento degli orari specialmente nei settori del terziario avanzato e delle professioni. Il fenomeno cosiddetto delle “long hours” riguarda in particolare i Paesi anglo-americani (Schor, 1991) ma anche in Italia vi è una quota del 9.6% di lavoratori – dipendenti e autonomi - che dichiarano di lavorare oltre le 48 ore settimanali, superando la media europea del 7.1% (Eurostat, 2023b). L’overwork è prodotto da cause che non hanno necessariamente solo a che fare con lo sfruttamento: può c’entrare la passione per quello che si fa, l’ambizione per la carriera, la voglia di realizzare i propri progetti.

Polarizzazione degli orari come polarizzazione dei lavori
Siamo dunque di fronte ad una divaricazione degli orari di lavoro che vede, da una parte, persone con contratti di poche ore (o di poche giornate, nel caso dei lavoratori autonomi), perennemente alla ricerca di qualche giornata in più di lavoro o di aumentare le ore previste dal proprio part-time (che quasi mai le aziende, per le ragioni dette sopra, sono disponibili ad aumentare anche quando le ragioni per cui il part time era stato richiesto - per esempio, la cura di figli piccoli - siano state superate da tempo). Dall’altra, lavoratori (in genere maschi, ma non solo) che lavorano un numero esagerato di ore la settimana, spinti da pressioni manageriali ma spesso anche dal condividere una subcultura del lavoro caratterizzata da dipendenza dalla propria attività lavorativa .
Una polarizzazione degli orari di lavoro che sembra in qualche misura rafforzare quella polarizzazione delle competenze che gli economisti riconoscono ai mercati del lavoro attuali, dove si registrano i due segmenti opposti in crescita (e quello intermedio in contrazione) (Autor e Dorn, 2013; Oecd, 2020). E in effetti anche nel nostro caso, a crescere sono da un lato, il segmento dei lavori dequalificati, di poche ore e a redditi bassi; dall’altro (anche se un po’ meno), quello dei lavori qualificati, ad orari lunghissimi e redditi spesso (ma non sempre) elevati: da un lato lavoratori fortunati (anche se un po’ workaholist), dall’altro working poor. Nella crescita del segmento “basso” si intrecciano certamente caratteristiche del mercato del lavoro che hanno a che fare con questioni socioeconomiche irrisolte: segregazione occupazionale di genere, mancanza di aiuti alle famiglie, salari bassi dovuti alla bassa produttività del sistema. Resta il fatto che, nei settori poveri del terziario, quello che le statistiche fotografano come “part time involontario” – fatto oltre che dalla classica lavoro a mezza giornata, dai lavori stagionali, dai lavori saltuari (anche sulle piattaforme) e da molto lavoro autonomo professionale - consente risparmio dei costi a prezzo di creazione di bacini di povertà soprattutto nelle grandi città e nelle zone turistiche.

3. FINE DEL TEMPO COME MISURA DEL LAVORO?

L’abolizione del cartellino
Al di là delle sue possibili degenerazioni culturali, il lavoro oltre-orario è interessante ai fini di questa discussione nella misura in cui la sua diffusione si è accompagnata al fatto che, ormai da un po’ di anni, nel lavoro d’ufficio si conteggiano sempre meno le ore straordinarie: in una (almeno apparente) contraddizione, si lavora più a lungo ma si è persa una voce della busta-paga. Da sempre i contratti prevedono il non pagamento delle ore straordinarie nel caso dei dirigenti e delle funzioni direttive – la cui funzione è considerata non misurabile a tempo - ma adesso sembra che buona parte degli impiegati che lavora con una certa autonomia (e su obiettivi) non segni più gli straordinari. In realtà, sono ormai moltissime le aziende che hanno formalmente abolito il cartellino e che consentono una certa flessibilità ai loro dipendenti, nell’orario di entrata o nelle pause giornaliere, in cambio di ampia disponibilità al prolungamento delle ore di lavoro, quando necessario, anche la sera e nei week end. Il lavoro da remoto ha sicuramente accelerato questo fenomeno. Gli accordi individuali di lavoro agile normalmente riducono il controllo ad una fascia oraria ammettendo implicitamente che, fuori dalla fascia, sia possibile all’operatore auto-organizzare il proprio tempo giornaliero, quali ne siano i ritmi e le sequenze. Non esistono al momento ricerche che ci dicano come gli operatori si organizzano rispetto al tempo di lavoro quotidiano, come alternino lavoro e altre attività giornaliere (incombenze familiari, fitness, altre attività del tempo libero). Dall’esperienza di alcuni settori dove gli operatori da più tempo hanno sperimentato il lavoro da remoto (terziario avanzato, professioni, aziende high tech) si arguisce che l’andamento temporale del lavoro mette in sequenza giornate o periodi densi e giornate o periodi laschi, con qualche flessibilità nel corso della giornata. In conclusione, il riferimento ad un orario di lavoro c'è ancora ma meno stringente.

Lavoro a tempo, lavoro a risultato
Tuttavia, la ragione principale di questo messa in secondo piano dell’orario di lavoro ha radici più lontane del lavoro agile e ha a che fare con le nuove forme di organizzazione del lavoro, di valutazione del lavoro e di politica salariale che sono venute avanti negli ultimi decenni, specialmente, ma non soltanto, per il lavoro degli impiegati. Da anni, infatti, in molte imprese le persone vengono gestite e coordinate attraverso il loro inserimento in progetti che hanno obiettivi da raggiungere e scadenze da rispettare: in base a questi vengono valutate ai fini degli avanzamenti di carriera o dei premi detti, appunto, “di risultato”.
D’altra parte, bisogna dire che il lavoro “a tempo” nella storia del lavoro rappresenta una novità abbastanza recente. Nel lavoro contadino o dei mestieri, il tempo di lavoro aveva ritmi dettati dalle attività da fare, dalle circostanze, dai bisogni: il lavoro artigiano dipendeva dalle singole richieste (non si faceva magazzino); il lavoro contadino dalle necessità delle coltivazioni, a loro volta dipendenti da fatti naturali cogenti o difficili da prevedere come l’avvicendarsi delle stagioni, il clima, le piogge, la siccità. Era un tempo che, nella giornata, poteva essere breve o lunghissimo. Anche dopo la rivoluzione industriale, per un lungo periodo il lavoro degli operai era pagato in base ai pezzi prodotti (i capi squadra distribuivano il lavoro in giro per le cascine dei contadini) ed era stato solo con la nascita della fabbrica, resa necessaria per concentrare i lavoratori nello spazio unico delle nuove grandi macchine, che la paga a pezzo era stata sostituita da una durata giornaliera di presenza disciplinata da un capo. Dal punto di vista della misurazione della prestazione possiamo dire che quel momento segnò il passaggio da un salario basato su un output (i pezzi prodotti) ad uno basato su un input (il tempo di lavoro di un operaio) : certamente una organizzazione efficiente del lavoro di massa ma straniante per chi lavora e che si rivelerà, sotto molti aspetti, inefficace. Il ritorno ad una misurazione in base ai risultati va dunque salutato come un fatto positivo, la rottura di una alienazione (la concessione ad altri del mio tempo) penalizzante. Già Edward P. Thompson (1967) evidenziava come il lavoro può essere orientato “in base al compito” oppure “in base al tempo” e come proprio quest’ultimo sistema fosse quello adottato dal capitalismo industriale. Aggiungeva anche che il primo non solo resta più naturale, guidato dalla necessità, ma prevede una minore separazione tra lavoro e vita, in quanto relazioni sociali e lavoro restano intrecciati (Perulli, 2024).

Liberare il tempo dal lavoro o il lavoro dal tempo?
L’argomentazione di Thompson ci sembra tanto più interessante in quanto conferma i limiti della visione marxiana della lotta operaia come lotta per la “liberazione del tempo dal lavoro” (Gorz,1992; Sandel, 2012). Una visione che lascia intendere che il tempo dedicato al lavoro non possa avere alcuna qualità e libertà, contro ogni evidenza (Mari, 2019; Ponzellini, 2023) e di conseguenza considera tempo di lavoro e tempo libero come entità completamente distinte, da tenere separate (accettando implicitamente come inevitabile il paradigma del tempo capitalista). E’ invece indubbio che, nonostante l’enfasi che ancora molti studi, specie in area femminista, danno sulla necessità di non “confondere i confini” tra lavoro produttivo e riproduttivo, tempo di lavoro e tempo per sé (Webster 1996), al contrario, una volta uscita dagli orari vincolati tipici del sistema fordista del “salario per tempo”, la quotidianità delle persone, l’avvicendamento (e persino la sovrapposizione) delle attività di lavoro, di cura e di leisure si ricompongono in modo certamente più umanizzante (Ponzellini, 2021).

4. HA ANCORA VALORE IL TEMPO DI LAVORO?
Dove va la contrattazione del tempo di lavoro?
La situazione ad oggi è dunque quella di grande articolazione degli orari di lavoro: ogni settore detta le regole della turnistica, delle reperibilità, dei flessi e dei picchi produttivi, delle quote di part time utili a flessibilizzare le proprie attività. Poco meno di un terzo delle lavoratrici è riuscita a modificano attraverso il part time il proprio regime d’orario ma spesso non può tornare indietro. Molti lavoratori cognitivi lavorano secondo orari lunghissimi che non prevedono il pagamento degli straordinari. In generale, quindi, il controllo del proprio orario di lavoro da parte di chi lavora non è affatto aumentato mentre il tempo di lavoro va incontro ad un serio deprezzamento. Non c’è dubbio che, anche in tema di orario, il mercato sia riuscito ad avere la meglio sulla regolazione: il lavoro infatti è sempre più “just in time” (Della Rocca, 2018). Lo si si vede nel lavoro autonomo professionale, nei lavori sulle piattaforme digitali, nel turismo e in molti altri servizi dove ciò che è richiesto è di lavorare solo quando ce ne è bisogno: qui di fatto, all’opposto che nei lavori della conoscenza che sembrano non conoscere limiti massimi d’orario, è il limite minimo d’orario a non esistere quasi più.
Che fanno i sindacati? Se nel periodo fordista tutte le variazioni dall’orario standard davano luogo a maggiorazioni o a indennità salariali, molti CCNL, soprattutto dei servizi, sono stati modificati in modo da consentire l’assunzione di lavoratori e lavoratrici secondo regimi d’orario che già includono gli orari non-standard, come il sabato lavorativo o l’avvicendamento dei turni, facendone quindi scomparire le maggiorazioni. Nella regolamentazione del part time, la norma che prevede che le ore di prestazione abbiano una collocazione definita nella giornata e nella settimana può attualmente essere derogata in cambio di una modesta indennità per la dipendente. Inoltre, nella gran parte dei CCNL, la regolazione del part time prevede che le ore prestate oltre l’orario del proprio contratto individuale non costituiscano orario straordinario ma “supplementare” e siano pagate meno. Ciò che appare in conclusione è che il controllo sindacale sul tempo di lavoro si è ridotto . I limiti d’orario – in basso e in alto - non vengono più difesi e la flessibilità non è quasi più monetizzata. E prevedibilmente si ridurrà ancora di più di fronte al diffondersi del lavoro da remoto. Nel lavoro, il tempo sembra destinato a contare sempre di meno.

Rischi e benefici dei nuovi sistemi di misurazione del lavoro
Abbiamo pur visto come esistano ormai forme di misura della produttività che non siano le mere ore lavorate. Che la semplice presenza non garantisca l’attenzione del collaboratore e la qualità del prodotto è diventato molto evidente già da qualche decennio persino in produzione. Ma certamente è nell’ambito del lavoro degli impiegati che da anni c’è grande enfasi sulle nuove forme di organizzazione del lavoro basate sui sistemi di project management, sul lavoro per obiettivi, sui premi di risultato individuali e collettivi. Possono questi sistemi rendere obsoleto l’orario come misura del lavoro? (Ponzellini, 2017).
Forse, prima di chiudere l’epoca del lavoro a tempo, bisogna considerare che il lavoro misurato dai risultati oltre a vantaggi presenta anche problemi e rischi. Certamente funziona bene nei livelli alti, che prevedono una buona autonomia e dove ciò che conta è la capacità di risolvere i problemi, di prendere le decisioni, la creatività, il metodo e l’esperienza. Nei livelli operativi, la questione è più dubbia. Intanto, dal punto di vista organizzativo, applicare misure di risultato presenta non poche difficoltà: i carichi di lavoro sono spesso difficili da misurare; i risultati non sono sempre sotto il controllo completo dell’operatore; i capi sono spesso impreparati a passare dal semplice controllo “a vista” a forme più complesse di pianificazione, distribuzione e valutazione delle prestazioni.
Anche dal punto di vista di chi lavora, la situazione è contradditoria: da una parte, il “cartellino” è una forma di controllo che ha il significato di una alienazione del proprio tempo, per cui liberarsene assume il senso di una riappropriazione, dall’altra l’autonomia, spesso in condizione di subalternità nei confronti del capo, può essere solo apparente. In molti casi, le ore prestate restano un indicatore più semplice e (per l’operatore) meno impegnativo. Comunque, il lato più oscuro delle misure in base ai risultati è la possibile spinta che suscitano verso l’iperconnessione e il “prestazionismo” (Prati, 2024). Come stiamo vedendo, con l’avanzare del digitale, moltissime persone – e non necessariamente solo le più fragili – si sono abituate a rispondere alla mail e ai whatsapp 24/24, a rendersi disponibili alle riunioni in call anche quando sono in ferie, a non spegnere mai il cellulare. Molti capi, per superficialità e incompetenza, possono indicare obiettivi non realistici e mettere in difficoltà con richieste fuori orario i propri collaboratori meno assertivi e capaci di negoziare. Nel momento in cui la durata massima dell’orario giornaliero e settimanale, pur mantenendo per ora un valore legale, comincia ad uscire dal radar, per molte persone, essere responsabili dei propri risultati può indurre uno stress che porta a lavorare più ore di quanto lavoravano prima: perché il carico è eccessivo o le scadenze troppo ravvicinate, perché si è perfezionisti sui risultati o drogati dal lavoro.
Permettere alle persone di auto-organizzare il tempo di lavoro dà innegabilmente riconoscimento a chi lavora e, sicuramente, indica una strada di riscatto del lavoro. Tuttavia, mentre danno più libertà (e più senso), le nuove misure della prestazione sembrano essere anche a rischio di burnout, disturbi d’ansia e peggioramento dell’equilibrio tra lavoro e la vita personale. Prima rimuovere nel lavoro ogni riferimento al tempo, occorre riflettere sui benefici e sui costi (Ponzellini, 2021). Una forma di riequilibrio rispetto alle nuove modalità di valutazione del lavoro potrebbe essere costituita da una sostanziale riduzione dell’orario settimanale che indichi, se non altro simbolicamente, che il lavoro e il suo controllo hanno fatto la scelta della qualità della vita. In generale, comunque, mantenere i limiti nel tempo di lavoro – intesi come limite massimo ma anche come limite minimo - offre una maggiore certezza di tutela all’insieme dei lavoratori.

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