Testo integrale con note e bibliografia
1 Premessa.
I due temi del salario minimo legale e del reddito minimo, ai quali la Rivista ha meritoriamente deciso di dedicare un apposito Focus, “si incrociano, ma non si confondono” , perseguendo con mezzi eterogenei i comuni obiettivi della lotta alla povertà e della promozione del decent work .
Il reddito minimo, nella versione di cui al d.l. 4/2019, mira (o, forse, mirerebbe), attraverso la condizionalità, al reinserimento al lavoro, trovando la propria ratio e, se vogliamo, la giustificazione dei suoi – non indifferenti – costi sociali nella tutela dell’occupazione .
Il salario minimo è viceversa una misura a “costo zero” per la collettività, dal momento che grava sui datori di lavoro e si pone a beneficio di coloro che, pur risultando impiegati, non sono presumibilmente in grado di ricavare dal proprio lavoro sufficienti (recte, adeguate) risorse per il proprio sostentamento.
Nell’attuale scenario nazionale, l’incidenza della in-work poverty , drammaticamente acuita dalla recente emergenza pandemica, è dovuta, almeno in parte, alle difficoltà incontrate dalla contrattazione collettiva , la cui crisi si deve peraltro non già dall’assenza, bensì dalla proliferazione di un’attività di negoziazione cui prendono non di rado parte soggetti di dubbia rappresentatività (da ambo i lati ). Quest’ultima resta comunque difficilmente accertabile in assenza di criteri certi ed obiettivi (i.e. di matrice legale), la quale si lega ovviamente alla perdurante inattuazione dell’art. 39 Cost. , che non per nulla è il vero convitato di pietra di ogni discussione in tema di statutory minimum wage .
Come ampiamente noto, infatti, la “via italiana al minimo salariale” ha preso le mosse dal combinato disposto della “libera” attività di contrattazione collettiva, avente l’addentellato nell’art. 39, comma 1, Cost., e della giurisprudenza sulla retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost. .
Il descritto assetto ha ricevuto il sostanziale avallo dalla Corte Costituzionale che, in più occasioni , ha insistito sulla funzione di primo piano svolta dalla negoziazione tra le parti sociali nella dinamica salariale , pur non giungendo ad affermare l’esistenza di una riserva in favore della contrattazione in grado di precludere un’eventuale legislazione sui minimi .
La linea di “self-restraint” seguita dal legislatore in materia retributiva e la fiducia nella capacità di autoregolamentazione del sistema hanno – almeno sinora – trovato un deciso sostegno anche nel timore sindacale, non solo di un abbassamento della soglia reddituale fissata dalla contrattazione (pure a fronte delle spinte al decentramento) , ma anche e soprattutto della perdita delle proprie prerogative in punto di fissazione delle “tariffe” .
Ciò, però, come si avrà modo di rilevare, non costituisce l’inevitabile precipitato di un (o di ogni) intervento sui minimi, ma, come (di)mostra l’eterogenea esperienza comparata , dipende in larga parte dalle caratteristiche del modello di legislazione prescelto.
A fronte delle molteplici proposte, di segno diverso, attualmente in discussione in sede parlamentare , la presente trattazione si pone l’obiettivo, non di prendere posizione circa l’opportunità di una legislazione sui minimi (né tanto meno di preconizzarne gli effetti – positivi, negativi o…neutri – sull’occupazione, ampiamente dibattuti tra gli economisti ), bensì di offrire una panoramica sui principali nodi tecnici che l’eventuale manovra dovrebbe sciogliere al fine di garantire l’effettività del diritto di ogni lavoratore e di ogni lavoratrice alla “giusta mercede”.
2. Il campo di applicazione oggettivo: i delicati equilibri tra legge e contrattazione in un intervento sui minimi salariali
Avendo riguardo al rapporto tra la legge e la contrattazione collettiva nella determinazione dei livelli salariali, un’attenta dottrina ha di recente isolato tre diversi modelli cui il legislatore italiano potrebbe attingere nella prospettiva di una legislazione sui minimi .
Un primo schema è riconducibile all’art. 1, comma 1 lett. g) l. 10 dicembre 2014, n. 183, con cui il Governo veniva delegato, nell’ambito del progetto riformatore noto come Jobs Act, ad introdurre una misura ex lege nei (soli) “settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” .
Se tale limitazione poteva essere agevolmente ricondotta alla preoccupazione di non invadere la competenza delle parti sociali in materia retributiva, non risultava, tuttavia, affatto chiaro il significato della locuzione «settori non regolati da contratti collettivi», non essendo dato comprendere se il legislatore intendesse riferirsi alle imprese che non applicavano il contratto collettivo o, piuttosto, ai (veri e propri) settori privi di contrattazione collettiva .
Quest’ultima lettura, suffragata dal tenore letterale della disposizione , non pareva – né pare oggi – attagliarsi allo scenario delle relazioni industriali italiane, le cui criticità si lega(va)no, come anticipato, alla proliferazione e non all’assenza di attività negoziale nei diversi settori, e comunque rischia(va) di ingenerare un sistema duale tra le aree coperte, da un lato, dalla contrattazione, dall’altro, dalla legge .
Di converso, l’operatività del salario minimo nelle sole imprese non coperte dalla contrattazione collettiva (a cagione della mancata affiliazione del datore di lavoro o dell’assenza di un rinvio alle pattuizioni collettive da parte del contratto individuale) avrebbe potuto (e tuttora potrebbe) ingenerare una “fuga dalla contrattazione”, alimentata dal presumibile differenziale tra il salario legale e quello negoziale, fatto sempre salvo il diritto del lavoratore di rivendicare in giudizio il diritto alla retribuzione costituzionalmente adeguata .
Un secondo modello di legislazione sui minimi potrebbe ispirarsi alla soluzione adottata dal legislatore in materia di trattamento economico del socio lavoratore di cooperativa , basata sull’individuazione del contratto collettivo che, in quanto espressione della volontà delle associazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale, potrebbe ragionevolmente ritenersi in grado di meglio rappresentare gli interessi collettivi pure ai fini dell’art. 36 Cost. .
In questa direzione si è mosso il D.d.l. “Catalfo” , che ha inteso operare una selezione a monte degli agenti contrattuali (e, indirettamente, del contratto collettivo) dalla maggiore rappresentatività, mediante il rinvio ai requisiti soggettivi previsti ai fini della nomina dei rappresentanti presso il CNEL , pur contemplando la proposta anche un livello di retribuzione minima pari a 9 euro l’ora lordi, valevole come floor per la contrattazione collettiva .
Se, come ha affermato nitidamente la Corte costituzionale con riferimento alla retribuzione del socio di cooperativa , il rinvio mobile alla retribuzione fissata dai contratti collettivi selezionati sulla base dei criteri indicato dal legislatore non pone problemi di costituzionalità , è anche vero che una simile soluzione pare comunque costituire una sorta di escamotage , privo dell’ampio respiro e della vocazione universalistica che dovrebbe invece animare una legislazione sui minimi salariali . Soprattutto, in questo modo, non si avrebbe un salario minimo, ma tanti salari minimi differenziati sulla base dei diversi settori produttivi .
Proprio per questo parrebbe preferibile, laddove si intendesse davvero “rompere” con il tradizionale astensionismo del legislatore italiano in materia, ragionare sull’introduzione di un salario minimo intercategoriale ed interprofessionale , che non a caso costituisce il modello largamente più diffuso nell’esperienza comparata .
Tale soluzione non implicherebbe necessariamente il ridimensionamento del ruolo delle parti sociali nella determinazione dei livelli retributivi. Anzi. Se l’esempio della Grecia “post-crisi” (o, sarebbe meglio dire, “post o sub-Troika”), ove si assiste alla fissazione – sostanzialmente, d’imperio – dei minimi da parte delle autorità centrali , può fungere senz’altro da monito anche per l’Italia (specie laddove l’eventuale misura nazionale si collocasse in un piano emergenziale europeo o comunque “esterno” ), è altresì vero che nella maggior parte dei modelli stranieri le parti sociali svolgono funzioni consultive , se non addirittura negoziali/concertative , nella procedura di individuazione del minimo legale .
Ancora, la fissazione del quantum minimo ex lege (ma per via concertativa) gioverebbe nell’ottica dell’enforcement della misura, “inchiodando”, in combinazione con l’auspicabile introduzione di meccanismi sanzionatori riconducibili alle pene private (v. infra), alla propria responsabilità gli operatori, che non potrebbero trincerarsi dietro le incertezze circa il contratto collettivo (i.e. il livello salariale) applicabile.
Oltretutto, occupandosi la legge della sola retribuzione minima (i.e. sufficiente), la giurisprudenza potrebbe continuare ad operare la valutazione della proporzionalità del compenso ex art. 36 Cost. : tale scrutinio non potrebbe che avvenire (ancora una volta) sulla base delle pattuizioni collettive , con il conseguente effetto di promozione – e non di svuotamento – dell’azione sindacale , ma senza l’escamotage dell’indiretta estensione ex lege dei concordati di tariffa.
3. Il campo di applicazione soggettivo: la questione del “giusto compenso” nel lavoro non subordinato
In un’importante pronuncia del 2004, la Suprema Corte di Cassazione, nell’escludere il diritto del collaboratore coordinato e continuativo alla garanzia di cui all’art. 36 Cost., osservava che «il dato sociologico della condizione (ab origine) di sottoprotezione (cui l’ordinamento reagisce con la peculiare normativa “di sostegno”) costituisce un attributo tipico e specifico del solo lavoro prestato in regime di subordinazione» .
A distanza di poco più di un quindicennio, il quadro – non solo economico-sociale, ma anche normativo – pare proprio mutato .
Se, da un lato, non può non essere sottolineata l’assenza di una previsione generale in materia di compenso all’interno del – relativamente – recente “statuto del lavoro autonomo” (l. 81/2017) , dall’altro lato, è certamente visibile il processo di graduale estensione del diritto alla “giusta mercede” oltre l’area classica della subordinazione .
In questa direzione si collocano, inter alia, l’apertura alle collaborazioni coordinate e continuative nella delega del Jobs Act sul salario minimo legale , la fissazione di un compenso minimo a favore del collaboratore a progetto e del rider autonomo , senza dimenticare le vicende dell’equo compenso dei giornalisti non subordinati e, last but not least, dei celebri “voucher” .
Il descritto trend pare aver trovato un’importante conferma nella giurisprudenza, se si tiene a mente che, nella nota pronuncia della Corte d’Appello di Torino sui riders di Foodora, il Collegio piemontese, nell’estendere ai lavoratori etero-organizzati ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 (e, dunque, non subordinati) le tutele dei lavoratori dipendenti, ha richiamato, in punto di retribuzione, proprio l’art. 36 Cost. . Tale rinvio non era strettamente necessario nell’economia della decisione e proprio per questo sembra ancora oggi assumere una forte valenza simbolica , potendo rappresentare il segno di una nuova sensibilità ed attenzione verso i bisogni sociali della persona del lavoratore “a prescindere dalla qualificazione” , sulla scia dell’imperativo di cui all’art. 35 Cost. .
D’altro canto, dall’analisi comparata emerge che in diversi ordinamenti la garanzia del salario minimo varca i confini della subordinazione, estendendosi a favore di altri soggetti in posizione di dipendenza economica e/o organizzativa rispetto al committente: tra questi si segnala in particolare la figura del worker britannico , cui le Corti inglesi hanno da ultimo ricondotto le prestazioni degli autisti di Uber , i quali si sono così visti attribuire il compenso minimo legale (oltretutto parametrato alle ore di disponibilità e non al tempo di effettivo trasporto di passeggeri) .
Del resto, anche a livello internazionale, i molteplici documenti che mirano alla promozione dell’ideale del decent work si riferiscono testualmente al diritto al compenso minimo (adequate income) e non al (solo) salario minimo (minimum wage), muovendo in tal modo oltre i confini del lavoro subordinato ed anzi collocandosi in una dimensione “ampia ed onnicomprensiva” di tutela della persona che lavora .
Nella medesima direzione paiono da ultimo orientarsi anche le Istituzioni europee, anche se sinora a livello prettamente politico. In particolare, il Pilastro Europeo per i Diritti Sociali, frutto dell’intesa raggiunta al Vertice sociale europeo del 17 Novembre 2017, contiene una specifica previsione in materia di retribuzione adeguata , la quale potrebbe estendersi oltre il solo lavoro subordinato, così come inteso a livello nazionale .
A conferma dell’acquis europeo verso la garanzia del salario minimo , si segnala anche la recente iniziativa della Commissione Europea, la quale, all’alba del 2020, ha avviato una consultazione con le parti sociali ai sensi dell’art. 154 TFUE, allo scopo di valutare una possibile azione sul fair minimum wage a favore di tutti coloro che abbiano un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro ai sensi del diritto interno, ma “tenendo conto” della – tutt’altro che univoca – giurisprudenza della Corte di Giustizia sulla nozione di “lavoratore” .
Tale progetto, che lascia agli Stati membri la scelta circa la via della legge o della contrattazione collettiva (erga omnes e pure inter partes), si trova tuttavia a fare i conti con i limiti di cui all’art. 153, par. 5, TFUE, che, come ampiamente noto, esclude la competenza legislativa dell’Unione in materia retributiva , nonostante la Commissione abbia individuato nell’art. 153, par. 1, lett. b), che consente al legislatore europeo di intervenire in materia di “condizioni di lavoro”, la base giuridica per la (proposta di) Direttiva al momento oggetto di discussione .
4. La dimensione rimediale/sanzionatoria: la garanzia dell’effettività del diritto al minimum wage
A dispetto del carattere fondamentale del diritto alla retribuzione , la dimensione rimediale è tra gli aspetti meno diffusamente arati nelle indagini sul tema ed è perciò oltremodo significativo che di questo profilo abbia voluto direttamente occuparsi la citata proposta di Direttiva europea sui salari adeguati .
D’altro canto, per andare oltre al piano della semplice “moral suasion”, un intervento legale sui minimi dovrebbe essere assistito da un efficace apparato sanzionatorio, non potendo l’effettività della misura dipendere dalla sola iniziativa – di regola ex post, ovvero a rapporto ormai concluso – dei lavoratori in sede giudiziaria .
Indubbiamente, un effetto deterrente potrebbe discendere dall’impiego della sanzione penale , atta a reprimere, come nell’esempio britannico , i comportamenti irrispettosi della normativa sui minimi .
In – non rigida – alternativa, si potrebbe pensare pure ad un inasprimento delle sanzioni amministrative , eventualmente accompagnato da un potenziamento del ruolo degli organismi ispettivi .
Una soluzione ulteriore, che pare meritevole di approfondimento, potrebbe basarsi sul ricorso alla “pena privata”, di recente oggetto di una “riscoperta” da parte della civilistica italiana .
Si potrebbe così ipotizzare la fissazione di una somma a titolo di “penale” per le violazioni perpetrate dal datore di lavoro in materia di salario minimo legale, eventualmente accompagnata dall’espresso divieto di ritorsioni o rappresaglie datoriali a valle delle iniziative giudiziarie dei lavoratori . Potrebbe in proposito fungere da esempio l’esperienza del Fair Labor Standards Act del 1938 , nel cui contesto si è prevista, in ogni caso di violazione in materia di salario minimo (e orario di lavoro) , la corresponsione, a favore del lavoratore danneggiato, dei liquidated damages, ovvero di una diversa ed ulteriore somma, di natura sanzionatoria ma non stricto sensu punitiva , di importo pari a quanto dovuto a titolo risarcitorio .
Se, poi, le violazioni della normativa sul salario minimo da parte della stessa impresa riguardassero una pluralità di lavoratori, si potrebbe pure aprire in Italia – a differenza, singolarmente, degli Stati Uniti, ove non è di regola ammessa la class action in ambito lavoristico – la via dell’azione di classe: come noto, infatti, la l. 31/2019 ha esteso il ricorso a tale strumento ad ogni ipotesi in cui si tratti di accertare la responsabilità e ottenere la condanna per una lesione di “diritti individuali omogenei” – e il mancato pagamento della retribuzione senz’altro rientra nel novero di questi – perpetrata da un’impresa nello svolgimento della relativa attività . La normativa in parola consente peraltro di agire pure alle organizzazioni o associazioni senza scopi di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la tutela dei predetti diritti. Qui la mente corre naturalmente alle organizzazioni sindacali : si tratta di un campo tutto da esplorare, ma si può ragionevolmente ritenere che un’azione di classe promossa dal sindacato potrebbe porsi, nelle ipotesi di diffuse violazioni della normativa sui minimi, quale efficace alternativa, sul piano della deterrenza, alle “sanzioni reputazionali” quali il c.d. “naming and shaming” (i.e. la divulgazione dei nomi delle imprese che non riconoscono il minimum wage) .
Del resto, l’eventuale scelta di affidarsi unicamente alla capacità di auto-regolazione del mercato appare in subiecta materia invero paradossale, se si considera che ciò che normalmente spinge il legislatore ad intervenire sui minimi è proprio l’esigenza di correggere l’imperfetto funzionamento di un “mercato”, nel caso di specie del lavoro.