TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

testo della sentenza

1. Il “repêchage” quale fatto costitutivo del diritto di recesso
La sentenza in commento della Suprema Corte di Cassazione, n. 34051 del 18 novembre 2022 si pone in continuità con altre decisioni di consimile “ratio”, ossia la n. 33341 dell’11 novembre 2022 e la n. 34049, del 18 novembre 2022.
Nel breve volgere di pochi giorni tali arresti hanno ribadito i principi dell’applicazione della reintegra nel posto di lavoro, nell’ipotesi in cui l’illegittimità del licenziamento, per giustificato motivo oggettivo, sia accertata in relazione alla violazione dell’obbligo di “repêchage”, i cui adempimenti e la cui prova gravano sul datore di lavoro, come fatti costitutivi del diritto di recesso.
L’arresto si prospetta conseguente all’attuale assetto normativo dell’art. 18 legge n. 300 del 1970, definito dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022 .
Con la prima decisione n. 59/2021 la Corte Costituzionale ha sancito l’illegittimità costituzionale dell'art. 18, c.7, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (“Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”), come originariamente novellato dall'art. 1, comma 42, lett. b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (“Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”), nella parte in cui prevede che il Giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare”, invece che, come sancito dalla Consulta, “applica altresì” la disciplina di cui al medesimo art. 18, comma 4 .
Nella seconda decisione (n. 125 del 19 maggio 2022) l’illegittimità costituzionale della medesima norma è stata dichiarata limitatamente alla parola “manifesta”.
Risulta, così, modificato, il contenuto della disposizione predetta, introdotta a seguito della riforma “Monti-Fornero”, con sentenze manipolative, a carattere ablativo, implicanti la cancellazione dei termini “può” e “manifesta”, dal testo novellato che, allo stato, risulta del seguente tenore: “(Il giudice) applica altresì la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”
Resta, quindi, superato l’impianto logico – giuridico anteatto, secondo il quale, per dare applicazione al regime sanzionatorio della reintegra attenuata, di cui al 4° comma del novellato art. 18 Stat. Lav., (in luogo dell’indennità risarcitoria, prevista dal successivo 5° comma), era necessario un quid pluris, rispetto alla “insussistenza del fatto”, ossia rispetto al requisito costituito dalla dimostrazione dell’essere, appunto, “manifesta” l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il convincimento espresso dalla Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, muove da una lettura del testo residuato dall’intervento ablativo e manipolativo della Corte Costituzionale secondo la quale la sanzione della reintegra deve essere applicata dal Giudice in ogni caso in cui accerti l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, senza che occorra rilevare l’ulteriore requisito della “manifesta” insussistenza del fatto.
Nel senso che la locuzione “fatto posto a base del licenziamento…” è tale da includere la motivazione riconducibile a “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” di cui all’art. 3, l. n. 604/1966, nella quale deve intendersi inclusa, come fatto costitutivo, anche l’impossibilità di procedere alla collocazione “aliunde” del dipendente, eziologicamente licenziabile alla stregua della motivazione addotta.
Il nesso causale deve sussistere tra la motivazione stessa ed il licenziamento intimato e l’impossibilità della ricollocazione all’interno dell’organizzazione aziendale del lavoratore licenziato, in base alla considerazione che anche l’obbligo di repêchage si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso, inteso come extrema ratio attuativa della riorganizzazione aziendale a questo presupposta.
In effetti una tale lettura sembra trovare riscontro nella motivazione della pronunzia della Corte costituzionale, ove si legge: “il fatto che è all’origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo include tali ragioni (quelle di cui all’art. 3, l. n. 604/1966) e, in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore. Al fatto si devono dunque ricondurre l’effettività e la genuinità della scelta imprenditoriale” .
Su questa opzione interpretativa si poggia la logica binaria, incentrata sull’alternativa “netta” (così la definisce la Corte costituzionale) “sussiste/non sussiste” del presupposto risolutorio, riferita al fatto posto a base del licenziamento e ritenuta, sul piano della ragionevolezza, la sola plausibile, cui attinge il ragionamento della Corte Costituzionale .
Orientamento, questo, che muove da una concezione del licenziamento quale extrema ratio, per cui l’esercizio del potere di recesso è ammissibile, da parte del datore di lavoro, non solo laddove risulti effettiva, per le ragioni invocate, la soppressione del posto occupato dal lavoratore licenziato, ma, altresì, nel caso in cui si dovesse riscontrare l’impossibilità di una ricollocazione di quest’ultimo all’interno dell’organizzazione aziendale.
La soluzione adottata si prospetta in discontinuità rispetto a un precedente orientamento, segnato dall’arresto giurisprudenziale della decisione Cass. Civ. n. 25201 del 7 dicembre 2016.
Quest’ultima pronuncia si pone in difformità con l’orientamento da ultimo adottato dalla decisione in esame, valorizzando, invece, le esigenze di coerenza con le istanze di flessibilizzazione del rapporto di lavoro, recepite in sede legislativa con l’emanazione del “Jobs Act”, alla cui stregua il licenziamento per giustificato motivo oggettivo potrebbe essere legittimamente intimato a fronte di qualsiasi determinazione del datore di lavoro implicante la modifica dell’organizzazione aziendale, tale da riverberarsi sulla posizione del lavoratore rendendola eccedentaria, anche in ottica di contenimento dei costi e di spese straordinarie.
Si prescinderebbe, dunque, secondo tale orientamento, dalla ragione ritenuta rilevante in sé ed assunta a criterio discretivo del disposto riassetto organizzativo e della validità del licenziamento, risultando questo ammissibile ancorché solo fosse motivato “dalla necessità di fronteggiare sfavorevoli situazioni – non meramente contingenti – influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, o di sostenere notevoli spese di carattere straordinario”.
E’ evidente, in questa opzione interpretativa, un ritorno alle origini, in cui neppure si poneva il problema della scelta organizzativa a monte della soppressione del posto, ai fini della giustificazione del licenziamento per motivo oggettivo, per essere, l’organizzazione rigida, nella fabbrica fordista, modello tipico dell’impresa del tempo, connotata dalla riferibilità del lavoratore e della sua professionalità compendiata in un “mestiere”, o parcellizzata nell’adibizione ad una frazione del processo produttivo (strutturata su una “catena di montaggio”) ad una specifica postazione, sicché il licenziamento finiva per risultare conseguenza necessitata della soppressione di quella posizione, o postazione.
Non a caso originariamente la giurisprudenza giungeva ad individuare quale presupposto necessario e sufficiente ai fini della validità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il ridimensionamento strutturale dell’organizzazione di impresa, ovvero il venir meno della funzione cui era adibito il lavoratore nell’ambito di quella.
In particolare, è in relazione alla scelta di ristrutturazione aziendale che si riteneva realizzata la fattispecie legale del G.M.O. , regolandosi la questione ulteriore, dell’eventuale possibile ricollocazione del lavoratore in seno all’azienda, con riferimento al principio per cui l’imprenditore non è tenuto, al fine di consentirla, a modificare il proprio assetto organizzativo, fino al punto di essere obbligato a “creare” un nuovo posto di lavoro, così dando rilievo, nell’ambito del rapporto obbligatorio, alla garanzia di libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. ed ai poteri di organizzazione dell’imprenditore ed alle sue determinazioni.
In tale contesto trova spazio la considerazione dei fatti invocati a giustificazione del licenziamento, che si concretino in atti di natura organizzativo/gestionale insufficienti allo scopo risolutivo, poiché non riducibili a circostanze e scelte idonee ad integrare, in astratto, il presupposto organizzativo/gestionale del licenziamento stesso, dovendo farsi risalire queste alla volontà, o all’intenzione dell’imprenditore, di predisporre, o addirittura simulare, il mutamento organizzativo, o la vicenda produttiva dell’azienda, al solo scopo di disporre il licenziamento programmato.
Si prospetta, pertanto, un discrimine di diversa intensità tra i fatti presupposti al recesso, effettivi e riscontrabili, nei quali il “repêchage” configura un’attività, che può o meno realizzarsi utilmente, nella logica del rapporto di lavoro quale prestazione di scambio a titolo oneroso e situazioni nelle quali i fatti addotti siano pretestuosi ed inveritieri, solo funzionali all’espulsione del lavoratore dal contesto aziendale.
In sostanza, emerge il profilo della graduazione, secondo il criterio della gravità delle ipotesi di illegittimità del recesso, di fatto escluso dalla lettura della locuzione “fatto posto a base del licenziamento”, tale da includere anche l’impossibilità di una ricollocazione del lavoratore e ridurre, così, il problema della legittimità dell’esercitato potere di recesso all’alternativa netta “sussiste” o “non sussiste”.
Si è condivisibilmente osservato che “l’irragionevolezza dei criteri di diversificazione dei rimedi predisposti dall’art. 18 c.7 S.L. e la loro conseguente rimozione da parte della Corte Costituzionale non deve avere come ricaduta necessaria l’espansione della reintegrazione, non essendo tale rimozione preordinate a far riguadagnare terreno ad essa”.
Al riguardo il dato testuale contrappone il “fatto posto a base del licenziamento” alla “altre ipotesi in cui non ricorrano gli estremi del predetto giustificato motivo oggettivo” e ciò vale a dire che non necessariamente il fatto contestato si incorpora nel G.M.O. o nella giusta causa, di talché il “fatto posto a base” non sempre coincide con il G.M.O.
Risulta dal tenore di tale espressione l’apertura verso uno spazio di gradualità nella valutazione del “fatto posto a base” ai fini della applicazione del regime sanzionatorio, nel quale la reintegrazione non si configura come unico rimedio possibile.
Non si può, al riguardo, dimenticare che l’utilizzazione del termine “manifesta”, da parte del Legislatore, era funzionale proprio ad affermare che sussisteva, nella norma, un discrimine nello scenario della gravità del fatto, che si intendeva regolare attraverso la diversificazione tra la tutela indennitaria e quella reintegratoria .
Un’ esclusione che non appare logicamente sostenibile, se si tiene conto che la formula letterale residuata dall’intervento manipolativo della Corte costituzionale, “insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, è tale da consentire un’articolazione delle fattispecie invocate a giustificazione del licenziamento secondo il criterio della gravità connessa alla loro insussistenza e ad una selezione, alla stregua delle ipotesi applicative delle due concorrenti sanzioni (la reintegrazione nel posto di lavoro e l’indennità risarcitoria) su cui oggi ancora si struttura sul piano normativo il regime sanzionatorio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il che, di per sé, vale a sollevare dubbi sulla validità della ricostruzione dell’obbligo di “repêchage” quale elemento costitutivo della fattispecie; dubbi che divengono problematici se si considera la piena libertà di organizzazione del datore di lavoro, che osta a che il predetto obbligo possa essere considerato presupposto per il legittimo esercizio del potere di recesso del datore, se non nella misura residuale della ricorrenza, in concreto, della disponibilità, in seno all’azienda, di un impiego alternativo del lavoratore licenziando, dovendosi, pertanto, configurare la sua ricollocazione come fatto ulteriore ed eventuale, meramente impeditivo dell’esercizio del potere stesso e, come tale, fatto esterno alla fattispecie astratta.
2. I vizi di autosufficienza del ricorso per Cassazione, come forche caudine dell’esposizione del fatto.
La decisione inerisce a ricorso iscritto a ruolo nel 2020.
La pubblicazione della sentenza è del 18/11/22, in relazione ad adunanza camerale del 4/10/22.
Si prospetta coeva all’approvazione del D. Lgs del 10 ottobre 2022 n. 149, che ha recepito, ora, come disposizioni normative, negli artt. 360, 366 e 369 c. p. c. cpc, i principi giurisprudenziali resi in tema di autosufficienza del ricorso per cassazione.
A ben vedere la sentenza in esame ha dichiarato inammissibili, in rito, tutti i motivi dei ricorsi principale ed incidentale, fatto salvo il solo profilo accolto in punto di “repêchage”, graziato alla stregua della concomitante promulgazione delle sentenze n. 59/2021 e n. 125/2022 della Consulta, applicate di ufficio in base al principio “iura novit curia”, a vicenda processuale non ancora definita da giudicato.
La decisione non solo fa puntuale applicazione dei principi giurisprudenziali che hanno individuato i connotati della “autosufficienza”, ma li ha richiamati espressamente, nella parte motiva, quasi in funzione anticipatrice delle modifiche normative degli artt. 360, 366 e 369 cpc, sicché ha dato corso ad un’ideale legatura nella transizione tra i due consecutivi testi delle norme richiamate, passando dal c.d. “diritto vivente” alla stabilizzazione ordinamentale di questo, operata dal d. lgs.149/22.
Il testo del ricorso, da quanto risulta dal tenore della decisione, si configura quasi come una “summa” compendiata di tutti i possibili profili del vizio di difetto di autosufficienza del ricorso per cassazione: per carenza allegatoria relativa alla individuazione “topografica” degli atti e delle fasi processuali pregressi, asseritamente contenenti le censure proposte, altrimenti ricadenti nel divieto di “ius novorum”; di mancata trascrizione, nel corpo dei rispettivi ricorsi, degli atti (nella specie: capitolati istruttori; testo della lettera di licenziamento; descrizione mansioni superiori) funzionali a consentire alla Corte la valutazione delle censure, senza dover compiere attività di ricerca nei fascicoli processuali; di argomentazioni proposte “per relationem” in difetto di specificità; per censure relative a profili frammisti tra “violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 c.1 n.3 cpc, “connotate da mescolanza e sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, formulati senza adeguata indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi tra quelli tipicamente indicati”.
Oltre a censure contenenti istanze di riapprezzamento del fatto, tradizionalmente insuscettibili di doglianza in cassazione, o non pertinenti al decisum.
Gli artt. 360 e 366 del codice di rito, nel testo ultimamente introdotto dalla riforma del d.lgs. 10/10/22 n. 149, regolano i profili ed i contenuti dei motivi di impugnazione per cassazione, quale mezzo di gravame ordinario (art. 323 cpc) applicabile anche alle materie disciplinate dalla legge 533/73 sul processo del lavoro.
Queste, nel grado di Cassazione, non si sottraggono, dunque, ai limiti della critica vincolata propri del processo di legittimità, nel senso che non è ammissibile il ricorso che denuncia una generica ingiustizia, senza individuare la violazione di uno o più dei profili delle categorie logiche previste dalla legge.
E’, pertanto, inammissibile – come correttamente rilevato dalla sentenza in esame - la critica generica della decisione impugnata, formulata attraverso motivo costituito da molteplicità di profili di doglianza, tra loro eterogenei, confusi ed inestricabilmente combinati, non riconducibili a nessuna delle categorie specifiche di vizio, stabilite dal legislatore con l’art. 360 cpc.
Sussiste, pertanto, il recepimento, da parte del legislatore, di due indirizzi, sempre più restrittivi, fatti propri dalla Corte di Cassazione nella sua elaborazione giurisprudenziale, confluita, da una parte, nella pretesa di assoluta precisione, pertinenza e determinatezza espositiva, in fatto e diritto, dei contenuti del motivo del ricorso, dall’altra, nell’ampliamento dello scenario dei vizi funzionali a condurre all’inammissibilità del ricorso, legati largamente al difetto di c.d. “autosufficienza”.
Tale vizio, antecedentemente alla modifica dei numeri 3, 4 e 6 dell’art. 366 c.1, che ne recepiscono, ora, le nozioni tipiche, ad opera della novella del D.lgs. 149/22, risultava oggetto di creazione giurisprudenziale, con elaborazioni diverse tra loro.
Il principio di “autosufficienza” del ricorso per Cassazione trova prime applicazioni, da parte della Corte, in relazione alle censure proposte in relazione all’art. 360 c.1 n. 5 cpc.
Progressivamente, è stato esteso anche agli altri profili della norma, in relazione alle prescrizioni dell’art. 366 c.1 n. 3 e 4 cpc.
L’autosufficienza richiede la formulazione, nel ricorso, in maniera sintetica, chiara, specifica e pertinente rispetto alla decisione impugnata, dei fatti di causa e delle argomentazioni poste a sostegno delle censure, all’interno delle categorie logiche dell’art. 360 cpc, esigendo l’esatta individuazione, nelle questioni appartenenti al processo, dei documenti o degli atti rappresentativi del vizio lamentato.
Il principio richiede, inoltre, a seconda della loro strumentalità rispetto alla censura, la riproduzione nel testo del ricorso, o la sintetica indicazione, delle parti dei documenti o degli atti posti a base delle critiche, per consentirne l’analisi da parte del giudice di legittimità solo attraverso il ricorso stesso, senza dover accedere ai fascicoli processuali, o ad altre fonti o atti del processo, inclusa la sentenza impugnata, come corollario del requisito di specificità dei motivi di impugnazione .
In sintesi, il principio è funzionale ad evincere esattamente l’oggetto della pretesa e dei motivi di impugnazione, all’interno della griglia dei profili di critica vincolata previsti dall’art. 360 cpc, con gli elementi allegatori che consentono di verificare la loro rispondenza con le categorie logiche previste .
Senonché il testo originario dell’art. 366 cpc, senza le addizioni apportate, da ultimo, dalla novella del d.lgs. n. 149/22, era già di per sé funzionale a postulare l’esigenza che le censure rispondessero, a pena di inammissibilità del ricorso, a criteri di chiarezza, pertinenza e specificità rispetto alla decisione impugnata .
Costituiscono “ius receptum” i principi secondo i quali la funzione e la struttura del giudizio di cassazione, dominato dalla regola della specificità dei motivi del ricorso “a critica vincolata”, comportano che, attraverso quest’ultimi, non si possono dedurre, a pena di inammissibilità, questioni che non sono state poste dinanzi al Giudice di merito e che, quindi, per essere risolte implicherebbero accertamenti di fatto.
Non può essere dedotto come vizio di diritto un errore nell’accertamento del fatto, né chiedersi un nuovo esame delle risultanze processuali, o lamentare un travisamento dei fatti .
I vizi devono essere individuati esattamente in relazione ai profili di critica vincolata, non potendosi censurare per violazione di legge un vizio di motivazione .
Le censure devono essere riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad uno dei cinque motivi di impugnazione previsti dall’art. 360 c. 1cpc
Il nuovo testo dell’art. 366 cpc recepisce, traducendoli in norme, tali principi evidenziati dalla giurisprudenza, sicché: prevede che il ricorso debba contenere: “la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione”.
La novità, abbastanza pleonastica, della novella del 2022, si incentra sostanzialmente sulle necessità di “chiarezza e sinteticità” del motivo di ricorso, che divengono regole, laddove in precedenza, già costituivano oggetto di orientamenti consolidati che li affermavano .
II primo requisito è riferito alle modalità di allegazione dei fatti, che devono risultare intellegibili ed univoci .
Il secondo, invece, postula che il motivo, sempre nel rispetto del principio di autosufficienza, contenga l’esposizione dei soli fatti rilevanti per il giudizio di cassazione, in quanto indispensabili all’esatta comprensione delle censure, la cui esposizione dovrà ritenersi rispettosa del concetto di sinteticità .
I requisiti della chiarezza e della sintesi sono autonomi tra loro, seppur indubbiamente collegati, in quanto un testo è chiaro quando è esattamente comprensibile .
La sinteticità è funzionale ad evitare prolissità e ripetizioni.
Ciascun motivo deve ora fare riferimento al documento ad esso inerente ed il contenuto di tale documento deve essere richiamato nel motivo, ai fini della sua comprensibilità.
Tale regola deve considerarsi rispettata se l'indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali il ricorso si fonda, consista nella sintesi del contenuto, o della trascrizione dei passaggi salienti .
In passato altro indirizzo giurisprudenziale ne prescriveva l’integrale trascrizione nel ricorso .
L’osservanza dell'onere di deposito regolato dall'art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., è, ora, realizzata laddove il documento o l'atto, specificamente indicati nel ricorso, siano correlati ad un riferimento che consenta di identificare la fase del processo di merito nella quale tali evidenze siano state prodotte, o si siano formate .
C’è da chiedersi se tale complessivo vincolo normativo, inerente più alla forma che alla sostanza dell’impugnazione, sia coerente con le pronunce secondo le quali il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ex art. 366, comma 1, n. 6), cpc deve risultare rispettoso del principio di proporzionalità di cui all'art. 6, par. 1, della CEDU, non trasmodando in un eccessivo formalismo .
Dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo si trae il monito, infatti, di ancorare le sanzioni processuali al canone della proporzionalità e di dare la prevalenza a soluzioni interpretative orientate a permettere al processo di giungere al suo esito naturale .
La sentenza in esame, con il puntiglioso esame dei profili allegatori dei ricorsi principale ed incidentale, ha pertanto reso severa applicazione, già alla stregua degli antecedenti orientamenti, degli sbarramenti posti all’ammissibilità del ricorso oggi divenuti legge, che prospettano di trasformare il processo di Cassazione in un attraversamento “di forche caudine”, vieppiù rappresentate dal minaccioso filtro di cui all’art.380 bis novellato cpc, a discapito della natura di tale grado, che sussume nella funzione nomofilattica anche quella di Giudice di ultima istanza, ossia di ultimo possibile rimedio assicurato contro le decisioni inesatte del Giudice di merito.

 

 

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.