Testo integrale con note e bibliografia
1) Pluralismo contrattuale e criticità indotte
Il tema della “categoria” quale ambito applicativo del contratto collettivo fu affrontato dai Costituenti senza particolare consapevolezza delle implicazioni e con una evidente discrasia tra il portato del 1° co. dell’art. 39, intestato alla piena libertà della organizzazione sindacale, e il comma 4° imperniato appunto sulla esistenza di precostituite “categorie alle quali il contratto si riferisce”. Se infatti la categoria di cui al precetto costituzionale viene intesa in senso merceologico il contrasto con il 1° c. dell’art. 39 è palese, in ragione della compressione della libera perimetrazione dell’ambito applicativo del contratto collettivo; se, invece, viene riferita all’ambito volontaristicamente sotteso al contratto collettivo la norma espone al rischio di una proliferazione di contratti collettivi di comodo il cui ambito è ritagliato in modo da garantire la costituzione di un agente contrattuale egemonizzato da singole forze sindacali, in ragione del criterio della “proporzionalità”.
Dopo una lunga fase nella quale il diritto sindacale vivente con il consenso di entrambe le parti sociali ha risolto o meglio aggirato il problema senza istituzionalizzare l’erga omnes dei contratti collettivi, i nodi sono venuti al pettine allorquando l’esasperazione del pluralismo sindacale ha prodotto una pluralizzazione ingovernata di contratti collettivi, anche (ma non solo) entro una medesima categoria e frequenti fenomeni di concorrenza contrattuale al ribasso.
Tre sono i versanti sui quali l’eccessivo pluralismo contrattuale ha indotto criticità:
a) la selezione del contratto leader o di riferimento in relazione al sempre più frequente rinvio della legge alla autonomia collettiva, in chiave integrativa o derogatoria;
b) la affermazione nell’ordinamento intersindacale di una rappresentatività quantificata o misurata, idonea a conferire specifiche legittimazioni in tema di contrattazione collettiva ancorate al raggiungimento di determinate percentuali: ad esempio l’ammissione ai tavoli negoziali condizionata alla soglia del 5%; la piattaforma di partenza per la trattativa quella presentata da oo.ss. che abbiano un livello di rappresentatività pari almeno al 50%; il ccnl valido e vincolante quello sottoscritto da oo.ss. che presentino almeno il 50% + 1 della rappresentanza.
c) La necessità di ostacolare forme di dumping sociale – economico e normativo -, realizzato attraverso la migrazione datoriale verso contratti collettivi meno onerosi (o addirittura “pirata”), attuata tramite la mera adesione alle organizzazioni stipulanti tali contratti.
Tutte tali questioni – come si vedrà – intersecano la delicata problematica della “categoria” contrattuale di riferimento: nel primo e nel secondo caso in ragione della necessità di individuare l’ambito entro il quale va verificato il possesso della patente di rappresentatività idonea a consentire l’integrazione della fattispecie legale o a conferire determinate legittimazioni in materia contrattuale; nel terzo caso con l’obiettivo di ostacolare prassi o sedi contrattuali strumentali e “al ribasso” e fenomeni di concorrenza tra le imprese fondata sul minor costo del lavoro.
2. Il contratto leader o di riferimento per il legislatore
Come è noto la scelta del contratto collettivo cui riconoscere la facoltà di materiare il rinvio operato dal legislatore viene ormai comunemente operata mediante riferimento al prodotto di una autonomia collettiva particolarmente qualificata in quanto proveniente da organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative o (più spesso) comparativamente più rappresentative. Criterio selettivo, questo, appunto in grado di valorizzare la fonte contrattuale più genuina e attendibile.
Una volta consolidato normativamente il criterio selettivo (associazioni sindacali comparativamente più rappresentative) e i parametri cui ancorare la rilevazione (numero degli iscritti e numero dei votanti alle elezioni delle RSU, secondo le indicazioni provenienti dall’ordinamento intersindacale), resta tuttavia da chiarire quale sia l’ambito, il perimetro entro cui procedere alla ricognizione della rappresentatività. E’ evidente, infatti, che i risultati saranno nettamente diversificati se l’ambito viene identificato oggettivamente con una categoria omogenea dal punto di vista merceologico o viceversa, con il settore contrattuale sotteso a un CCNL vigente o, infine, con una sottocategoria frutto di uno smottamento o di una segmentazione associativa. Il grado di rappresentatività delle singole organizzazioni sindacali risulterà diverso in funzione dell’ambito prescelto e conseguentemente problematica o falsata sarà l’individuazione del contratto collettivo oggetto della “delega” legislativa.
Come è evidente, qui non si tratta di tornare al problema della “categoria” quale ambito di operatività del contratto collettivo, che resta affidato alla autodeterminazione delle parti stipulanti, si tratta di delimitare il bacino entro il quale deve essere effettuata la misurazione della rappresentatività del sindacato (tramite il mix di voti e di iscritti), postulata a vari fini di legittimazione selettiva dal legislatore o dagli accordi sindacali.
3. La rappresentatività misurata
Problemi analoghi si rinvengono con riferimento alla selezione di talune specifiche legittimazioni contrattuali ancorate al raggiungimento di determinate percentuali.
Pur se la ponderazione comparativa resta affidata al medesimo mix di criteri (iscritti/votanti), diviene prioritaria e dirimente l’individuazione dei confini entro i quali la conta va effettuata. E, come si vedrà, il fatto che non sia
determinabile a priori – in ragione del contrasto con il principio di libertà sindacale e della pluralità di contratti collettivi concorrenti – “una categoria” nell’ambito della quale effettuare la comparazione rende la misurazione non praticabile. Il punto debole della formula della rappresentatività misurata è, dunque, costituito dalla difficoltà di individuare il contesto categoriale nel quale essa va misurata.
4. c Il contrasto ai fenomeni di dumping sociale
Anche i tentativi di ostacolare o impedire fenomeni di dumping contrattuale si imbattono nella difficoltà di definire il perimetro entro il quale va effettuata la comparazione di rappresentatività con l’obiettivo di selezionare il contratto collettivo vincolante il datore di lavoro al di là del criterio associativo.
Basti pensare all’art. 2, c. 25, della l. 28.12.1995 n. 549 che – nell’ottica di impedire fenomeni di dumping sociale derivanti dalla comparsa di accordi collettivi alternativi a quelli storici e stabilizzati – individua la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali in “quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria”, oppure, ancora, alle varie norme che tendono a limitare la concorrenza fondata sul costo del lavoro in tema di appalti pubblici (artt. 23, c. 16 e 30, c. 4, d.lgs. 18 aprile 2016 n. 30) ove appare privilegiato il riferimento oggettivo alla attività svolta dalla impresa, o alla disciplina degli sgravi e degli incentivi (art. 1, c . 1175, l. 27.12.2006 n. 296) secondo cui i benefici normativi e contributivi sono subordinati al “rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Problema in parte simile si pone poi in ordine all’inveramento giurisprudenziale del precetto dell’art. 36 Cost. in assenza di un criterio selettivo che aiuti il Giudice nella individuazione del contratto collettivo
chiamato ad esprimere un parametro di proporzionalità e sufficienza della retribuzione.
3. Le proposte in campo e i loro limiti
La difficoltà di definire il perimetro utile per la ricognizione della rappresentatività comparata ha provocato disorientamenti applicativi nonché plurime proposte de iure condendo.
Talune si pongono nell’ottica di una assoluta eteronomia affidando al legislatore o a un soggetto terzo (il Ministero del lavoro, il Cnel, l’INPS) la perimetrazione del “campo di gioco” nel quale accertare la rappresentatività. Qui, tuttavia, il contrasto con il principio costituzionale della libertà sindacale è macroscopico.
Il 1° c. dell’art. 39 tutela anche la libertà da ogni coazione (anche indiretta) a concentrare la presenza associativa ed elettorale, e quindi le strategie sindacali, in un contesto piuttosto che in un altro. Ed è evidente che la imposizione dell’ambito entro il quale va misurata la rappresentatività incide negativamente su tale libertà, penalizzando la scelta del sindacato che abbia sviluppato la propria azione in un ambito merceologico diverso da quello eterodeterminato o in riferimento a un gruppo professionale invece che a una categoria industriale, nel livello aziendale piuttosto che in quello nazionale.
Se, infatti, è consentito al legislatore o ai poteri pubblici privilegiare determinate oo.ss. e i loro prodotti contrattuali attraverso una comparazione di rappresentatività, non è permesso di interferire pesantemente sull’ambito nel quale questa va misurata, pena un condizionamento eccessivo della libertà organizzativa e strategica del sindacato, conseguente alla imposizione dei “luoghi” o dei livelli nei quali concentrate affiliati e voti, nella prospettiva di conseguire una patente di rappresentatività “privilegiata”.
Analoghe perplessità suscita il tentativo del Cnel e dell’INPS di fornire elementi utili, mediante la verifica della diffusione dei contratti collettivi
ovvero del numero di datori (e correlativamente dei lavoratori) che li applicano, acquisito tramite il modello Uniemens.
E’ appena il caso di chiarire che si tratta di una mera fotografia statica del dato quantitativo poco utile a evidenziare la reale affiliazione sindacale (= rappresentatività) dei datori e lavoratori vincolati ai singoli contratti.
I perimetri entro i quali ciascuna organizzazione sindacale deve presentare i requisiti numerici di rappresentatività ai fini delle diverse legittimazioni selettive non possono, insomma, essere autoritativamente determinati dal legislatore, dal Ministero, dagli esperti del Cnel o da non meglio specificate Commissioni paritetiche, se non a costo di un frontale contrasto con il primo comma dell’art. 39 Cost. Tanto più che la perimetrazione dell’ambito finisce con l’incidere sulla attribuzione di fondamentali prerogative dell’azione sindacale ed è capace di esaltare o inibire significativi diritti e legittimazioni delle associazioni sindacali. Sarebbe infatti agevole per un soggetto pubblico investito di tale potere determinare un ambito di misurazione tale da penalizzare un sindacato scomodo.
4. Due alternative per la soluzione del problema
A fronte di simili difficoltà, di ordine anche costituzionale, l’alternativa è quella di prendere in considerazione come bacino per la misurazione non già dimensioni convenzionali discrezionalmente determinate, bensì le uniche dimensioni perimetrali di tipo fisico – l’azienda e il territorio nazionale – che, come tali, si sottraggono alla censura di etero o autodeterminazione (aleatoria) dell’ambito, avendo una loro realtà per così dire ontologica, non affidata alle opzioni del legislatore o dell’autonomia collettiva.
Ove venga in considerazione un profilo di rappresentatività interno alla azienda nessun dubbio di legittimità o di opportunità potrà porsi in ordine all’ambito (aziendale) entro il quale verificare le percentuali di iscritti e votanti.
Quando, viceversa, lo scrutinio di rappresentatività riguarda il livello nazionale, il computo delle percentuali potrà essere riferito non già ad un
bacino categoriale suscettibile di opzioni mutevoli e fuorvianti (e magari in rotta di collisione con il principio di libertà sindacale), ma all’intero territorio nazionale, ambito fornito di intrinseca oggettività.
In questa ottica, il numero di voti e di iscritti andrebbe misurato con riferimento a ciascuna confederazione o comunque alla più elevata istanza organizzativa a livello nazionale (per le oo.ss. prive di una strutturazione confederale) e poi percentualizzato sul totale dei votanti e degli iscritti alle organizzazioni sindacali nel Paese. Così, quella misurazione, del tutto aleatoria se riferita ad ambiti imposti o cangianti, troverebbe un aggancio, non esposto ad alcuna discrezionalità politica, nel complessivo perimetro fisico delineato dal confine territoriale nazionale.
So bene che una simile soluzione si esporrebbe a obiezioni di tipo politico, soprattutto, da parte di associazioni sindacali che non presentino una adesione a confederazioni significative o che non aderiscano ad alcuna confederazione. Tuttavia, la soluzione avrebbe dalla propria parte sia un disegno di politica del diritto di alto lignaggio, in quanto il riferimento alle Confederazioni risale alla originaria formulazione dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, che appunto privilegiava la rappresentatività confederale, sia la legittimazione da parte di alcune pronunzie della Corte costituzionale degli anni ’70 e ’80.
Né può essere trascurata la indiretta sollecitazione di un opportuno effetto di compattamento e di semplificazione della eccessiva articolazione sindacale esistente, dal momento che verrebbe promosso l’interesse delle sigle sindacali a confluire in confederazioni che già presentino un numero consistente di iscritti e di votanti.
L’alternativa a una simile soluzione è solo quella di far tornare indietro le lancette dell’orologio della storia sindacale e recuperare la più duttile nozione della “rappresentatività presunta” o “storica”, desunta dai criteri all’epoca ben individuati da dottrina e giurisprudenza (diffusione nei vari comparti contrattuali, diffusione territoriale, interlocuzione con i soggetti pubblici,
etc). Il contratto collettivo leader o di riferimento per le deleghe normative sarebbe quello sottoscritto da oo.ss. che di per sé, o per la confederazione cui aderiscono, presentano i requisiti storici della rappresentatività: con il ché sarebbe superato in radice ogni problema in tema di misurazione e di perimetro, ferma restando l’inevitabile incertezza applicativa nelle ipotesi di confine.
Una simile impostazione è stata adottata da una Circolare del Ministero del lavoro del 1 giugno 2012 che ha recuperato gli indici sintomatici della rappresentatività, peraltro declinati a livello Confederale, al fine di individuare il contratto collettivo da utilizzare per la determinazione del minimo contributivo. La Circolare, peraltro, ha ricevuto l’avallo del TAR Lazio (sent. n. 8865/2014), della Corte costituzionale (sent. n. 51/2015) nonché di numerose pronunzie di merito e di legittimità relative sia al tema del minimale contributivo che a quello della retribuzione dei soci lavoratori delle cooperative.
E’ appena il caso di sottolineare, in conclusione, che la soluzione del problema del perimetro o della categoria entro i quali misurare la rappresentatività sindacale appare allo stato indifferibile, pena la vaghezza o contraddittorietà di uno dei pilasti sui cui si regge l’intero edificio del Diritto sindacale italiano.