TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. I quesiti e dubbi
Il primo interrogativo, per introdurre una normativa specifica sui minimi retributivi, è se sia ne-cessario, opportuno o possibile estendere erga omnes i contratti collettivi «nazionali», senza considerare o in deroga all’art. 39 Cost.
L’esame sulla libertà sindacale porta alla questione, conclusiva ed assorbente, se le ipotetiche retribuzioni minime fissate per legge possano essere o diventare insindacabili: al contrario, è sempre possibile e doveroso un controllo giurisdizionale sulla congruità delle retribuzioni, in applicazione dell’art. 36 comma 1 Cost. che pone una norma “indeterminata”, con rinvio alla “coscienza sociale”. Potrebbe essere necessario, però, un “minimo fisso”, che sarebbe in attua-zione degli artt. 32 comma 1 e 117 lett. m) Cost. senza interferenze con l’art. 39 Cost.

2. Ipotesi e negazione di legami e condizionamenti reciproci fra l’art. 36 comma 1 e l’art. 39 Cost.
Vanno ricordate le origini, per un momento solo, in quanto quei vecchi problemi si ripropon-gono ora, contro-tempo.
Subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione circolò l’idea che, per attuare l’art. 36 comma 1 Cost., sarebbero stati necessari i contratti collettivi “erga omnes” previsti dai commi 2 e se-guenti dell’art. 39 Cost.. Ma era un falso e, dopo un momento, si capì che non c’è alcun legame e condizionamento con l’art. 39 Cost., mentre lo scopo di individuare ed imporre i minimi co-stituzionali ex art. 36 comma 1 Cost. è raggiunto direttamente in altro modo e cioè in via giuri-sdizionale.
All’inizio, però, ci fu un gioco per tentare di negare l’efficacia immediata e diretta delle norme costituzionali ed in particolare per tentare di negare l’efficacia dell’art. 36, a causa – tra l’altro – di un asserito legame e condizionamento con l’art. 39 che richiede espressamente una legi-slazione d’attuazione. In questo modo, con logica effimera si tentò in fondo di negare efficacia anche al principio di libertà sindacale ex comma 1 dell’art. 39 Cost., relegata fra le regole “bel-le” ma inutili, come quella dell’art. 1 comma 1 Cost. per cui «l'Italia è una Repubblica democra-tica, fondata sul lavoro».
C’erano deduzioni a catena e falsi-sillogismi. Il primo falso è stato che l’art. 36 Cost. fosse solo “programmatico” e non “precettivo” – senza efficacia diretta – in particolare perché legato all’art. 39 comma 2 e ss. che richiede espressamente per l’applicazione una normativa d’attuazione; il legame con l’art. 39 comma 2 e ss. comporterebbe che la «giusta retribuzione» potrebbe essere definita ed imporsi solamente con la contrattazione collettiva, anzi solo con quella resa “erga omnes”.
Il sistema di risulta non è influenzato dalla riconduzione al diritto privato dei contratti collettivi post-corporativi (senza l’erga omnes dell’art. 39 comma 1 e ss.) che prevedono trattamenti con efficacia limitata e di parte.
C’è un’ulteriore deduzione, non sempre evidenziata per la sua semplicità: proprio la normativa costituzionale dei contratti erga omnes per ogni «categoria» (art. 39 comma 2 ss. Cost), con-ferma che ci sono tante «giuste retribuzioni» per ogni categoria, e non una sola per tutte.
Si deducevano connessioni e condizionamenti reciproci fra «giusta retribuzione» ex art. 36 e «contratti collettivi erga omnes» ex art. 39 comma 2 ss. Cost. Ma fu un attimo solo, perché i giudici cominciarono subito ad applicare l’art. 36 comma 1 Cost. (in connessione, in verità inu-tile, con il vecchio art. 2099 c.c.) per indicare ed imporre le retribuzioni minime, proporzionate «alla quantità e qualità» del lavoro, mentre la norma sulla sufficienza, in particolare con rife-rimento alla famiglia («in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza li-bera e dignitosa»), fu talvolta interpretata quale rinvio esclusivo alla normativa degli assegni familiari, mentre va intesa quale livello generale per «una vita a misura d'uomo» ( ).
L’applicazione diretta dell’art. 36 comma 1 Cost. già prova che non c’è legame e condiziona-mento con l’art. 39 Cost., perché lo scopo di individuare ed imporre i minimi costituzionali è raggiunto anche in altro modo con l’art. 36 e cioè con l’utilizzo di vari criteri e parametri “indi-cativi” ed in particolare con riferimento ai contratti collettivi “di diritto comune”, preferibil-mente nazionali. Tanto meno c’è una “riserva” a favore della contrattazione collettiva (secon-do una vecchia teoria morta dopo la giurisprudenza costituzionale sulla “legge Vigorelli” n. 741 del 14 luglio 1959), perché, per la misura della giusta retribuzione, i giudici hanno fatto rinvii solamente “indicativi” e non rigidi ai contratti collettivi, con possibilità quindi di andare oltre e di utilizzare anche criteri diversi. Ad es., quando si affermava che in una determinata zona i minimi dei contratti collettivi sarebbero stati troppo alti o troppo bassi, si utilizzavano criteri territoriali (ma, come si vedrà, la tesi è controversa). L’applicazione diretta dell’art. 36 comma 1 Cost. non ha costituito un escamotage per rendere erga omnes i contratti collettivi evitando il procedimento ex art. 39 comma 2 e ss. Cost.: dall’esperienza continua viene la conferma che l’art. 36 comma 1 Cost. si applica direttamente ai singoli, con la mediazione giurisdizionale.
Per la «giusta retribuzione» non c’è stata, dunque, alcuna “supplenza” dei giudici, che hanno solo applicato direttamente una norma “indeterminata” dettata con due criteri (proporzionali-tà e sufficienza) che «si integrano a vicenda»: i giudici hanno applicato l’art. 36 comma 1 Cost. direttamente e non solo con interpretazione praeter legem e tantomeno hanno creato una norma che non c’è.
La Corte costituzionale ha affermato sulle norme indeterminate ( ): «Il legislatore può far rife-rimento a concetti che hanno la loro fonte o in altre discipline dell’ordinamento o in altri set-tori dello scibile o addirittura in regole che vengono dal costume o dalla sensibilità sociale. Un fenomeno normativo non infrequente, di cui esempi classici sono quelli del concetto di “osce-no”, o di “comune sentimento del pudore”». La “norma indeterminata” è necessaria per defini-re valori e comportamenti umani, variabili e relativi, per cui sono impossibili parole precise (ad es. l’onore ed il decoro, per l’ingiuria; la reputazione, per la diffamazione). Per il diritto privato si dice anche «norma elastica» o «clausola generale», come se la legge equivalesse ad un con-tratto, e nel diritto penale «norma in bianco», in modo apparentemente paradossale dove il requisito della specificità è più evidente.
È dunque normale l’uso di norme indeterminate, particolarmente frequente in diritto del lavo-ro (ad es. art. 2087 e soprattutto art. 2119 c.c.). Eppure c’è stata o c’è diffidenza contro norme indeterminate o clausole generali, come si deduce dall’inutilità di una norma che avrebbe do-vuto limitarle ( ).
Il problema è allora se la norma indeterminata dell’art. 36 comma 1 Cost. – per cui i giudici debbono individuare la giusta retribuzione quali interpreti e “bocca della società”, come se la società fosse una persona – possa essere condizionata o limitata da contratti collettivi erga omnes o da una legge che fissi misure o criteri precisi.
L’efficacia immediata sui singoli porta subito a concludere che per effetto dell’39 Cost. non si può condizionare o limitare l’art. 36 Cost., che prevede diritti fondamentali della persona.

3. Criteri e parametri indicativi in attuazione e conferma della norma “indeterminata” ex art. 36 comma 1 Cost.
L’«indeterminatezza» dell’art. 36 comma 1 Cost. vuol dire rinvio alla “coscienza sociale”, di cui spetta ai giudici interpretare la volontà: in questa ricerca si può utilizzare in via indicativa qua-lunque criterio o parametro, con possibilità di giudicare la congruità delle retribuzioni previste dai contratti collettivi in vigore. La legge impone la determinabilità del corrispettivo del lavoro, con potere d’accertamento del giudice in base ad equità, in caso di clausola inesistente o nulla per non-congruità ex art. 36 Cost.
Per individuare ed imporre i minimi ex art. 36 comma 1 Cost. sono stati utilizzati crite-ri/parametri presuntivi, vari per tempi, settori, luoghi ed altro: non c’è però contraddizione, come già osservato, perché la Costituzione pone con gli artt. 36 e 39 tanti minimi, e non un mi-nimo solo, nel fare riferimento alle varie e distinte categorie. E poi ci sono ulteriori “minimi”, ad es. per le pensioni e per le altre prestazioni previdenziali (art. 38 Cost.), come ugualmente a fini fiscali o di garanzia dei crediti (impignorabilità).
L’uso in via giurisdizionale di criteri/parametri, per individuare le giuste retribuzioni (al plurale, quale trattamento economico nel suo complesso), è sempre in via presuntiva ed indiziaria, quale espressione dell’equità, con possibilità quindi di giudicare certi trattamenti, ed in partico-lare quelli dei contratti collettivi, troppo bassi ed insufficienti, ma anche troppo alti indicando come congrue, nei singoli casi di specie, retribuzioni inferiori.
C’era un periodo in cui qualcuno affermava che i contratti collettivi nazionali (Ccnl) prevede-rebbero minimi troppo alti, perché commisurati sulle zone di maggior benessere, inadatti in si-tuazioni meno buone: il problema è allora dei criteri/parametri, vietati se discriminatori, come quelli basati sul sesso, ora ridicoli ma ancora utilizzati negli anni ’60. Si tentò anzi di distinguere dai contratti nazionali quelli di «categoria», che potrebbero essere non-nazionali anche se li-mitati ad una sola grande impresa: ora però, almeno nei disegni di legge, sono considerati i contratti «nazionali».
L’excursus dei vari criteri/parametri per individuare i minimi in base alla coscienza sociale, fatto in particolare dalla Cassazione nell’ottobre 2023 con due gruppi di tre pronunzie ( ), potrebbe lasciare un’idea di frammentarietà: al contrario l’uso di questi criteri/parametri è coerente con le norme costituzionali che prevedono molti minimi in base a vari elementi, purché ovviamen-te non-discriminatori (e qui torna un’eco negativa delle “zone salariali”).
L’uso di parametri diversi, in via indicativa, conferma storicamente che la norma “indetermina-ta” dell’art. 36 comma 1 Cost. non può essere limitata o condizionata, neppure per legge.

4. Indifferenza di una legge sulla rappresentanza
Fra i criteri, per individuare la congruità delle retribuzioni ex art. 36 comma 1 Cost., c’è quello di far riferimento ai contratti collettivi nazionali o di categoria firmati dai sindacati maggior-mente o comparativamente più rappresentativi, che per questo si presumono giusti.
Tuttavia la pietra dello scandalo, che ha portato alle pronunzie della Cassazione dell’ottobre 2023, ha riguardato un contratto collettivo firmato dai sindacati maggiormente rappresentati-vi, ritenuto lesivo dei minimi costituzionali.
Il criterio non può andare, quindi, oltre una presunzione relativa e puramente indiziaria, anche in negativo: non si può affermare cioè che un contratto collettivo rispetterebbe sempre i mini-mi se firmato da sindacato maggiormente rappresentativo e nemmeno che li violerebbe sem-pre se firmato da sindacato non-maggiormente rappresentativo.
Quanto esposto fa dedurre che il problema dei minimi costituzionali non dipende né può esse-re risolto con una normativa sulle rappresentanze sindacali, anche per la garanzia finale del controllo giudiziale, che non può essere superata in quanto imposta da norma costituzionale (art. 36 comma 1 Cost.) quale diritto fondamentale della persona. Una legge sulle rappresenze, se mai fosse emanata, non potrebbe far tacere i giudici (nell’allegoria di prima dei giudici quale “bocca della società”).

5. I Disegni di legge con proposte simili alla L. 741/1959
La connessione con le rappresentanze sarebbe però imposta o presupposta dal disegno di leg-ge (DdL) sulle retribuzioni minime giacente in parlamento. Nella 1a versione di questo DdL (A.C. 1275), presentato dagli esponenti dei partiti di centro-sinistra, i trattamenti previsti dai con-tratti collettivi «nazionali» stipulati dai sindacati «comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale» si sarebbero trasformati in minimi costituzionali ex art. 36 comma 1 Cost., acquistando efficacia generale (erga omnes) in ciascuna «categoria» imposta per legge. Questa 1a versione è stata superata però da una 2a dello stesso DdL giacente in Senato (S. 957), con meccanismo simile di rinvio al fine di rendere erga omnes i minimi retributivi dei contratti col-lettivi nazionali: mentre con la 1a versione dovrebbero diventare erga omnes i contratti collet-tivi nazionali firmati dai sindacati «maggiormente applicati», con la 2a dovrebbero diventare erga omnes i contratti collettivi nazionali firmati maggiormente applicati, sostituendo così un dato quantitativo (la “maggiore applicazione”) al precedente quello qualitativo e potenziale (la rappresentatività).
Si prospetta un meccanismo simile e quasi identico a quello della L. 741 del 14 luglio 1959 (“legge Vigorelli”), con cui i trattamenti economici e normativi dei contratti collettivi diventa-rono i minimi costituzionali: la legge fu salvata dalla Corte Costituzionale per la sua asserita straordinarietà/unicità, ma il meccanismo fu dichiarato incostituzionale proprio perché elusivo dell’art. 39 Cost. con affermazione di un divieto per il futuro, neppure per una volta.
L’elemento dirompente della 1a versione del DdL (A.C. 1275), che manca nella 2a approvata alla Camera e pendente in Senato (S. 957), è la previsione «comunque» di un trattamento orario non inferiore a «9 euro lordi ad ora», corrispondenti all’incirca ad € 1.000 al mese. Non c’è più, nell’attuale DdL S. 957, un minimo “fisso”.
Questo DdL ha avuto una storia particolare, perché, pur essendo ad iniziativa del centro-sinistra, il suo contenuto è stato cambiato in aula dalla destra ed il 6 dicembre 2023 è stato ap-provato alla Camera dalla maggioranza di Governo.
Il DdL A.C. 1275, poi sostituito dalla Camera e passato in Senato (prendendo il n. S. 957), diven-terebbe legge, se dal Senato fosse approvato senza modifiche. Risulta però che in Commissione lavoro del Senato l’esame non è nemmeno iniziato e non si sa se mai comincerà.
Il DdL S. 957, trasformato ed approvato dai partiti di governo, prevede, al posto di una legge immediatamente applicabile, una delega al Governo perché adotti uno o più decreti al fine di rendere erga omnes i trattamenti dei contratti collettivi nazionali (Ccnl) «maggiormente appli-cati» e non più dei sindacati comparativamente più rappresentativi (DdL A.C. 1275 del centro-sinistra). Manca per la destra – va evidenziato – la previsione del minimo orario di 9 euro lordi.

6. Interferenze con la libertà di contrattazione collettiva
Il meccanismo dei DdL per fissare i minimi costituzionali è, dunque, quello della vecchia L. 741/1959, dell’estensione erga omnes dei contratti collettivi nazionali: prima, per il centro-sinistra, dovevano diventare erga omnes i contratti dei sindacati più rappresentativi, mentre ora, per la destra, dovrebbero diventare erga omnes i Ccnl «maggiormente applicati», con me-todo solo quantitativo (ma necessariamente il numero influisce sulla qualità). C’è però il ri-schio che i sindacati maggiormente rappresentativi siano sorpassati dai firmatari dei contratti collettivi maggiormente applicati.
Per entrambe le versioni del DdL, i Ccnl dovrebbero essere estesi erga omnes per «settori» o «categorie», eliminando la libertà di applicare qualunque contratto collettivo rispettoso dei minimi costituzionali (salvo controverso “miglior favore”). Si prospetta un sistema con un solo contratto collettivo erga omnes per ciascun settore/categoria, al fine esplicito di evitare il dumping contrattuale e cioè più contratti a ribasso.
Non è detto che il contratto collettivo da scegliere per diventare erga omnes sia in concreto il migliore, perché può succedere – ed è successo – che il contratto più applicato sia il peggiore (ad es. per i riders) o, viceversa, che il peggiore sia il contratto dei maggiormente rappresenta-tivi (ad es. per la vigilanza) ( ).
Le perplessità sono sempre maggiori, in quanto si presuppone l’individuazione di «categorie» o «settori» effettivi, facendoli diventare contraddittoriamente “ontologici” come nel vecchio art. 2070 c.c. (un dover essere per legge, al posto dell’essere): mentre con il codice civile la separa-zione in categorie era “accertata” d’autorità, per gli attuali DdL le separazioni in «settori» o «categorie» dovrebbero essere accertate per deduzione dai campi d’applicazione o dei contrat-ti collettivi firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi (DdL A.C. 1275 del centro-sinistra) o dei contratti di “maggiore applicazione” (DdL S. 957 della destra).
Il meccanismo prospettato presuppone non solo l’erga omnes, ma anche la regolamentazione della contrattazione collettiva senza considerare l’art. 39 comma 2 e ss. Cost.: tuttavia, come accennato, la Corte Costituzionale affermò sulla L. 741/1959 che, per l’erga omnes, l’art. 39 Cost. pone una riserva di procedimento, che non può essere violata o elusa neppure per attua-re l’art. 36 sui minimi costituzionali, salvo il caso del 1959 unico ed irripetibile ( ). La Corte af-fermò inoltre che ( ), per il principio di libertà sindacale, non si possono imporre «categorie» e debbono essere rispettati i campi d’applicazione dei contratti collettivi via via scelti nel tempo (l’«auto-definizione» della categoria professionale).
Non si tiene conto poi, a tacer d’altro, che gli attuali Ccnl hanno campi d’applicazione molto spesso sovrapposti, almeno in parte, e ci sono Ccnl con campi d’applicazione omnicomprensivi, comprendenti cioè più settori/categorie, talvolta numerose: la reductio ad unum, per ricondur-re ad unità situazioni diverse, è impossibile oltre che incostituzionale. Bisognerebbe tornare ad un mosaico imposto d’autorità, con tante tessere costituite da singoli settori/categorie, in una malacopia malfatta dell’art. 2070 c.c. che resta per il diritto corporativo.
Ci sono perplessità anche per la Direttiva Ue 2022/2041 del 25 ottobre 2022, che salvaguarda e valorizza la contrattazione collettiva, con possibilità di interventi legislativi solamente in caso di «copertura» della contrattazione inferiore all’80%. Dato che in Italia, secondo il Cnel ( ), la contrattazione collettiva dei sindacati maggiormente rappresentativi ha una copertura superio-re al 95%, non sono obbligatori ed anzi dovrebbero essere sconsigliati interventi d’autorità per cambiare i contratti collettivi, anche se ai fini delle retribuzioni minime.

7. Ipotesi di minimo fisso
Che fare? C’è da chiedersi se si possa lasciare tutto com’è, in quanto la mancata copertura del-la contrattazione di 5% dei lavoratori sarebbe poco. Invece è molto: si tratta di migliaia di lavo-ratori lasciati a disposizione di chiunque. Non ci si può astenere. Ma non è solo questo, perché c’è anche il problema dei contratti collettivi nazionali con retribuzioni bassissime, al di sotto dei limiti di sussistenza e con violazione dell’art. 36 comma 1 Cost. Intervistato al riguardo, un Segretario generale di grande organizzazione maggiormente rappresentativa ha affermato – in modo sorprendente – che in certi settori il sindacato non ha la forza per imporre i minimi costi-tuzionali: in sostanza, ha chiesto “aiuto” allo Stato.
Un «aiuto» dovrebbe soddisfare due esigenze: a) estendere erga omnes i contratti collettivi e b) imporre minimi fissi senza considerare né regolamentare i contratti collettivi.
L’erga omnes non è ammesso, però, perché sarebbe in violazione dell’art. 39 Cost.
Le critiche non riguardano invece le “9 euro lordi l’ora”. Si avrebbe – certo – una modifica dei contratti collettivi, con effetti a catena, per cui anche i lavoratori delle posizioni più alte bene-ficerebbero dell’aumento del minimo orario, ma senza interferenze con l’art. 39 Cost. e senza modificare struttura e funzioni della contrattazione collettiva.
Un minimo fisso costituirebbe attuazione dell’art. 117 lett. m) Cost., per cui lo Stato determina i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», contro la povertà (art. 32 comma 1 Cost.).
Tuttavia, per un minimo orario fisso non si può non tener conto di molte e non poche specialità. S’è prospettata l’esenzione per apprendisti e lavoratori domestici, ed è giusto, ma ci sono esi-genze di diversificazioni anche per altri aspetti o casi: si pensi ad es. all’orario per le attività di semplice attesa o custodia, o per disponibilità o reperibilità; si pensi anche ai casi relativamen-te frequenti in cui si prevede una retribuzione oraria bassa da completare in altro modo (ad es. con straordinario “normale” o altre indennità continuative).
La norma per imporre un minimo orario fisso è comunque complessa e difficile, per evitare che si creino discriminazioni “paritarie” e cioè prevedendo un fisso per situazioni diverse: non ba-stano poche parole secche, con cui ovviamente non si può distinguere.

8. Che fare, dunque?
Un minimo orario fisso è possibile in attuazione dell’art. 117 lett. m) Cost. e dell’art. 32 comma 1 Cost., ma non è facile, contro affermazioni superficiali.
Non si può pensare di superare e violare l’art. 39 Cost. per porre minimi retributivi articolati e non solo limitati ad un valore orario unitario: prima bisognerebbe modificare l’art. 39 Cost., nell’impossibilità di una sua formale attuazione.
Né si può ipotizzare, ma sarebbe solo superficialità, che attraverso la formalistica attuazione dell’art. 36 Cost. (o se si vuole dell’art. 39 Cost.) sia possibile chiudere la bocca ai giudici, nella funzione prima definita di “bocca della società” nell’applicare la norma indeterminata dell’art. 36 Cost.
Attraverso una legge sulle retribuzioni minime non si può togliere o limitare la giurisdizione. Al contrario, l’art. 36 comma 1 Cost., nella sua sinteticità, impone in modo sempre attuale minimi in base ai criteri di proporzionalità e sufficienza, che debbono essere individuati dai giudici at-traverso criteri o parametri desunti dalla “coscienza sociale”. In altre parole, se anche una leg-ge imponesse minimi di trattamento complessivo oppure un minimo orario fisso, comunque resta al giudice il potere/dovere di controllare se quei minimi siano sufficienti, applicando cri-teri imposti dall’astrattezza ed al tempo stesso concretezza della società.

9. I criteri o parametri indicativi per accertare i minimi costituzionali
Nel riaffermare il potere/dovere di individuare i minimi in base all’art. 36 comma 1 Cost., la Cassazione ha fatto un censimento di criteri e parametri che il giudice può utilizzare in via indi-cativa, con i due gruppi di tre pronunzie dell’ottobre 2023 ( ).
In base all’art 36 comma 1 Cost. è riconosciuta un’«ampia discrezionalità» al giudice del merito, con possibilità di utilizzare «criteri di giudizio e parametri differenti», sia in concorso che in so-stituzione: l’apprezzamento è insindacabile, in sede di legittimità, se fondato su «puntuale ed adeguata motivazione».
Il lavoratore ha solo l’onere generico di fornire «utili elementi» ( ) – non una vera e propria prova – per dedurre che la retribuzione percepita sarebbe incongrua, seppur contrattuale (pars destruens): il giudice di merito può e deve accertare anche d’ufficio la retribuzione minima e sufficiente (pars costruens). Per la pars destruens, tesa cioè a provare il fatto negativo dell’insufficienza, si possono utilizzare vari criteri ed in particolare i comuni indici di povertà, che però non bastano per determinare la congruità ex art. 36 comma 1 Cost. (pars destruens), che presuppone un trattamento superiore oltre la povertà.
Si presume che sia giusta la retribuzione prevista nel contratto collettivo nazionale di categoria (Ccnl) ( ), da cui ci si può diversificare solo usando «la massima prudenza e adeguata motiva-zione» ( ); tuttavia possono essere giudicati non-congrui anche i trattamenti previsti nei con-tratti collettivi firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi ( ).
I giudici del merito possono utilizzare in via indicativa criteri o parametri precisi o approssima-tivi, ma possono basarsi anche su «nozioni di comune esperienza» e, in difetto, sull’equità ( ). Si riconosce quindi una libertà quasi totale, condizionata soltanto da «puntuale ed adeguata mo-tivazione»: ma è normale, per una norma indeterminata (ad es. come si fa a capire cosa sono, oggi, l’onore ed il decoro per configurare l’ingiuria?).

10. Cogliere l’«occasione» delle retribuzioni minime per tutto
Va fatto un breve inciso per rilevare come, cogliendo l’occasione delle retribuzioni minime, si vorrebbe disciplinare per legge l’intero sistema contrattuale. Una legge sulle retribuzioni mi-nime varrebbe per tutto, contro tutti i mali. Ma non è così.
Non si sa se la frammentazione delle rappresentanze sindacali sia bene o male, ma è certamen-te un male la presenza di associazioni collettive sindacali e datoriali con rappresentatività di-scutibile se non esclusa (come nel caso dei contratti “pirata"): ma non è con una legge sulle re-tribuzioni minime che si può combattere il fenomeno.
Ancora, non si sa se sia bene o male la frantumazione delle categorie e degli ambiti d’applicazione della contrattazione, oppure la proliferazione dei contratti collettivi nazionali e dei sindacati stipulanti, maggiormente rappresentativi o no ma genuini ( ): al di là di opportu-nità ed effettività, sono materie che comunque non possono essere limitate per legge contro la libertà sindacale ex art. 39 Cost. Ugualmente estraneo al problema dei minimi e contro la liber-tà sindacale è la regolamentazione dei rinnovi dei contratti collettivi ( ), o del regime di sca-denza ed ultrattività.
Una legge sulle retribuzioni minime non servirebbe contro il lavoro “nero”, che è il male mag-giore: sarebbe inconferente, i metodi e gli strumenti sono altri.

11. Se l’efficacia di leggi precise è maggiore o migliore dell’efficacia delle norme indeterminate
Resta l’interrogativo se basta la giurisdizione con la norma indeterminata dell’art. 36 comma 1 Cost., oppure siano preferibili o necessarie leggi precise.
Qualche dubbio di eccessiva frammentazione viene a rileggere che, nell’applicazione dell’art. 36 comma 1 Cost., i minimi costituzionali potrebbero essere differenziati per dimensioni o lo-calizzazioni aziendali, per specifiche situazioni locali o per le qualità delle prestazioni offerte dai o ai lavoratori ( ). Sono punti critici su cui riflettere, perché non tutte le specificità giustifi-cano differenze: in particolare, a tener conto dei “luoghi”, si rischiano effetti anomali, che ri-cordano le tristemente famose “gabbie salariali” dei contratti collettivi in agricoltura in vigore nel 1954-1969. Questa ed altre critiche non contraddicono il sistema, sempre attuale e privo di carenze, basato sulla norma indeterminata dell’art. 36 comma 1 Cost., nell’ampia discreziona-lità della giurisdizione.
La norma indeterminata è non-meno efficace di una legge precisa. Quando si sente che in Italia mancherebbe una legge sulle retribuzioni minime, non si tiene conto che la legge c’è ed è l’art. 36 comma 1 Cost., ma in fondo si vuol dire che bisognerebbe fare una legge per imporre impor-ti precisi, perché solo così – con importi precisi – le regole sarebbero rispettate o sarebbero ri-spettate più spesso o meglio. Senza immergersi nel problema generale e soprattutto difficile dell’efficacia della legge, basta solo affermare che, almeno in concreto, l’efficacia intimidatoria delle sentenze (o dei giudici!) non è né può essere inferiore all’efficacia intimidatoria della leg-ge.
L’intermediazione dei giudici nel “dire il diritto”, posta dall’art. 36 Cost., può dare una sensa-zione di strapotere. È il contrario: la discrezionalità della giurisdizione è essenziale per imporre immediatamente minimi sempre aggiornati, senza carenze, per ogni vecchia o nuova «catego-ria».
S’è detto che ci sarebbe abuso di norme indeterminate, con cui di fatto parte del potere legisla-tivo sarebbe trasferito ai giudici, liberi da vincoli perché delegati a decidere in base ad equità. Il problema ed i dubbi sono numerosi, anche se talvolta celano solo polemiche sulla divisione dei poteri dello Stato. Deve valere il principio astratto, per cui per le norme indeterminate pos-sono essere utilizzate solo se necessarie, senza altra possibilità: per tornare agli esempi di pri-ma, poiché è impossibile definire con precisione le nozioni di onore, decoro o reputazione per l’ingiuria e la diffamazione, l’unico mezzo è la discrezionalità della giurisdizione. La norma in-determinata con l’art. 36 comma 1 Cost. – a parte l’ovvia insindacabilità – è necessaria per im-porre le giuste retribuzioni a garanzia di completezza ed attualità, perfino oltre un’ipotetica legge: perché le giuste retribuzioni siano garantite a tutti, evitando vuoti e carenze, ed in misu-re sempre attuali, evitando le cristallizzazioni di norme precise.
È però necessario, e non solo opportuno, imporre un minimo esistenziale, comunque contro la povertà (art. 32 comma 1 Cost. per gli «indigenti»), con cui in base all’art. 117 lett. m) Cost. sia-no determinati «i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devo-no essere garantiti su tutto il territorio nazionale»: si eviterebbero in tal modo attriti con la li-bertà sindacale. Bisogna prevedere però distinzioni, per evitare discriminazioni “paritarie”, con vantaggi ingiusti a causa solo della configurazione di fatto dell’orario di lavoro.

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