testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa
Con il mio intervento intendo soffermarmi in particolare sul lavoro fatto dalla Confederazione Europea dei Sindacati (CES) nell’iter di adozione della direttiva n. 2022/2041/UE e nell’attuale fase di recepimento della stessa.

2. Le priorità del sindacato europeo
Le priorità della CES sono politiche industriali europee per un lavoro di qualità, investimenti adeguati a garantire le giuste transizioni, il diritto alla formazione, condizionalità sociale per gli investimenti e il sostegno alle imprese, sviluppo della concertazione. In sostanza quanto previsto dal Pilastro europeo dei diritti sociali per garantire migliori condizioni di vita e di lavoro in tutti i paesi dell’Unione.
La CES e tanti sindacati nei loro paesi si sono mobilitati intensamente contro l’austerità nell’autunno del 2023 e all’inizio del 2024. La manifestazione a Bruxelles del 12 dicembre 2023 è stata un momento di grande importanza per il movimento sindacale. La richiesta era ed è chiara: non ci deve essere alcun ritorno all’austerità. Il nuovo patto sulla governance ovviamente non ci soddisfa.
Il sindacato è impegnato a sostenere le iniziative per garantire ed estendere i diritti dei lavoratori e contrastare gli attacchi che ne minano il ruolo; attacchi che stanno avvenendo anche in paesi con una grande tradizione sindacale come la Finlandia (es. proposta di legge per abolire il diritto di sciopero), ma anche come l’Italia, dove il Governo, coinvolgendo negli incontri, sindacati di dubbia rappresentatività, consapevolmente non riconosce il ruolo prioritario del sindacato confederale.
La convergenza delle retribuzioni verso l’alto è urgente per le economie dei paesi dell’Europa centrale e orientale al fine di contrastare, a lungo termine, le distorsioni dell’intero mercato unico. Questo divario salariale aggrava le differenze socio-economico tra i paesi dell’UE, minando gli obiettivi ambiziosi del progetto europeo.
Il miglioramento dell’economia sociale di mercato non può avvenire senza un reale sviluppo della democrazia sul lavoro. “Avere sistemi di contrattazione collettiva ben funzionanti” è un nostro obbiettivo prioritario, ma serve anche un sistema che ne consenta la rilevazione. In Italia abbiamo tanti soggetti che fanno monitoraggi, abbiamo l’archivio della contrattazione collettiva presso il CNEL definito dalla legge del 1986, ma tutti questi sistemi non dialogano e rilevano i dati in modo diverso. Un obiettivo nel recepimento della direttiva potrebbe essere fare ordine. Continueremo a lavorare per garantire quanto previsto dal Pilastro europeo dei diritti sociali come la direttiva sul salario minimo, che risponde in particolare al principio dell’equa retribuzione previsto dal principio 6.

3. Il ruolo della CES nell’iter di approvazione della direttiva
La direttiva n. 2022/2041/UE, entrata in vigore il 19 ottobre 2022, ha stabilito nuove norme che promuovono salari minimi adeguati al fine di conseguire condizioni di vita e di lavoro dignitose per i lavoratori in Europa. Non prescrive un livello di salario minimo specifico che gli Stati membri devono raggiungere, ma indica di mantenere un livello minimo dignitoso, anche tramite l’innalzamento del salario minimo legale tenendo conto del costo della vita e dei più ampi livelli di retribuzione, pari ad almeno il 60% del salario mediano o al 50% della media e verificando che tale soglia garantisca un salario di sussistenza. Promuove la contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari, si pone l’obbiettivo di migliorare l’accesso effettivo alla tutela garantita dal salario minimo per tutti i lavoratori, compreso garantire l’esercizio del diritto ad essere organizzati nel sindacato e l’accesso ai luoghi di lavoro.
In Europa ci sono molte differenze, non solo fra est e ovest: ci sono differenze nella definizione di salario minimo legale, ci sono differenze nelle pratiche contrattuali e nell’esercizio del diritto dei sindacati ad essere presenti nei luoghi di lavoro. Anche la copertura della contrattazione collettiva è molto diversa.
Durante i lavori della Commissione ci siamo incontrati spesso con i componenti del Comitato (online perché eravamo in piena stagione Covid-19) per seguire l’avanzamento delle bozze; abbiamo incontrato anche i due relatori della bozza. Abbiamo lavorato sui testi, abbiamo promosso emendamenti, ci siamo misurati in confronti non semplici nemmeno in seno al sindacato stesso dove si confrontavano esperienze diverse, modelli contrattuali e legislativi non simili, situazioni più difficoltose a cui guardare con maggiore attenzione al fine di far crescere salari e diritti in tutti i 27 paesi.
Fin da subito la CES ha posto il tema del salario dignitoso, evidenziando però i limiti del documento in consultazione, che non individuava soluzioni per affrontare il problema di fondo dei bassi salari. La CES ha rivendicato l’adozione di una DIRETTIVA, per garantire retribuzioni eque, rafforzando e promuovendo la contrattazione collettiva autonoma, settoriale ed intersettoriale; per rafforzare la posizione sindacale la CES affermava, nella risposta inviata alla Commissione, che quasi tutti gli Stati membri hanno assistito a un calo della contrattazione collettiva dall’inizio della crisi economica e sociale, sottolineandone la necessaria promozione.
Abbiamo sostenuto, come Comitato, la necessità d’inserire misure efficaci per promuovere il diritto dei lavoratori a organizzarsi e a contrattare collettivamente, senza minare l’autonomia delle parti sociali, apprezzando che nel documento in consultazione si affermasse: “la situazione dei lavoratori a basse retribuzioni è peggiorata e le disuguaglianze salariali sono aumentate. Alcuni di questi lavoratori hanno visto peggiorare le loro retribuzioni rispetto agli altri ed il potere d’acquisto delle loro retribuzioni”. Un lavoratore su dieci vive in famiglie a rischio di povertà, vale a dire un numero allarmante pari a 20,5 milioni. In Italia non siamo esenti dal problema della povertà pur lavorando. Per questo, sfruttando quanto previsto dalla direttiva, potremmo introdurre meccanismi che affrontano il tema del ritardo nella sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali, della necessità di ritornare a meccanismi che salvaguardino il potere d’acquisto dei salari nel caso di ritardo nel rinnovo. Meccanismi che esistevano nel sistema italiano in passato (pensiamo alla indicizzazione, all’indennità di vacanza contrattuale, a meccanismi di recupero del salario a fronte della verifica inflattiva nel primo biennio).
In alcuni paesi dell’Unione viene negato il diritto ad organizzarsi e contrattare collettivamente. Almeno 14 Stati membri registrano oggi una copertura della contrattazione collettiva inferiore al 50% della forza lavoro e solo sette Stati membri hanno una percentuale superiore all’80%. La situazione è particolarmente preoccupante nei paesi dell’Europa centrale ed orientale a causa della mancanza di efficaci sistemi di contrattazione. Pesa anche il fatto che i datori di lavoro non sono organizzati in associazioni di rappresentanza. Così come la presenza di sindacati gialli o di comodo diffusi negli ultimi anni in alcuni settori particolari in tutti i 27 paesi.
Fin da subito si sono registrate posizioni divergenti: i Paesi nordici si sono subito dichiarati contrari. In Italia la CISL insisteva che nessun vincolo doveva essere posto ai paesi con sistemi contrattuali funzionanti e dove la copertura è alta (loro emendamento sul 70% di copertura).
Aver risolto la questione con l’innalzamento della soglia della copertura all’80% non è sufficiente a garantire un salario dignitoso nemmeno nel nostro paese.
La CGIL ha sempre sostenuto la necessità di adottare la direttiva, di promuovere strumenti per rafforzare la contrattazione collettiva e i diritti sindacali, norme che introducessero vincoli per gli appalti pubblici. Abbiamo anche provato ad introdurre il tema della rappresentanza (quindi della qualificazione dei soggetti firmatari dei contratti collettivi settoriali) e dell’erga omnes. Su questi temi non c’è stata convergenza con gli altri sindacati. Sappiamo quanto questo tema sia sentito in Italia dove ci sono 210 CCNL sottoscritti dalle categorie di CGIL, CISL e UIL, ma quasi 800 firmati da altri che fanno dumping; alcuni contratti sono firmati dai sindacati che affollano gli incontri con il Governo, poco rappresentativi. In Italia è sicuramente urgente affrontare il tema della rappresentanza per via legislativa per definire in modo preciso chi ha la titolarità alla contrattazione, anche per le associazioni datoriali.
Nel documento posto in consultazione nella seconda fase, come richiesto dalla CES, è stato indicato chiaramente che l’orientamento fosse una direttiva, questo ha reso ancora più determinati i sindacati dei paesi nordici a non accettare la bozza, perché consideravano la direttiva una ingerenza nel loro modello tripartito di contrattazione.
È proseguito il lavoro sui testi sia collettivamente che con incontri bilaterali fra OO.SS., soprattutto con i paesi nordici, per cercare soluzioni che tenessero una posizione comune. Due volte la CES ha lanciato la consultazione scritta fra gli affiliati.
I paesi nordici hanno proposto varie soluzioni, inviato documenti al Comitato contrattazione collettiva per precisare la loro posizione e chiedere l’esclusione dalla direttiva.
Abbiamo discusso anche emendamenti proposti da gruppi politici o singoli parlamentari, come nel caso dell’emendamento Danielsson all’art. 1, che conteneva la possibilità di non applicazione della direttiva a Svezia e Danimarca: “Gli stati membri in cui non esistono salari minimi legali […] hanno la possibilità di non applicare la presente direttiva, in tutto o in parte, a condizione che le parti sociali a livello nazionale lo richiedano congiuntamente”.
I sindacati nordici hanno insistito molto sul fatto che l’Unione Europea, in base all’art. 153, comma 5, TFUE, non ha competenza legislativa in materia di “retribuzioni, […] diritto di associazione, […] diritto di sciopero”.
A novembre 2021 il Parlamento Europeo ha dato il mandato con 443 voti a favore, 192 contro e 58 astensioni a negoziare nel “trilogo”, per arrivare alla versione definitiva del provvedimento.
Il Comitato contrattazione collettiva ha seguito anche questa fase fino all’adozione avvenuta l’anno successivo.
La bozza della Commissione, approvata dal Parlamento, ha subito delle modifiche da parte del Consiglio sulle quali la CES ha espresso parere favorevole; il testo sembrava potesse tenere dentro il punto di vista dei nordici.
Nel testo uscito dal trilogo, anche se semplificato, è chiaro il riferimento alla necessità di contrastare la diminuzione della contrattazione collettiva e a promuoverla: nel considerando 8 si legge: “Se fissati a livelli adeguati, i salari minimi, quali previsti dal diritto nazionale o da contratti collettivi, proteggono il reddito dei lavoratori, in particolare dei lavoratori svantaggiati, e contribuiscono a garantire una vita dignitosa […] a sostenere la domanda interna e il potere d’acquisto, a rafforzare gli incentivi al lavoro, a ridurre le disuguaglianze salariali, il divario retributivo di genere e la povertà lavorativa e a limitare il calo del reddito nei periodi di contrazioni economiche”.

4. La fase attuale
Nella fase successiva all’adozione della direttiva è stato composto un gruppo di esperti (commissione, rappresentanti degli stati membri, sindacati e associazioni datoriali) per fornire un report utile per la trasposizione in ogni Stato.
Il report è in realtà una lettura dei vari articoli che non favorisce un’interpretazione piuttosto che un’altra e, nell’ultimo Comitato contrattazione collettiva del 18 aprile scorso, alcuni sindacati hanno lamentato questo fatto; speravano che alcuni chiarimenti potessero essere di maggior supporto nel dibattito nazionale.
Faccio un esempio: nella relazione del gruppo di esperti sull’art. 4, par. 2, si legge che il tasso di copertura dell’80% è descritto non come un obiettivo obbligatorio da raggiungere; in altre parole, la direttiva imporrebbe un obbligo di sforzo, non di risultato.
In pratica come previsto nel considerando 25 “la soglia dell’80% della copertura della contrattazione collettiva dovrebbe essere interpretata solo come un indicatore che fa scattare l’obbligo di elaborare un piano d’azione”.
Per quanto riguarda il piano d’azione, la direttiva non ne prescrive il contenuto specifico, lasciandolo alla discrezionalità degli Stati membri, in linea con le tradizioni e le prassi nazionali, e nel rispetto dell’autonomia delle parti sociali.
L’opzione scelta è soggetta alla discrezionalità dello Stato membro, che resta in ogni caso responsabile dell’elaborazione del piano d’azione. Sebbene la direttiva non fissi un termine specifico per l’adozione del piano d’azione, gli Stati membri con una copertura della contrattazione collettiva inferiore all’80%, dovrebbero stabilirlo entro due anni dall’entrata in vigore. Piano d’azione che sarà importante definire anche per l’Italia anche solo per avere un unico sistema che ci dica con chiarezza qual è la copertura contrattuale del nostro paese (accreditata da varie fonti vicino al 100%) affrontando anche altri temi, come ad esempio quello dei contratti collettivi scaduti.
È evidente che ci si aspettava di più dal gruppo di esperti incaricati di dare un contributo per la trasposizione, visto che la direttiva (nei considerando) ci ricorda chiaramente le difficoltà: “[…] In un contesto di diminuzione della copertura della contrattazione collettiva è essenziale che gli Stati membri promuovano la contrattazione collettiva, agevolino l’esercizio del diritto di contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari e rafforzino in tal modo la determinazione dei salari prevista dai contratti collettivi al fine di migliorare la tutela garantita dal salario minimo dei lavoratori […]”.
Nella riunione già citata del Comitato contrattazione collettiva, la CES ha chiesto ai sindacati affiliati di fornire un quadro riassuntivo delle iniziative nel loro paese sull’attuazione della direttiva. Le risposte non sono confortanti, è emerso che difficilmente verrà rispettata la scadenza del 15 novembre 2024 per il recepimento in gran parte dei paesi, dove ci sono confronti in corso.
In breve, alcuni esempi: in Spagna il 1° gennaio 2024 il salario minimo è salito a 1.134 euro lordi in 14 mensilità, dopo l’accordo su un aumento del 5% tra il Ministero del Lavoro e i sindacati UGT e CC.OO; un accordo che gli imprenditori non hanno firmato. In Germania, sempre a gennaio è arrivato a € 12,41. In Francia gli incontri sono periodici, ma il sindacato lamenta uno scarso coinvolgimento. In Lituania vi è stato un aumento di € 2 per i lavori meno qualificati.
In Bulgaria per la prima volta nella legislazione viene sancita una procedura per migliorare il salario minimo; dal 1° gennaio 2024 è aumentato del 20%. Il Codice del lavoro stabilisce che deve essere una percentuale del salario medio del 50% dei dodici mesi precedenti. I datori di lavoro non hanno condiviso questa modifica, la vogliono cancellare dal codice del lavoro (forse unico esempio di trasposizione della direttiva).
In Ungheria si è adottato un aumento del salario minimo diversificato per livelli professionali con posizioni diversificate fra i sindacati: alcuni non hanno accettato le modifiche. Nella riunione del Comitato altri paesi, compresa l’Italia, hanno parlato dello stato della contrattazione e delle difficoltà di essere coinvolti nelle procedure. Molti dei rappresentanti sindacali presenti hanno detto che i confronti non sono iniziati; anche i sindacati italiani hanno affermato che non c’è alcun confronto sulla direttiva, mentre il piano di azione a sostegno della contrattazione sarebbe importante, così come dare attuazione all’art. 10 sul monitoraggio e raccolta dati e all’art. 11 sull’informativa sulla tutela garantita del salario minimo.
La CGIL inoltre sostiene che sarebbe necessario avere un salario minimo orario definito per legge sotto il quale nessun contratto, per nessun livello, dovrebbe essere sottoscritto. La legge delega del Governo sulla contrattazione non risponde, secondo noi, a quanto indicato dalla direttiva. Peraltro assume quale parametro per la copertura quello dei contratti più applicati anziché come previsto oggi in tante norme quello dei contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e associazioni datoriali comparativamente più rappresentative ed inoltre vuole favorire la contrattazione di secondo livello con finalità adattive, cioè anche derogatorie.
Infine la Danimarca ha presentato ricorso per annullamento della direttiva. Si sta aspettando la data dell’udienza presso la Corte di Giustizia; attesa fra un anno la sentenza. La Danimarca ha proposto infrazione rispetto all’art. 153 TFUE: sostiene che la contrattazione collettiva e il salario non sono di competenza della Commissione. Tema discusso molto nelle fasi iniziali. La CES costituì un gruppo di esperti giuridici per supportare l’orientamento a favore della direttiva.
Sul ricorso la posizione della CES è che la direttiva in realtà promuove migliori condizioni di lavoro, quindi è rispettosa del Trattato.
Il sindacato svedese, pur non avendo promosso la causa, sostiene la posizione della Danimarca.
Il lavoro da fare è ancora molto per dare attuazione alla direttiva, fortemente voluta dai sindacati europei. Lavoro che è reso ancora più difficile a causa delle condizioni che stanno peggiorando ovunque, anche nei paesi di più forte tradizione sindacale.
L’obiettivo è quello di garantire a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori un salario dignitoso e adeguato alle necessità della famiglia.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.