TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
“Negli alti gradi della Magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”. Del resto, “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento”.
Come ricorda Eliana Di Caro nel libro qui in commento, queste parole furono pronunciate rispettivamente da due padri costituenti, di area democristiana, del calibro di Giovanni Leone (Presidente della Repubblica dal 1971 al 1978) e Giuseppe Cappi (Presidente della Corte costituzionale nel biennio 1961-1962) durante i lavori che portarono al varo della nostra Costituzione, convincendo l’Assemblea costituente (composta da 21 donne e 535 uomini) ad affossare l’idea di superare la c.d. “legge Sacchi” (id est la l. n. 1176/1919) che vietava alle donne l’accesso alla magistratura.
Per dare qualche coordinata, basti dire che era il 1947 e le donne italiane avevano ottenuto il diritto di voto da quasi 2 anni (con decreto legislativo luogotenenziale n. 23/1945) e da ben 28 avevano la possibilità, grazie alla stessa legge Sacchi, di esercitare la professione di avvocato/a.
Come giustamente nota l’Autrice, le parole dei padri costituenti citate in apertura, pur potendo risuonare oggi come umilianti pregiudizi, dovrebbero forse essere lette con coscienza storica, così da “derubricarle” a mere “resistenze culturali” appartenenti ad un lontano passato. Del resto, la magistratura italiana appare oramai composta per la maggior parte da donne e, ciò, grazie ad una serie di tappe, ben ricostruite nel libro, guidate proprio dalla stessa Democrazia Cristiana, quali: la l. n. 1441/1956 (fortemente voluta da Aldo Moro), che aprì alle donne le giurie popolari della Corte di Assise e dei Tribunali per i minorenni; la sentenza della Corte costituzionale n. 33/1960, che (grazie al democristiano Costantino Mortati) dichiarò incostituzionale, per contrasto con l’art. 51 Cost., la norma della legge Sacchi che escludeva le donne, tra i molti uffici pubblici, anche dalla magistratura; la l. n. 1196/1960, che aprì le cancellerie alle donne; ed, infine, la l. n. 66/1963 – sempre di iniziativa democristiana – che finalmente sancì il diritto delle donne ad “accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge”.
È così che nel dicembre del 1964, al termine del concorso in magistratura, tra i 186 idonei vennero selezionate anche: Graziana Calcagno, Emilia Capelli, Raffaella D’Antonio, Giulia De Marco, Letizia De Martino, Annunziata Izzo, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli.
Questa chiarissima ricostruzione storica, accompagnata da brevi notazioni biografiche delle 8 magistrate appena citate, nonchè da una analisi del prezioso contributo dato da ciascuna in alcuni processi chiave della nostra storia, non è il solo merito di questo libro.
C’è infatti un punto del volume che appare a chi scrive prezioso, almeno quanto il fatto di avere finalmente dato un volto alle prime 8 magistrate del nostro Paese, ed è laddove il libro fa emergere un’importante discrasia e, cioè, quella per cui sebbene da quasi quarant’anni (per la precisione dal 1987) a vincere il concorso in magistratura siano più donne che uomini, tanto che, come anticipato, dal 2015 il numero complessivo delle magistrate supera stabilmente quello dei colleghi in tutte le aree del Paese (con una percentuale: del 58% al Nord, del 53% al centro e del 56% al Sud), cionondimeno il 73% degli incarichi direttivi risulta ancora affidato a magistrati (basti pensare che la Corte costituzionale ha avuto solo nel 2019 la sua prima Presidente, Marta Cartabia – seguita nel 2022 dalla giuslavorista Silvana Sciarra –, e che appena 4 anni fa Margherita Cassano è stata la prima donna a conquistare la carica di Presidente Aggiunto alla Corte di Cassazione).
Dai suddetti dati emerge dunque chiaramente che, quanto meno nella magistratura, non siano state del tutto superate nel nostro Paese le “resistenze culturali” del passato. A questa consapevolezza è opportuno aggiungerne un’altra, e cioè che, nell’attuale contesto storico, queste resistenze dovrebbero essere viste (e di conseguenza combattute) per quello che in realtà sono: un pregiudizio inaccettabile.