Testo integrale con note e bibliografia
1. Lavoro, religione e festività
La necessità di bilanciare i giorni di lavoro con quelli festivi, in cui il lavoratore esercita il proprio diritto al riposo, costituisce una di quelle in cui tradizionalmente il fattore religioso si intreccia con la disciplina lavoristica, poiché di frequente la religione costituisce la ragion d’essere della previsione di alcune delle festività, comprese quelle fissate dal calendario comune. In alcuni casi la volontà di rispettare le esigenze religiose e motivazioni di stampo segnatamente più pratico si confondono, tanto che la festa assume un aspetto più o meno religiosamente qualificato, diventando parte dell’identità culturale di una società. L’idea della domenica come festa religiosa cristiana è diventata componente del calendario di gran parte dei paesi occidentali, sia dei più laici in senso stretto sia in quelli più marcatamente confessionali, ma anche altrove, per ragioni legate all’organizzazione uniforme delle attività lavorative e alla conclusione di affari. Per esempio, in Italia la festività del Santo Patrono non nasce come ricorrenza strettamente religiosa, ma diventa una consuetudine seguita dai Comuni come frutto della contrattazione collettiva, al fine di aumentare i giorni di riposo dei lavorati, una sorta di “festività contrattuale” .
Come spesso accade, il riconoscimento civile delle festività religiose dipende dai rapporti che intercorrono tra maggioranze e minoranze confessionali, poiché quando una fede religiosa viene praticata dalla maggioranza dei cittadini e in modo assai risalente nella storia di un determinato territorio, le relative festività hanno maggiori probabilità di essere integrate nel tessuto sociale, fino a confondersi con le tradizioni più marcatamente civili.
La decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea, relativa alla causa C-193/17 sorta per questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte Suprema dell’Austria, contribuisce a riaprire il dibattito sul tema, con possibili ricadute anche per l’ordinamento italiano.
La vicenda austriaca riguardava la richiesta, da parte di un dipendente di una ditta di investigazioni, il Signor Achatzi, di poter usufruire anch’egli della possibilità di astenersi dal lavoro durante il Venerdì Santo, o in alternativa di poter ricevere l’indennità aggiuntiva prevista dalla legge. In Austria infatti, la disciplina dei giorni di riposo per i lavoratori è stabilita dall'Arbeitsruhegesetz (ARG, legge in materia di periodi di riposo, BGBl. 144/1983). L’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG, prevede che “per i membri delle Chiese evangeliche di confessione augustana e di confessione elvetica, della Chiesa vetero‑cattolica e della Chiesa evangelica metodista”, il Venerdì Santo è un giorno festivo retribuito, con un periodo di riposo di 24 ore. Nel caso in cui un membro di queste confessioni lavori in tale giorno, ha diritto ad una retribuzione supplementare come indennità per aver lavorato durante il giorno festivo.
Il ricorrente non è membro di nessuna delle Chiese indicate nell’ARG, ma ritiene di essere stato privato in maniera discriminatoria dell’indennità per giorno festivo per il lavoro svolto il 3 aprile 2015, giorno del Venerdì Santo, e chiede, a tale titolo, un risarcimento al suo datore di lavoro. Il Tribunale di primo grado respinge il ricorso di Achatzi, mentre la Corte d’Appello accoglie le ragioni del ricorrente, fino a che la Corte Suprema austriaca richiede l’intervento della Corte di Giustizia per chiarire l’interpretazione dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché dell’articolo 1, dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), dell’articolo 2, paragrafo 5, e dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Il giudice del rinvio pone quattro quesiti alla Corte di Giustizia: se nell’ambito del lavoro privato il diritto UE, in particolare l’art. 21 della Carta e quanto previsto dalla Direttiva 78/2000, impedisce che si possa applicare una normativa che riconosce il diritto, solo per i membri di alcune confessioni religiose, ad un giorno festivo retribuito in più rispetto agli altri lavoratori, nonché un’indennità aggiuntiva nel caso in cui debbano lavorare in quel giorno; viceversa, se non vi sia contrasto tra diritto nazionale e diritto UE, poiché trattasi di una misura che, in una società democratica, sia necessaria per la tutela dei diritti e delle libertà altrui, in particolare del diritto alla libertà religiosa. Se ciò costituisca una misura positiva atta a compensare eventuali svantaggi in ragione della religione. Da ultimo, laddove la Corte ravvisasse una discriminazione fondata sulla religione, il giudice austriaco chiede se, finché da parte del legislatore non sia stato istituito un assetto giuridico privo di discriminazioni, il datore di lavoro privato abbia l’obbligo di riconoscere a tutti i lavoratori i descritti diritti in relazione al giorno del Venerdì Santo.
2. Discriminazione e trattamento economico
Secondo il giudice europeo, se non serve per adempiere ad un obbligo religioso, la situazione dei lavoratori delle confessioni indicate nell’ARG non è differente rispetto agli altri, perciò non vi sono esigenze di culto da tutelare e per cui potrebbe essere accettabile una deroga rispetto al principio di parità di trattamento. Se non vi è la necessità di partecipare ad una particolare festa religiosa o adempiere ad uno specifico obbligo religioso di altro tipo, non c’è differenza tra altri lavoratori che desiderino riposare il giorno del Venerdì Santo senza però poterlo fare. La Corte riconosce così nella necessità di adempiere ad un obbligo religioso particolare l’elemento che potenzialmente potrebbe costituire una causa giustificatrice di trattamento differenziato, che probabilmente avrebbe consentito di inquadrare la misura come un’azione positiva ex art. 7 paragrafo 1 della Direttiva 78/2000. Successivamente, attraverso un’applicazione attenta della Direttiva, il giudice individua il nesso indissolubile che lega “la natura finanziaria della prestazione interessata alla concessione di un giorno festivo il venerdì santo.”
La motivazione religiosa dietro la concessione di un ulteriore giorno festivo appare così meno pregnante, in qualche modo “sfumata”, a fronte della presenza di una forte componente economica, tale da generare uno squilibrio nel trattamento di lavoratori che sono invece in situazioni paragonabili, esattamente all’interno dello schema di funzionamento della direttiva europea sulle discriminazioni.
A prima vista, sembra che si sia chiuso alla possibilità di considerare le specificità religiose relativamente alle festività dei lavoratori. Tuttavia, appare corretta l’attenzione del giudice all’elemento economico, su cui forse sarebbe stato opportuno insistere maggiormente, mettendo in evidenza come questo costituisca la ragion d’essere principale della discriminazione. Quello che infatti realizza la normativa austriaca non è tanto un riconoscimento di una specificità confessionale rispetto al considerare o meno come festivo un particolare giorno dell’anno, quanto conferire solo ad alcune categorie di lavoratori un vantaggio di tipo economico rispetto agli altri, in ragione della propria appartenenza confessionale. In proposito, occorre poi prestare attenzione anche all’eventualità di possibili abusi, nello specifico che un soggetto dichiari un’appartenenza religiosa “di facciata” al solo fine di poter usufruire dei vantaggi legati ad essa, i quali, quando esistono, rispondono all’esigenza di garantire i diritti fondamentali e non certo di creare un trattamento privilegiato. La natura di privilegio economico del caso di specie rende questo tipo di possibilità ancora più potenzialmente lesiva dei diritti dei lavoratori. Tuttavia, bisogna dire che nell’ordinamento austriaco il sistema di finanziamento delle confessioni religiose, basato sui dati ricavati dalle dichiarazioni di appartenenza religiosa dei cittadini, semplifica questo tipo di controlli, poiché da ciò è possibile ricostruire con maggiore chiarezza l’affiliazione confessionale di ciascuno. In altri ordinamenti, tra cui anche l’Italia, dove non esistono sistemi di dichiarazione rigida dell’appartenenza confessionale – e dove la gestione del dato dell’appartenenza religiosa segue altri principi - questo potrebbe costituire un problema maggiore. Fermo restando l’oggettiva difficoltà di affidarsi al criterio dell’appartenenza a un gruppo religioso per dipanare tali questioni, dato che esso nell’attuale società appare sempre più liquido e meno rigido di un tempo .
Il giudice europeo decide quindi per l’incompatibilità della normativa austriaca con il sistema della Direttiva 78/2000, al punto che impone al datore di lavoro privato, finché non sia intervenuto il legislatore nazionale, di estendire la portata festiva del Venerdì Santo e le relative facilitazioni economiche anche alle altre categorie di lavoratori, qualora essi ne abbiano fatto richiesta. Sempre richiamando la precedente decisione del caso Egenberger, si ribadisce il fatto che, seppur il principio di non discriminazione non sia direttamente stabilito dalla Direttiva 78/2000, esso costituisce principio generale del diritto UE in quanto statuito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali. Il giudice nazionale è così chiamato ad assicurare ai cittadini europei la medesima tutela giuridica, anche arrivando a disattendere il diritto nazionale, qualora risultasse discriminatorio .
3. Qualche riflessione sulla portata della pronuncia
La Corte continua quindi nel solco delle decisioni precedenti, richiamando la sua recente giurisprudenza e ricorrendo alle medesime argomentazioni, dimostrando una particolare attenzione alla rilevanza dell’elemento religioso, sia pure da contemperare con altri diritti.
Le varie decisioni sul tema evidenziano una crescente importanza del tema del religioso nell’ambito giuslavoristico, anche in senso ampio e non solamente con riguardo alle ipotesi di lavoro subordinato ma anche rispetto delle professioni; in una recentissima pronuncia della Corte di Giustizia è stato stabilito che una normativa che definisce incompatibile la qualifica di ministro di culto con quella di avvocato è contraria alla Direttiva 98/5/CE sull’esercizio permanente della professione forense in un altro stato membro. In Italia è previsto un divieto simile, che risale al Regio Decreto Legge n. 1578/33, che a ben vedere limita l’incompatibilità ai ministri di qualunque culto “aventi giurisdizione d’anime”. Si tratta tuttavia di una disposizione che non risulta essere stata riprodotta nelle più recenti normative di riforma della professione forense, tanto da poter probabilmente anche sostenere una sua desuetudine . Il proliferare del ricorso, da parte dei giuridici nazionali, allo strumento del rinvio pregiudiziale, più che un sintomo di poca chiarezza nel testo della Direttive europee, sembra invece al contrario un indice di buon funzionamento soprattutto di quella sulle discriminazioni, che si sta imponendo come uno strumento importante del sistema di protezione delle esigenze religiose – non solo nel mondo del lavoro - nello spazio giuridico europeo. L’approccio del diritto UE alla tutela delle esigenze religiose è ben esemplificato da quanto statuito anche in questa pronuncia dalla Corte di Giustizia, che rigettando le considerazioni del Governo polacco, ribadisce la propria competenza sul caso di specie, in quanto la questione riguarda il trattamento potenzialmente discriminatorio del singolo lavoratore rispetto al suo diritto di libertà religiosa. Il diritto UE non commette un’ingerenza nel modo in cui gli Stati membri disciplinano i propri rapporti - istituzionali - con le confessioni religiose, riconoscendone anzi l’importanza e lo status che esse detengono nei rispettivi ordinamenti nazionali, come stabilito dall’art. 17 del TFUE . Piuttosto, esso protegge le libertà dei singoli cittadini garantite dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Non tanto un diritto ecclesiastico verticale ma orizzontale, non solo rapporti istituzionali ma tutela della libertà e delle esigenze dei singoli . Sul futuro di questa casistica, occorre notare la recentissima approvazione da parte del parlamento austriaco di una legge che vieta l’utilizzo del velo islamico all’interno delle scuole elementari. Secondo il governo di Vienna, la normativa non colpirà altri simboli religiosi, come ad esempio la kippa ebraica o il patka dei bambini sikh. Occorrerà attendere gli sviluppi e le eventuali controversie giurisprudenziali, tuttavia al momento potrebbe trattarsi di un’altra questione riconducibile all’alveo di competenze della direttiva contro le discriminazioni.
In questa prospettiva, la pronuncia in commento presenta alcuni profili di interesse anche per l’ordinamento italiano. In Italia il riconoscimento delle festività religiose è regolato per legge ed affidato in gran parte alla normativa bilaterale, sia quella concordataria per quanto riguarda la Chiesa Cattolica, sia attraverso le leggi di approvazione delle Intese con le confessioni religiose non cattoliche ex art. 8 Cost. In questo regime differenziato non si tiene conto di tutte le esigenze religiose, ma solo di quelle concordate con le confessioni convenzionate . Le confessioni che non hanno sottoscritto un’Intesa rimangono invece sottoposte alla legge 1159 del 1929, conosciuta come “legge sui culti ammessi”, una normativa precedente alla Carta costituzionale e di chiara indicazione confessionista.
Le leggi di approvazione delle intese riconoscono determinate festività religiose della confessione convenzionata. Per esempio il giorno del Vesak buddista e il Dipavali degli induisti, anche emanando tramite l’amministrazione pubblica un comunicato sulla data in cui cadrà una determinata festività nell’anno corrente . Sempre all’interno delle relative Intese e della normativa successiva trovano tutela le esigenze festive del riposo sabbatico ebraico e del venerdì degli avventisti. Alcune norme statali che recepiscono accordi sindacali di singole categorie di pubblici funzionari consentono anche a religioni non convenzionate, ma “riconosciute dallo Stato” di accedere ad altri giorni di festività diversi dalla domenica . Come è stato osservato, una prospettiva di gestione delle festività religiose esclusivamente demandata al sistema pattizio, non tiene conto delle esigenze di parità di trattamento tra tutti i gruppi religiosi e delle esigenze della moderna società multiculturale, tanto da ritrovarsi potenzialmente incompatibile con i principi europei sulla tutela delle discriminazioni , rendendo forse necessario ripensare i termini della regolamentazione delle festività religiose nel nostro ordinamento. Il modello pattizio mostra i suoi limiti proprio nella gestione queste problematiche che si collocano al di là delle questioni più strettamente istituzionali dei rapporti tra soggetti religiosi e statali, ma in una dimensione più legata alle vicende concrete del quotidiano, come nel caso di specie relativamente alla fruizione dei giorni di festa dal lavoro legati alle ricorrenze religiose.
L’espressione “domenica è sempre domenica”, che è stata utilizzata per esemplificare “le tante identità soggettive conosciute dal nostro vivere quotidiano”, prende atto che non esista una sola domenica, ma esistono “tante domeniche” tante quante sono le prospettive nelle scelte dei singoli date dal loro background culturale . Per estensione, vi fanno parte anche i momenti di festività religiosa che non necessariamente si svolgono “di domenica” ma costituiscono espressione della “domenica” come sinonimo di “festa”. Nella prospettiva di una gestione esclusivamente pattizia del fenomeno, la praticabilità di godere della festività religiosa in termini civili resta comunque subordinata alle esigenze espresse dalla maggioranza, rimanendo un diritto che può essere vantato solo gli appartenenti a quelle determinate comunità. In questo senso la decisione della Corte di Giustizia può probabilmente contribuire a iniziare a rimettere in discussione il sistema pattizio italiano di gestione delle feste religiose e strutturare un riconoscimento più aperto alle diverse esigenze religiose dei lavoratori.